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Dionisomachia

Summary:

Atena e Odino sembrano aver abbandonato da tempo il mondo a sé stesso; ne risulta una guerra fredda fra Asgard e il Santuario sullo sfondo della Cortina di Ferro post-Seconda Guerra Mondiale. In realtà, le due divinità stanno compiendo un loro viaggio travagliato su Stella Natalis, il mondo che si può lasciare ma mai raggiungere, per ottenere lo status di Reincarnazioni; e mentre su questo mondo si consuma un intrigo violento e pieno di errori fatali, nel mondo mortale di Saint Seiya i Cavalieri d'Oro ottengono la loro investitura, ciascuno dopo un viaggio individuale altrettanto complicato. Senza saperlo, il mondo si sta preparando all'oscurità portata da Saturno attraverso la misteriosa "bile nera", capace di innescare il processo di Nigredo. Vettore improbabile di questa contaminazione sarà la misteriosa Esra, la donna in cui Dioniso si è reincarnato e che scatenerà una guerra contro il Santuario e Asgard, ma chi c'è veramente dietro a tutto quanto?

Notes:

A few words for context which I believe are important!
ENGLISH AT THE END OF THE CHAPTER

- Questa fic è un AU, nel senso che si parte dallo stesso concept e da premesse molto simili per arrivare da tutt’altra parte. Inoltre Saga non è (ancora) impazzito e Aiolos e Shion sono ancora vivi.
- Questa long è parte di una serie ambientata in un multiverso di mia creazione basato sui principi medievali di alchimia, astrologia e teoria degli umori. In questo multiverso i mondi esistenti (che poi sono i vari fandom) sono stati sognati da un creatore sconosciuto, cioè i terrestri sul pianeta Terra, unico mondo del multiverso in cui non esiste la magia. L’evento passato principale dell’oniroverso è il dio supremo Saturno che perde la ragione dopo aver creato la pietra filosofale, e viene consumato dalla bile nera e dal processo di Nigredo; lo stesso destino tocca ai mondi su cui mette gli occhi, dopo averli isolati gli uni dagli altri chiudendo la Via di Saturno che li univa tutti. Il tutto è un po’ la mia allegoria letteraria per la lotta contro il disturbo bipolare e la psicosi. I rimanenti dei planetari creano con quel che resta della pietra quattro Cavalieri di Sidonia, di cui potete leggere nella fan fiction con lo stesso nome, che però NON E’ assolutamente necessario leggere per leggere questa qui (per la quale, secondo me, questa piccola premessa è sufficiente).
- Siccome siamo nel multiverso, ci sono più mondi anche in questa fan fic: i primi tre capitoli sono ambientati nel mondo dei semidei, Stella Natalis, dal quale le reincarnazioni di Atena, Odino e Dioniso stanno cercando di formarsi. Si vede anche il mondo di Elden Ring per un paio di scene.
- La reincarnazione di Atena non è Saori, volevo provare un personaggio completamente diverso. C’è anche la reincarnazione di Odino che arriverà ad Asgard, e quest’ultima l’ho riscritta un po’ più pesantemente osservante della mitologia nordica.
- Per l’appunto adoro la mitologia e ho un debole per la letteratura postmoderna, contaminata e che gioca un po’ con tutto e mescola tutto. Di conseguenza ho fatto parecchi esperimenti e tentativi scrivendo le backstory dei cavalieri d’oro, che sono collocati in contesti un po’ diversi o trattati molto diversamente (si vede maggiormente nella backstory di Camus nella Siberia sovietica, o nel fatto che ho mostrato anche le loro vite di tutti i giorni in tempo di pace, di fatto diminuendo un po’ la solennità generale)
- Le età le ho rifatte tutte come mi tornava meglio, perché non mi trovavo per niente coi cavalieri d’oro ufficialmente ventenni (anche perché sono io stessa un vecchio rudere di 35 anni)
- Tutto questo pasticciare potrebbe non incontrare i gusti di tutti, anche se il mio sforzo principale è stato mantenere tutti in character anche al netto del cambio di tono. Se comunque gli vorrete dare una possibilità, io sarò al settimo cielo <3
- Siccome fra lavoro, casa, cani, gatti, vita in generale sono estremamente incostante e pigra su AO3, tenete presente che se per esempio ho pubblicato due capitoli in realtà ce ne sono altri già completi. Per il link al drive dove carico invece tutto puntualmente basta che mi scriviate un messaggio!
- Grazie per essere qui. Davvero ç_ç

NB: La storia dei gold saint comincia dal capitolo 5 — prima c’è la storia di Atena e Odino

(See the end of the work for more notes.)

Chapter 1: L'Eufonia del Sagittario

Chapter Text

« Invero, il Creatore è uno ed è tantissimi, come una mente alveare che ha dato vita a tutto l’universo; e alcuni ritengono che egli od essi si trovino da qualche parte su un pianeta minuscolo collocato ai limiti estremi dell’Oniroverso; di esso si dice che, curiosamente, sia l’unico luogo dell’universo dove non esiste la magia; ed il Creatore l’ha chiamato solamente Terra, perché tale è la semplicità di questo misterioso luogo che muore ogni giorno. 

Eppure il Creatore con i suoi miliardi e miliardi di menti ha creato molti esseri viventi che popolano l’Oniroverso: perché Egli vive senza magia e dunque la desidera ardentemente, senza sapere che possiede già la magia delle Storie, la più potente e immortale forza creatrice. 

[…] Gli Dei sono infiniti. Il Creatore ne ha sognati a centinaia per la Terra, e poi ha creato miliardi di mondi con altre centinaia di Dei. Ma alcuni si sono creati da soli, abusando del dono ricevuto: questi sono gli Dei Planetari, i più potenti di tutti, nati dalla Pietra Filosofale. E tra loro il più potente ancora è Saturno, imperatore dell’Oniroverso tutto; ma Saturno divenne il Grande Malefico in preda alla pazzia, e gli Dei Planetari caddero in uno stato di sfacelo. 

Vi sono poi i Semidei. I più grandi, benché artificiali, furono i quattro Cavalieri di Sidonia, ma essi dopo dodicimila anni di guerra caddero infine sotto l’oscurità profonda di Saturno, ed essi sono ormai scomparsi, e con loro ogni speranza. Con la loro scomparsa, molti nell’Oniroverso hanno dimenticato ogni cosa, hanno dimenticato di quando le galassie erano collegate, hanno dimenticato Saturno e vivono rinchiusi. 

Esistono decine di specie diverse di Semidei […] e tra queste vi sono anche gli Incarnati. 

Gli Incarnati vengono al mondo segnati dal destino di ospitare nel loro corpo la reincarnazione di un Dio, ma molti si perdono lungo il cammino; coloro che vi si attengono, invece, ri-iniziano la loro vita già adulti presso il mondo irraggiungibile di Stella Natalis, che si può solo lasciare, mai raggiungere. Su Stella Natalis questi Semidei affrontano le prove necessarie per ottenere le Regalie del loro Dio, e durante questo percorso vengono chiamati Pellegrini: su Stella Natalis accumulano potere nel corso di lunghe decadi, per poi divenire immortali e lasciare il mondo natio in cerca del loro destino; e solo quando il Dio infine li riconosce essi diventano davvero Incarnati. 

Esistono anche classi inferiori, originate dall’accoppiamento di Dei o Semidei con altre creature di vario genere. […] Un esempio sono gli Esperidi, che hanno lo sguardo malinconico perché sono esseri dell’eterno tramonto, nati da una lontana ascendenza di Dei e Titani; essi sono considerati estinti, giacché erano sì giovani in eterno, ma non immuni al venire uccisi, e Saturno li volle sterminare; ma gli studiosi li volevano nobili e bellissimi, in possesso di magia e guardiani della stessa, perché stare di guardia a ciò che è luminoso era la loro vocazione eterna. 

[…] È ricco questo Oniroverso di creature e di menti che tutto possono. Ma senza i Cavalieri di Sidonia, è destinato, nel giro di qualche decina di migliaia di anni, a rattrappirsi completamente nell’abbraccio mortale della Bile Nera di Saturno. »


PARTE 1: BAD MOON RISING
Capitolo 1: L'Eufonia del Sagittario

« Noctua ».

La voce non era né maschile né femminile, e non era né urgente né importante, o così sembrava. Tutto pareva futile, in quel mare di stelle. E lei se ne stava lì sospesa, sovrastata da una grande nebulosa che vegliava come un occhio, quasi svenuta, con in mente un canto armonioso di donna.

Era forse il suo cuore che stava cantando? Ma era sempre stata stonata come una campana. 

Stava dimenticando il viso di suo padre. Nel ricordo le appariva come un manichino senza la faccia dipinta. 

« Tra poco ti sveglierai. Non ricorderai più nulla della vecchia vita; e anche chi ne faceva parte non ricorderà più nulla di te ».

Non era male. Era perfino confortante… forse la rallegrava, addirittura. Il mare di stelle era profondo all’infinito in qualsiasi direzione, e l’infinità continuava a crescere mentre la materia tutto intorno veniva fatta e disfatta. Cosa importava una vita?

E poi, in fondo, niente di tutto ciò la stupiva. A casa non era mai stata di casa. In definitiva non era meravigliata di quell’oceano di galassie e di tutti i mondi che si percepivano in lontananza: aveva sempre saputo che erano lì, malgrado nessuno ci credesse. E quanto aveva sognato di nuotare fra le stelle, galleggiando come adesso, dove non arrivavano le aquile, dove c’erano gli alieni. 

« Non si tratterà di una vacanza. Il sollievo che desideri dovrà essere pagato col sangue. Tu cercherai le Regalie su Stella Natalis, un mondo dilaniato da conflitti. Ascoltami bene: la civetta ti guiderà verso l’ulivo, l’elmo, lo scettro di Nike, lo scudo e l’Egida. Rimani sul cammino, tieni un passo costante e tutto si risolverà per il meglio ».

Noctua richiuse gli occhi, abbandonandosi completamente mentre con un sorriso sardonico pensava: “Ma quanto la fai lunga”. 

 

Non ci fu quasi transizione. 

La cosa che Noctua vide pochi secondi dopo, o così le parve, fu una terra distrutta e ridotta alla fumante desolazione. Si accorse di trovarsi adesso in ginocchio su un terreno bruciato e zuppo di sangue. 

Non era né giorno né notte: al posto del cielo, c’era lo spettacolo scintillante della galassia profonda. Enormi isole rocciose galleggiavano nell’aria insieme a svariate lune, e il cielo era percorso anche dagli enormi anelli di un pianeta che orbitava chissà dove, vicinissimo. Noctua vide volare sul cielo stellato delle strane mante spaziali. Quella era Stella Natalis, allora?

Dappertutto vi erano cadaveri. Accanto a lei giaceva un ragazzo diviso in due parti, le interiora come una ghirlanda. Poco più in là una donna conficcata su uno spesso palo appuntito. E tanta gente ridotta a una poltiglia piatta, schiacciata da qualcosa di enorme. Noctua non fece nemmeno in tempo a respirare: un vomito di bile le schizzò fuori dalla bocca.

Barcollando, si alzò in piedi. La puzza di morte e di bruciato era davvero insopportabile. 

Il campo di battaglia, che un tempo doveva essere stato la periferia di una città, si estendeva per chilometri. Si vedevano diversi edifici in rovina, e anch’essi sembravano essere stati travolti da qualcosa di enorme. Su quello che era stato un davanzale di una finestra, di cui restava solo il buco carbonizzato, era riverso a pancia in su un bambinetto col torace sfasciato. 

Noctua vide un lontananza uno spettacolo davvero strano: stagliato contro l’abbaglio di una galassia che sembrava un’esplosione, c’era un enorme ulivo contorto e antico, che doveva essere alto almeno ottocento metri e sorgeva proprio nel mezzo di due catene montuose invalicabili, ridicolmente alte e lisce, come a fungere da cancello per quel che si poteva indovinare al di là del passo. Campeggiava sulla desolazione e fungeva da appoggio per una vera e propria città costruita sulle sue numerose nodosità. Già da quella distanza, Noctua fu capace di vedere che l’ulivo sanguinava dalla corteccia. Pioveva sangue dalle sue foglie. 

« L’ulivo, » disse, con la voce traballante a causa della nausea. 

Decise di incamminarsi in quella direzione, mossa non tanto dalle parole che aveva udito nello spazio, quanto piuttosto da una specie di istinto che pungeva e fremeva in fondo alle interiora. 

Dopo qualche passo si imbatté in un gruppetto di persone vestite di un bianco sporco di fango e sangue, che indossavano maschere da medici ed erano, a quanto pareva, intenti a radunare i cadaveri in una pila ordinata. 

« Altolà, » disse uno di loro, estraendo la spada. Ma aveva paura: tremava. Cosa accidenti avevano passato quei poveracci?

Noctua sollevò le mani. « Non ho cattive intenzioni, » disse. « Vorrei solo sapere dove siamo e… beh, cos’è successo qui. Credo di essere appena rinata, e mi sento come dire perplessa ».

« Rinata? »

Le persone mascherate si rivolsero degli sguardi nervosi. 

« Non so spiegarmi, » ammise Noctua, sempre con le mani in alto. Ma del resto vedevano bene tutti che non era neanche armata. « So solo che non sono venuta per fare del male. È solo che… uh… insomma capisco che detta così mi fa sembrare una sciroccata, ma vorrei… parlare col vostro albero ». 

Abbassarono tutti lentamente le armi. 

Noctua li guardò stupita: dopo una spiegazione del genere si sarebbe aspettata di venir attaccata, semmai, come capita a chi va in giro per le strade affermando di voler conversare con un albero. 

Invece la guardavano tutti, senza muoversi. Noctua non vedeva i loro volti, ma aveva, chissà come, una specie di sesto senso che la informava delle loro emozioni. Anche questa è nuova, pensò. Sono piuttosto ganza. 

« L’energia che emani… »

« Eh? Io? »

L’uomo che aveva parlato buttò a terra l’arma e si inginocchiò di fronte a lei. Noctua stava per protestare o per esclamare qualcosa di incredulo, ma anche gli altri fecero subito lo stesso.

« Ehm… vi prego, alzatevi. Mi avete presa per un’altra ».

Ma il primo uomo che si era inchinato era praticamente aggrappato alle sue caviglie.

« Bentornata, » le disse, commosso. 

 

*

 

Noctua si fece accompagnare fino alla città, che le fu presentata col nome di Eilawa. Era tutto in salita, giacché le strade della città si snodavano sui rami del colossale ulivo sacro. 

Probabilmente era stata una città stupenda, piena di magia e di bellezza: Noctua indovinava i resti di luci e lanterne, aggraziati lampioni e stupendi festoni di luci intrecciati fra i rami, con le piccole casette dagli usci intagliati che un tempo erano state piene di fiori, colorate e drappeggiate di tessuti variopinti. Ma ora l’ulivo sanguinava e le strade erano scivolose e buie. 

Noctua incespicò e di riflesso guardò in giù, e per poco non se la fece addosso. Erano altissimi. 

« Che cosa c’è laggiù? » chiese Noctua per non pensarci. Stava guardando in lontananza: come aveva supposto, Eilawa si trovava a fungere da tappo presso un passo di montagna. A sud, il campo di battaglia da cui era venuta; a nord, oltre la città e le montagne, una pianura sterminata di cui non si vedeva la fine — ma si intuiva, all’orizzonte, una luce davvero intensa che sembrava… cantare.

« Laggiù c’è il Valhalla, la sala degli Einherjar ».

« Chi sono? »

« I morti che appartengono a Odino, che ogni giorno combattono senza sosta per prepararsi al momento in cui verranno chiamati, » spiegò il suo accompagnatore. « Non devi mai andare laggiù. Eilawa ha il duro compito di separare il Valhalla dal resto di Stella Natalis, e per un buon motivo. Moriresti sul colpo. Non andare mai a nord, e non permettere a nessuno di andarci ». 

Infine Noctua venne accompagnata presso un bell’edificio alla convergenza di tanti immensi rami. Il panorama da lì era davvero unico nel suo genere, sembrava che il cielo galattico non avesse fondo. 

Venne fatta sedere su dei gran cuscini a righe e, dopo pochi minuti di attesa, vide arrivare una donna molto anziana con in mano un vassoio con del cibo. Glielo mise con mano tremolante davanti: un panino visibilmente raffermo e qualche oliva. 

« Vi ringrazio per tutto, ma non posso accettare del cibo. Ne avete troppo bisogno, » disse Noctua. 

« Capisco che le tue remore vengano da un cuore gentile, ma ti prego, non ci offendere. Saremo stati anche sconfitti, ma non siamo caduti così in basso da non onorare gli ospiti ».

« Capisco. Chiedo scusa, » disse Noctua abbassando brevemente il capo. Poi mise mano al panino, che era decisamente duro come un sasso. Ne strappò un morso con un certo sforzo e lo masticò meglio possibile. « Cazzo — voglio dire, accidenti, è buonissimo. Curcuma? »

La signora anziana sorrise conciliante. 

« Per rispondere alla domanda che hai fatto dabbasso… ad attaccarci è un mostro di nome Giapeto. Un Titano, che ha marciato sulla nostra città con un gruppo di Giganti ».

« Perché l’avrebbe fatto? »

La signora anziana sospirò, volgendo alla galassia un paio d’occhi un po’ annebbiati. « Siamo su Stella Natalis. Questa è la terra dei Pellegrini che devono diventare Incarnati. Qui vivono molti esseri che detestano i semidei, invidiano l’immortalità che essi possono ottenere, e i Titani sono fra questi. Non c’è mai un giorno su Stella Natalis senza una strage. O i Giganti, o i Titani, o gli Ecantonchiri, o i cannibali, eccetera ».

« Abbiamo anche dei cannibali? Buono, » fece Noctua con una smorfia, continuando a masticare il panino di cemento.

« Sono il popolo di Fenrir. Un lupo d’apocalissi in forma di uomo che solo il Pellegrino di Odino potrebbe controllare. I suoi discepoli sono talmente tanti da popolare un’intera città, Veneficium, e attaccano i Pellegrini e li mangiano vivi, in modo da ottenere parte dei loro poteri, o così credono quegli idioti. Giapeto, invece… lui vuole rubare la Regalia di Atena che ospitiamo qui. E che invece spetta a te. Egli ha già trafugato un’altra Regalia di Atena, la Lancia di Nike. È un collezionista di Regalie altrui ».

« Mh… beh… sinceramente sono un po’ confusa, » disse Noctua, che non sapeva da che parte sbilanciarsi. 

« Giapeto ci ha sterminati quasi tutti, noi che ormai da tanto tempo non sappiamo più combattere senza la guida di Atena, » spiegò mestamente la vecchia. « Ha detto che tornerà fra un anno esatto, e che se non gli consegneremo la Regalia distruggerà l’ulivo sacro palmo a palmo e riverserà su Stella Natalis i morti del Valhalla ».

« Che ansia, » osservò Noctua. « E chi presiede al Valhalla? Voi o Odino? »

« Noi siamo solo il cancello da superare per avvicinarcisi. Un accordo molto antico fra Atena e Odino, diversi in tutto tranne che nell’amore per l’equilibrio. Ma Odino è un dio piuttosto ostico. Le sue prove uccidono tutti i suoi Pellegrini, e così non si reincarna da… da tanto, tanto tempo, » spiegò la vecchietta. « Come ti avranno detto, nella sala dei caduti si trovano gli Einherjar, che colui o colei che ha gli Occhi Fiammeggianti potrebbe guidare in battaglia contro le forze del male in nome di Odino ».

« Sono un grande esercito? »

« Il Valhalla ha 540 porte, ognuna tanto ampia che 800 soldati vi potrebbero marciare attraverso affiancati ».

« Minchia, » disse sinceramente Noctua. « Sarebbe un disastro se venissero sguinzagliati ».

« Solo Odino può controllarli, infatti. Se le porte venissero aperte da altra mano, ho paura che sarebbe la fine del mondo. Per questo Elaiwa è tanto importante… per questo è terribile che ora siamo così fragili ».

 « E voi cosa avete pensato di fare? »

La vecchia apparve profondamente triste. Eppure, coi suoi occhi quasi ciechi guardava Noctua con una sincera, anche se timida, speranza. 

« Non c’è modo di sbagliare la tua aura con quella d’altri. Questa città ti aspettava. L’ulivo, anche se ferito a morte, ora sa di potersi ancora salvare e risuona con te in perfetta sinfonia. Lo senti? »

« Non sento nulla ».

« Prova di nuovo ».

Noctua chiuse gli occhi. In fondo dicevano sempre tutti che alle cose bastava crederci per farle succedere, e lei per natura non era una disfattista. Ma per lungo tempo non udì niente, e pensò che forse erano tutte faccende un po’ new age.

Poi lo sentì piano piano, un campanellino di fata, minuscolo, nient’altro. Era  una vibrazione piccola come un topolino e muta come il passo di un gatto, eppure era una nota purissima. Nemmeno il cristallo poteva produrre un suono simile. Uno spillo in piena fronte che trafiggeva i pensieri, squarciava la cortina di sangue e faceva risplendere il sole. 

« Lo senti? Cosa vedi? »

« Vedo… qualcosa che brilla, ehm… » disse Noctua con gli occhi chiusi, applicandosi al massimo. Ora mi cago addosso, pensava nello sforzo. « Non è più un suono lontano. Ora è proprio una musica bellissima. Ma non è un’orchestra, è come— è come una luce dorata. Io vedo… una creatura alata. No, forse è una scultura… o un’armatura tipo d’oro con le… ali? Ok, non ha senso, lo ammetto. Non capisco… » Aggrottò la fronte, nello sforzo. « Vedo una freccia… sento… un coro? È un coro… troppo bello ».

Noctua riaprì gli occhi. Si sentiva completamente ripulita dentro e fuori. Adesso le sembrava che sarebbe andato tutto bene. In effetti le parve di poter camminare nell’aria e sull’acqua, e fermare Giapeto con un dito.

Si sentiva a casa. Il che era davvero notevole, date le circostanze. 

La vecchietta le stava sorridendo.

« Signora, che significa? »

« È l’Eufonia del Sagittario. Questo è un giorno benedetto. Tu diventerai Atena. Ma non sarà facile ».

« Sì, mi è stato detto… da una misteriosa voce cosmica che mi ha strappata all’affetto dei miei cari o qualcosa del genere, » fece Noctua con una smorfia ironica. « Abbiamo un anno per inventarci qualcosa per fermare Giapeto ».

« Allora ci credi che sei la protettrice di questa città ».

« Beh, non mettiamo il carro avanti ai buoi. Ma sicuramente mi sembra il caso che questo attrezzo di Giapeto venga fermato subito. Allora, che si fa? »

« Come prima cosa devi uccidere Medusa ».

 

*

 

Noctua si alzò massaggiandosi la testa: nel precipitare lì, dopo essersi tuffata nel portale fra i rami più alti dell’ulivo, doveva averla sbattuta da qualche parte — un bel bernoccolo sanguinante. Era strano avere il sangue che scorreva in faccia, e ricordarsi improvvisamente di essere così deperibile. Chissà se le era mai capitato prima. Impossibile da dire: non si ricordava più nulla prima di Stella Natalis. La cosa non la faceva sentire molto bene, ma c’era sempre la possibilità che nella vita di prima fosse stata infelice e che quella fosse una seconda possibilità, e scelse di credere a quello. 

Era finita in uno strano giardino dove splendeva cupamente un tramonto viola e scarlatto. Nell’ombra infuocata del calar del sole, l’erba perfettamente mantenuta del giardino appariva di un verde quasi nero, e le sagome degli alberi erano come fantasmi su uno sfondo color sangue. 

C’erano molti odori, soprattutto l’odore di mela, e il bouquet non era affatto eccessivo o troppo intenso, al contrario era un’armonia che metteva di buon umore. Noctua sentiva di nuovo quella nota dolce e al tempo stesso esilarante che la vecchia signora aveva definito un’Eufonia. 

Eppure era un posto strano e un po’ sconcertante. Ovunque c’erano statue di figure umane o umanoidi, e tutte queste statue avevano dipinta in volto un’espressione di shock. 

Si portò la mano alla testa, in un riflesso involontario di toccarsi il bernoccolo. Ma era scomparso, insieme con la ferita.

Noctua si avvicinò a un albero carico di mele, camminando fra i molti serpentelli che strisciavano sull’erba ben pareggiata. Sembrava incredibile, ma le mele erano d’oro zecchino. Noctua pensò che fosse la classica situazione in cui se avesse sfiorato una mela sarebbe stata fulminata sul colpo, o qualcosa del genere — forse mutata in pietra? Del resto le sarebbe dispiaciuto alterare il giardino; così ritirò la mano. 

« Siete voi? »

Noctua si prese un colpo, cacciò un gridolino piuttosto imbarazzante, e si voltò di scatto. 

Nel riflesso color sangue vide davanti a sé un giovane dall’aspetto piuttosto straordinario. Era infatti quasi completamente rivestito da un’armatura dello stesso materiale delle mele, la quale aveva davvero un aspetto imponente e abbastanza minaccioso, con quelle che sembravano due poderosa corna di caprone avvolte sulle spalle. 

Noctua si immobilizzò, non sapendo se fosse quella la sua prova, e se di fronte a lei ci fosse un nemico. E come avrebbe dovuto occuparsi di un avversario simile? Eppure il giovane guerriero aveva anche un’aria rassicurante. Lunghissimi capelli di un particolare color verde acqua gli ricadevano ai lati di un bellissimo viso e sulla schiena, e il tramonto del giardino si rifletteva come una fiamma in due occhi del tutto tranquilli. 

« Uh… » esitò Noctua. « Io mi chiamo Noctua. Tu chi sei? »

Con sua immensa sorpresa, il cavaliere scese a terra su un ginocchio e chinò il capo. « Sono Shion. Un vostro servitore ». 

« Ma io non ho servitori, » protestò lei, confusa. Perché diavolo si inchinavano tutti, ultimamente?

« Non posso restare a lungo, » disse Shion. « Non posso proteggervi durante questa prova ».

Noctua era esterrefatta. Shion, malgrado fosse uno sconosciuto, sembrava profondamente contrito per il fatto di doverla lasciare, forse addirittura amareggiato. Anche Noctua si accorse di essere un po’ afflitta: non conosceva quell’uomo, ma per qualche motivo il fatto che dovesse andarsene la sconfortava.

« Ma sono felice di avervi vista. Adesso possiamo aspettarvi, » aggiunse. Nel dir così era come pervaso da un profondo trasporto, malgrado il suo atteggiamento rimanesse misurato.

« Puoi… uh… alzarti e darmi del tu? »

Il cavaliere sembrò stupito. Come se volesse rispondere di no, ma al tempo stesso non osasse farlo perché aveva ricevuto un ordine… da lei. 

« Senti… ehm… mi aspetterete dove esattamente? Scusa se è una domanda scema, ma io beh, ho tipo 18 ore di età e non sto capendo molto bene. Come farò a trovarvi? Sempre se sopravvivo al mio primo giorno qui, il che al momento è abbastanza in discussione ».

« Riguardo a questo non c’è nessun dubbio. Sei tu, è chiaro come il sole, » le sorrise il cavaliere. Ma non rispose alle sue domande: Noctua batté un momento le palpebre, e lui era già sparito.  

 

Noctua rimase lì vicino al melo con un tuffo al cuore che non voleva finire. Che motivo aveva di sentirsi così emozionata? Alla fine, raggiunse la conclusione che, per muoversi da quelle parti, avrebbe dovuto cominciare a prendere la cosa come veniva. 

Comunque, fece appena in tempo a finire di calmarsi. Percepì, nemmeno lei sapeva come, un’energia strana — un cosmo, forse? Cosmo. Chissà da dove le era uscito un concetto del genere, ma decise di prenderlo per buono, perché le pareva piuttosto figo. 

Il cosmo che sentiva era uno bizzarro, pieno di malanimo e di sofferenza. Era simultaneamente una sensazione strisciante e un qualcosa che vuotava il cuore, come uno spavento o un attacco di panico. Qualcuno di poco piacevole si stava avvicinando — la sua prova, finalmente? Noctua si rese conto di non sapere cosa fare. Doveva combattere? Così, subito, senza tante cerimonie? Pensò con sgomento a Shion che se n’era andato: ora sì che si sentiva inerme come un lombrico. 

Il cosmo, che veniva proprio da davanti a lei, aveva completamente azzittito l’Eufonia. Noctua vide le mele dell’albero tramutarsi in sassi. Fu strano, ma capì tutto per istinto: quelle statue nel giardino erano state persone viventi. Così, d’impulso, si voltò: faccia rivolta al melo e spalle rivolte al cosmo strano.

Sentì ridere una voce femminile. 

« Non ti servirà a niente darmi le spalle. Ti esporrà soltanto alla mia offensiva ».

« Me ne farò una ragione, » rispose Noctua, alzando le spalle. 

Sentiva sibilare parecchi serpenti. La donna con quel cosmo avanzava scalza, per quel che le pareva di sentire… e voleva veramente tanto uccidere Noctua. 

Ma aveva deciso di prenderla come veniva. 

« Ho detto che ti attaccherò. Il tuo pellegrinaggio finirà alla prima tappa, al giorno zero. Ti perforerò il fegato ».

« Perché? »

« Sei fuori di testa? Ti ucciderò prima che tu uccida me ».

« Beh, questo ti sarà facile da fare pure se te la prendi comoda, visto che non voglio ucciderti ».

I serpenti sibilarono tutti insieme come se fossero stati oltraggiati. 

« Cosa stai… fai sul serio? »

« Tanto per cominciare, non so combattere, » disse Noctua sinceramente. « Non saprei nemmeno dove mettere le mani per farti fuori. Sul serio, mi sfugge proprio la logistica della questione. Quel ragazzo di prima si vedeva che sapeva come si porta il cappello, ma io… »

« Tu dovresti reincarnarti in Atena, la dea della guerra? Fai ridere! » gridò la donna dei serpenti. 

« Sì beh, così mi hanno detto, ma se devo fare la semidea lo farò secondo il mio style ».

« Il tuo… “style”? »

La donna dei serpenti aveva il tono di voce di una che non sapesse se mettersi a ridere o uccidere con gusto. 

« Sei imprigionata qui da quanto tempo? Tutto per fungere da prova della Regalia. In parole povere, sei condannata a essere uccisa da un’aspirante Atena e a non vivere per nient’altro che questo. A me sembra una cosa da pazzi, poi fai te ».

La donna dei serpenti si arrabbiò moltissimo. Ma Noctua non si mosse di un millimetro, e continuò a darle le spalle. 

« “Fai te”!? Questo destino siete voi di Stella Natalis che lo volete! » gridò la donna. « Non fare la santa. Io sono qui come carne da macello per te, solo per questo, e non l’ho certo chiesto io ».

« Infatti, perciò non sarebbe un duello, ma un abuso. È proprio questo che non mi va a genio ».

« E allora perché non ti va a genio preferisci morire? »

« Esatto. È questo il mio stile ».

Noctua sentì un fruscio: se lo aveva interpretato correttamente, la donna aveva abbassato i pugni. Sentì anche il suo cosmo mutare: come se un tornado fosse caduto a causa del suo shock. La donna era esterrefatta, ma la sua rabbia era ben radicata, e continuava a scorrere nel suo corpo come veleno. Al tempo stesso, però, incredibile a dirsi, nutriva la speranza di non dover uccidere. 

« È un trucco? » disse la donna, circospetta. 

« No ».

« Non hai paura di morire? Com’è possibile? »

« No, forse non hai capito. Sono terrorizzata ».

 

Era ancora il tramonto nel giardino, un tramonto che probabilmente durava in eterno. Noctua non sapeva quanto tempo fosse passato su Eilawa, perché a starsene lì in quell’abbaglio per così tanto tempo aveva perso la concezione del tempo. 

Era seduta sull’erba, con i serpentelli che passavano che non le facevano alcun male. Probabilmente questo aveva fatto una certa impressione sulla strana donna, la quale aveva deciso di sedersi a sua volta. Le due erano così sedute schiena contro schiena.

« Io sono Noctua ».

« Io sono Medusa, » rispose l’altra. 

Dunque era lei che doveva uccidere, pensò Noctua. Ma non ne aveva proprio intenzione. 

« Tu non… non somigli alle altre ».

« Come sei finita qui, comunque? Sono state le persone di Eilawa a rinchiuderti qui? Quell’innocua nonnina? »

« Dici la sacerdotessa? Quella dei panini stantii? »

« Io pensavo che fosse perché c’è miseria che erano stantii ».

« No, no, sono proprio così ».

Si misero a ridere. La brezza gentile le sfiorava in volto, e i serpenti sibilavano sommessamente. 

« Non sono stati loro, » riprese poi Medusa. « Quegli idioti, che hanno sempre vissuto nascosti dietro la sottana di Atena, non farebbero male a una mosca. La loro unica colpa è che adesso hanno trovato te e intendono trasformarti nella loro bestia da soma che proteggerà la loro stupida città di imbelli mentre loro non muovono un dito ».

« Beh, saranno pacifisti, che male c’è? »

« I pacifisti sono solo persone che lasciano combattere gli altri. Non vogliono le mani sporche, ma non si faranno problemi a nascondersi dietro chi è più risoluto. Infatti, ti hanno detto di uccidermi, no? »

« Vero ». 

Che buon profumo aveva il giardino, e che sensazione stranamente poetica starsene lì sedute in mezzo a tutti quei serpenti. Noctua però si sentiva anche un po’ malinconica. Forse era il giardino, forse era che non sentiva più l’Eufonia. Non aveva intenzione di uccidere Medusa e superare la prova, ma con questa consapevolezza ripensava a Shion che aveva detto che l’avrebbe aspettata… e sentiva dolore pensando che avrebbe aspettato per niente.

« Ad ogni modo… come mai sei qui, allora? »

« Perseo ».

« Chi è Perseo? » 

A Noctua veniva in mente una battuta idiota con un “trentaseo” me le parve meglio evitare di dirla. 

« Un grande eroe, una di quelle statue col pisello piccolissimo, » rispose Medusa.

All’inizio, il tono a Noctua era sembrato soltanto sarcastico. 

Ma poi, era tutto nel cosmo di Medusa. C’era la notte e un tempio sicuro, ma violato, che si sporcava di qualche goccia di sangue. Noctua riusciva a sentire le grida e le suppliche di Medusa. 

« Era un tormento, un inseguimento per tutta Stella Natalis. Non potevo nemmeno più dormire, perché se ci provavo… io… »

Noctua abbassò lo sguardo, sentendosi miseramente male. Lo sentiva dentro di lei quello che Medusa vedeva quando cercava di dormire. Le gocce di sangue e i vestiti fatti a pezzi. 

« Scappai da lui fino a qui e mi resi conto che… che non potevo più andare via. Finché sono qui dentro, sono immortale. Perché bisogna uccidermi per avvicinarsi a diventare Atena. Ogni volta che risorgo… riesco solo a urlare. Farei qualsiasi cosa per non essere più immortale. Io sono il genere di cosa che non deve essere vista. Che è bene rinchiudere in qualche buco. Avrei dovuto attenermi alla legge delle stelle e farmi uccidere e zitta se questa era la regola, come tutti qui dentro, tutti noi che siamo solo eco infinite di storie già scritte. Invece io ero incazzata. Ero una principessa, andavo a caccia e in guerra coi guerrieri di mio padre. Non volevo essere una vittima. Questo bastò per farmi strappare tutto il mio orgoglio… ero arrabbiata… e per questo ero un mostro ».

« È una schifezza ».

« Non starci tanto a sputare sopra. Devi uccidermi per iniziare il pellegrinaggio ».

« Ma zero. Io ti tirerò fuori di qui, invece ».

Noctua sentì che le venivano gli occhi lucidi ripensando a Shion. Ma perché, si chiedeva? Ci aveva scambiato due parole a fatica. Insomma, va bene che era bello ma neanche a dire che si era innamorata sul colpo. Come poteva avere una tanto schiacciante sensazione di perdita? Perché si sentiva così dolorosamente separata da persone che non conosceva neanche? E soprattutto… erano loro che cantavano? Cosa significava l’Eufonia? Le pareva di poter andare in capo all’universo per sentirla ancora, ma non sarebbe andata proprio da nessuna parte se non superava la prova. 

Ma aveva deciso. Era stupido, ma in qualche modo sapeva che, se avesse tradito Medusa, quello strano guerriero vestito d’oro non avrebbe potuto riconoscerla. Lui si era fidato ciecamente di lei. Noctua si sentiva sulla strada giusta, e questo era quanto. 

« Ti ho già spiegato come la penso. Ora mettiamoci piuttosto a ragionare su un modo per uscire di qui, » disse, del tutto convinta. 

 

Fu in quel momento che Noctua vide una cometa d’argento trafiggere il cielo scarlatto. La cometa fece un giro sulla volta celeste e quindi iniziò a precipitare verso di loro a velocità sostenuta. 

Noctua non ebbe il tempo di capirci qualcosa, e per istinto su buttò con tutto il corpo sopra Medusa, per proteggerla dallo schianto. 

Ma la cometa non ferì nessuna delle due. Al contrario, una volta atterrata, oscillò per un po’ nell’aria come un piccolissimo globo solare, e quindi prese corpo e si trasformò in un grosso cavallo alato, bianco come la neve, con la criniera lunghissima e gli occhi color dell’ambra. 

« È il nostro passaggio! » disse subito Noctua, già tornata di buon umore. 

Medusa, ancora sconvolta per come l’altra si era comportata per proteggerla, si rialzò continuando a darle le spalle.

« Come diavolo fai a esserne sicura? Da quando sei in questo giardino ti comporti come una pazza, te ne rendi conto o no? »

Ma Noctua stava lisciando allegra, e rapita, il dorso del cavallo alato.

« Non capisci? È il segno che questa è la strada giusta! » esclamò. È il segno che non li ho delusi. « Adesso andiamocene da qui. Per il pellegrinaggio si troverà sicuramente un’altra soluzione. Tu sai andare a cavallo? No perché io sicuramente casco di sotto. Ma non vieni? »

Noctua non poteva vedere Medusa, perché doveva darle per forza le spalle. Ma il tono di voce con cui la sua strana amica parlò per poco non le spezzò il cuore. 

« Vorresti… guardarmi? »

« Se ti fa piacere sì, sarei onorata. Però, come si può fare? »

« Chiuderò gli occhi, così non ti pietrificherò. Il che significa che dovrai fidarti di me col rischio di morire ».

Ancora con le mani sul dorso del cavallo alato, e con le spalle che tremavano un po’ per la paura, Noctua rispose: « D’accordo. Ci sei? »

« Ci sono ». 

Noctua sentiva che il cuore le saltava fuori dalla bocca con una capriola. Poteva benissimo essere quello, l’istante prima della morte. Strinse i denti e si voltò velocemente, senza starci tanto a pensare.

Medusa aveva gli occhi chiusi. 

« Non ho parole, » esclamò Noctua. 

« Come? » chiese Medusa, timorosa. 

Noctua si avvicinò a lei. « Si può essere più fregne? »

« Ma cosa dici? »

« Io farei un intero pellegrinaggio solo per avere i capelli come i tuoi, » disse  Noctua. Stava toccando i capelli di Medusa, che erano in realtà serpenti vivi. Le si attorcigliavano intorno alle dita senza ferirla, ed erano stupende creature rosse come il sangue. « Hanno dei colori fantastici, ti fanno sembrare una queen. E il tuo viso… »

Al tocco di Noctua sulla guancia, Medusa si ritrasse di scatto. « Ma di cosa stai parlando? Non vedi le squame, le zanne da cinghiale e la barba? »

« Sì, e magari anche le zampe di pollo già che ci siamo, » rise Noctua. Le toccava il viso perché anche Medusa potesse sentirlo, pur non potendolo vedere. Le labbra erano di un bel color pesca, piene, imbronciate e dalla forma perfetta; le guance sembravano porcellana. « Non so di che stai parlando. Il tuo viso è quello di un angelo. Chi ti ha detto che sei in quel modo? Perseo, vero? Beh, scusa se te lo dico, ma come hai potuto credergli? »

Medusa era folgorata. 

« Non mi sono mai guardata allo specchio. Gli specchi si rompevano… Era facile credergli ».

« Facciamo una cosa, vediamo se funziona ».

Noctua si frugò in tasca. I suoi vestiti e il contenuto delle tasche dovevano essere quelli con cui, in qualche modo, era morta per rinascere su Stella Natalis. 

Tirò così fuori degli occhiali da sole da aviatore e uno specchietto da trucco tascabile con sopra stampato una specie di gufetto grasso.

Malgrado Medusa avesse paura, Noctua le fece inforcare gli occhiali neri. 

« Apri gli occhi ».

« No, no, smettila. Non può funzionare una cosa del genere ».

« Coraggio, sempre a bubbolare ».

Noctua le mise in mano lo specchietto e poi, comicamente, si abbassò subito come un soldato quando viene lanciata una granata — non si sa mai. 

Medusa si guardava nello specchio a bocca aperta, incapace di parlare. Lo specchietto non si rompeva. 

La donna si guardava da tutte le angolazioni, si toccava il viso, faceva le smorfie, non era capace di crederci. Di sotto gli occhiali, iniziarono a scendere le lacrime. 

Continuando a fare la stupida per sdrammatizzare, Noctua si rimise in piedi davanti a Medusa. Quest’ultima apparve completamente scioccata quando si accorse che Noctua non diventava pietra. 

« Hai rischiato grosso, cretina, » la rimproverò. « Com’è possibile che abbia funzionato una cosa così stupida? »

« Oh, vacci piano, » si offese Noctua per scherzo. « È stato un colpo di genio ».

Medusa le porse di nuovo lo specchietto.

« Ehi, » disse Noctua, confusa. « Sullo specchio è rimasta impressa la tua faccia. Com’è possibile? »

Medusa sembrava rapita. « È il Gorgoneion… Tu hai “preso” la mia testa… hai superato la prova! »

« Il… che? »

Non fece in tempo a finire il discorso. Un’abbagliante luce dorata la avvolse, tanto che anche Medusa fu costretta a chiudere gli occhi e ripararsi il viso con il braccio. 

Quando la donna potè riaprire gli occhi, vide Noctua in piedi circonfusa da un bagliore solare. Era comparso al suo fianco uno scudo rotondo che brillava come oro, con sopra scolpito il volto di una Gorgone. Medusa si mise a ridere quando Noctua cercò di sollevarlo, ma era troppo pesante e finì per farselo cadere sul piede. 

« Direi che ti manca ancora il physique du role per fare Atena ma… bel lavoro, svampitella, » le sorrise. 

 

 

Un anno dopo

 

 

 

 

 

 

Sotto il cielo galattico, i milioni di luci magiche della nuova Eilawa tremolavano come fate. Brillavano come lucciole fuori dagli usci (mai chiusi a chiave) e dai davanzali, tracciavano il contorno delle strade di legno costruite sopra i rami dell’ulivo, decoravano la metropoli pensile come festoni. Eilawa cercava di dimenticarsi che l’anno era passato, e in più credevano tutti ciecamente che Giapeto sarebbe stato respinto. Una bella pressione sulle spalle, per la svampitella. 

Con gli occhiali da sole inforcati, Medusa si avvicinò a lei, che di fronte a un parapetto scrutava la pianura a sud. Noctua stava sempre in piedi un po’ come una donna e un po’ come un uomo. 

Che cambiamento rispetto a quando si erano conosciute, e lei aveva avuto addosso quegli strani capi e quelle scarpe che chiamava “Converse”. Gli industriosi abitanti di Eilawa, nuovamente ispirati a creare con le mani dal giorno del suo arrivo, le avevano confezionato dei vestiti più adatti. Era vestita dunque comodamente, in modo da potersi muovere bene, in lino e cotone color avorio, con alcune parti del corpo fasciate da protezioni di cuoio finemente lavorate, e di cuoio erano anche il paio di preziosi sandali che indossava. Gli abiti lasciavano qua e là in mostra porzioni del corpo, che ora era muscoloso: Noctua aveva lavorato sodo nel corso di un anno, e aveva iniziato a comprendere il Gorgoneion, la sua magia, la forza che le richiedeva, sia esteriore che interiore. Era cambiata e però, insieme, non lo era. Era una donna, forse una dea, e sembrava ancora una ragazzina. 

Noctua le sorrise quando lei si avvicinò, ma continuava a guardare la pianura. 

« È passato un anno, » disse. « Sta arrivando ».

Quanto aveva paura. 

« Lo sai perché nel giardino ho esitato a ucciderti e alla fine ti ho creduta? »

« Per via del mio fascino olimpico? » disse Noctua. 

« No, » rispose Medusa, assestandole uno scappellotto. « Perché dopo un’eternità di violenza piangevo la notte nel desiderio di un cambiamento. Tu sei quel cambiamento. Puoi cambiare le cose ovunque tu vada. Perciò non morire. Poi, devi ancora raggiungere il tuo misterioso popolo ».

« Boh, » disse Noctua. « L’avrò visto davvero quell’uomo quella volta? Il più delle volte mi sembra che sia stato un sogno ». 

« Beh, siamo nell’Oniroverso. I sogni contano più di tutto il resto ».  

Noctua si rivolse verso di lei con un sorriso sincero e forse un po’ commosso.

 

*

 

Il Titano avanzava sulla pianura — che un tempo aveva accolto Noctua come una distesa di cadaveri ammassati, sangue, budella, deiezioni e miseri resti. Ora la pianura era fiorita, ma sembrava tremare di paura al passaggio di Giapeto. 

I due si trovarono così uno di fronte all’altra. Noctua da una parte, con alle spalle la città di Eilawa che stava ai parapetti col fiato sospeso. Si era raccolta i lunghi capelli castani in una crocchia disordinata, come soleva fare in certi casi. Giapeto le stava di fronte, e dietro di lui c’era un esercito mostruoso e un gruppo di Giganti. 

« Salve, Giapeto, » disse Noctua.

« Ci conosciamo? » ironizzò il Titano. 

Forse era camuffato, in quel momento, perché appariva come un uomo, anche se molto alto, anche gradevole, con i capelli biondi e dei lineamenti particolari; l’espressione sul suo viso non sembrava quella del pazzo che Noctua si era più o meno figurata nel giro di un anno. Tuttavia, Giapeto brandiva con arroganza la Lancia di Nike. 

« Per ora no. Io so solo che sei venuto a rubare la Regalia ». 

« E io so solo che davanti a me c’è una ragazzina disarmata. Sono poche informazioni per imbastirci un discorso, capisci ».

« Giusto. Ecco perché te ne darò subito un’altra. Lascia stare Eilawa. La Regalia non si trova più lì ».

A queste parole, sotto la volta galattica si scorse un balenio, e il Gorgoneion apparve in un lampo al braccio sinistro di Noctua. 

Giapeto cambiò per un attimo espressione, ma comunque non parve eccessivamente turbato. Al contrario, forse era felice che la Regalia sarebbe stata così semplice da ottenere.

« Tu sei la nuova Pellegrina di Atena, infine ». 

Noctua stese il braccio e puntò il dito con molta decisione verso il Titano. « E tu, bel fusto con un naso di grande personalità, sei la mia seconda Regalia. Ma sono disposta a rinunciarci, se acconsenti ad andartene per sempre ».

Giapeto rise forte. Con la sua risata, tremò la terra di un basso che veniva da molto in profondità. « Rinunciare a una Regalia per proteggere una città, e senza pensarci due volte? Non sei niente senza la Lancia di Nike. Non dovresti buttarla via così ». 

Noctua, ignorando il cosmo di Giapeto che le batteva nel petto come un tamburo, inclinò il capo e assunse un’espressione di sfida. « Bel tentativo, ma io sono io a prescindere da una lancia. Tu chi sei invece? Visto che ti appropri di Regalie d’altri?

« Non ho più voglia di parlare con te, piccola. Adesso muori, non voglio starci tutto il giorno ».

Giapeto sollevò la mano, come a far cenno all’esercito alle sue spalle, contro il quale Noctua era sola.

« Ma dai, io sola soletta e tu mi mandi contro l’esercito e i Giganti? Sei così debole, Giaps? »

Giapeto esitò un attimo, dopodiché sorrise, arrogante, e abbassò la mano. 

« Quando hai ragione hai ragione, » disse. « E sia. Difenditi, allora ».

Giapeto non perse altro tempo. Dritto verso Noctua si scatenò una rapidissima falce di magia nera come la notte, che non lasciava spazio in nessuna direzione per la schivata.

Noctua, ritta come una colonna, compì un movimento aperto col braccio sinistro; si udì un tonfo spaventoso, tale che all’ulivo sacro caddero parecchie foglie, quando la magia di Giapeto incontrò il Gorgoneion e fu respinta completamente. Intorno a Noctua, per l’impatto, si era creata una vera e propria voragine, e il solco proseguiva indietro, lungo trecento metri e profondo venti. 

« Bene, mi sono difesa. Qualche altra richiesta? »

« Ti toglierò quel sorriso dalla faccia, » ringhiò Giapeto. 

Nella sua mano, la Lancia di Nike cominciò a squassarsi con un’orribile vibrazione disarmonica; venne poi ingolfata da un bagliore sinistro, e sembrò colmarsi di malanimo. Era posseduta da un cosmo talmente malvagio, e tale era lo stridore che produceva cercando di ribellasi, che a Noctua venne quasi da vomitare, e le pareva che le sarebbero esplosi i timpani. 

Giapeto la mulinò ancora e ancora, e qui scavava un cratere per terra, qui gli sfuggiva un raggio che colpiva le montagne accanto a Eilawa e ne strappava qualche pezzetto, qui deformava il cielo e polverizzava la terra; a volte, nella foga, colpiva anche qualcuno dei suoi, e addirittura un Gigante cadde morto sul colpo. Dalla Lancia di Nike eruttavano demoni volanti, spiriti mortiferi, orrende maschere da incubo, e un tipo di magia particolare che sembrava creare la stessa pressione che doveva gravare sulle spalle di Atlante. 

Ma Noctua sembrava imprendibile, sebbene non utilizzasse nemmeno lo scudo. Schizzava in tutte le direzioni come un vero e proprio fulmine, e malgrado Giapeto in un minuto avesse colpito trentadue volte, vi erano state trentadue schivate. Noctua non era neanche ferita, solo un po’ sporca: gli attacchi di Giapeto avevano sollevato una tempesta di pesante polvere che aveva nascosto perfino il cielo. 

« Quando ho detto “difenditi”, » sibilò il Titano, « non volevo dire che non dovevi attaccare. Non ti stai impegnando molto, vero? »

« Sono qui da un anno e non ho mai ucciso nessuno, e sento dire che è un bel record su Stella Natalis. Sinceramente non vorrei sciuparlo proprio ora, » rispose Noctua. 

Giapeto non sembrò gradire, e stavolta non usò la lancia, ma la nuda mano: verso Noctua si impennò un’onda d’urto nera che di nuovo colpì lo scudo, ma stavolta la Pellegrina fu lanciata per aria per l’impatto e cadde a terra come una bambola, col braccio dello scudo rotto scompostamente. 

Noctua digrignava i denti e sudava copiosamente acqua gelida per il dolore. Ma si afferrò il braccio rotto in uno dei punti in cui l’osso troncato veniva fuori, strinse e torse con decisione, urlando e piangendo lacrime di fiele. Il braccio tornò a posto, ma lei si sentiva morire.

« Prima volta che rigeneri un arto intero, vero? Voi Pellegrini avete questa fortuna, » la canzonò Giapeto. « È bene che ti avvisi, però, in base alla mia esperienza nel cacciare quelli come te: quel braccio per due o tre giorni sarà debole. Non dovresti strafare ». 

Noctua non riuscì a rispondere per le rime, questa volta. Le veniva da vomitare, le si incrociavano gli occhi e aveva le vertigini. Comunque, si applicò per rialzarsi lentamente in piedi, appoggiandosi al Gorgoneion. 

Giapeto non le lasciò concludere l’operazione. Produsse una nuova onda d’urto e di nuovo colpì la ragazza duramente, tanto che si udì distintamente l’ulivo sacro gemere; Noctua dovette fare ricorso a tutto il suo cosmo per rigenerare parte della spina dorsale: se non avesse fatto in tempo, rigenerazione o no, sarebbe morta. 

« Non sei molto sveglia, » osservò il Titano. « Vorresti diventare Atena? Sì, Atena è il suo scudo, è protezione, ma Atena è anche armata di Lancia. Tu mi sembri solo un’ipocrita che con la scusa del nobile sacrificio è solo una comune vigliacca ». 

« Non l’ha… deciso nessuno che debba sempre tutto finire con qualcuno che muore. Io e te possiamo trovare un accordo. Vorrei solo parlare civilmente, » disse Noctua, di nuovo cercando di alzarsi barcollando. Era vero, sentiva il braccio sinistro debole come quello di un neonato, e adesso anche la sua schiena era nelle stesse condizioni, tanto che le parve di far fatica anche a tenere la testa in posizione.  

« Oh, perché pensi di potermi cambiare? Le donne sono davvero tutte uguali, » la prese in giro Giapeto. « Sei su Stella Natalis, ragazzina. Hai vissuto finora sul tuo bell’ulivo pacifico e non hai idea di come funzionino le cose qui. La strada per il tuo destino è impiastrata di sangue, per reincarnarti in Atena dovrai percorrere una scala costruita da cadaveri. Per la cronaca, non ho intenzione di accettare nessuna ulteriore offerta. Otterrò il Gorgoneion uccidendoti, perché i miei saloni sono adorni di teste di Pellegrini ben conservate, e la tua non può mancare alla mia collezione ». 

Giapeto avanzò verso di lei che era ricaduta a terra bocconi, e a fatica si puntellava sui gomiti. Il Titano, col piede rivestito di armatura, le sferrò un calcio nello stomaco; seguitò poi a calciarla sulla schiena, fin quando Noctua non si mosse più.

« Incredibile, sei ancora viva, » si rallegrò Giapeto. « Io ti voglio uccidere, lo capisci, stupida verginella guerriera? Che male ci sarebbe se tu mi attaccassi per salvarti la vita? Ma tanto ormai non puoi fare più nulla. Ti dico addio, come l’ho detto ad altre due Atena fallite prima di te ».

Giapeto fece un balzo indietro: aveva intenzione di uccidere Noctua con un’ultima magia. Ma in quel momento, proprio mentre il Titano alzava la Lancia, si sentì un urlo belluino. 

Giapeto si voltò senza esserne particolarmente impressionato, e vide una donna correre verso di lui da lontano con una spada in mano.

« Toh, una Gorgone, » disse il Titano, indifferente. « Amica tua? Beh, già che ci siamo… »

« No… » gemette Noctua, troppo rotta in troppi punti per riuscire ad alzarsi. Gli occhi erano sbarrati. Trovò dentro di sé, chissà come, la forza di gridare: « Medusa! Vattene via! »

Medusa non la sentiva nemmeno, presa com’era dal furore di proteggerla. Giapeto mosse appena un dito… e Medusa dapprima si immobilizzò lì dov’era, a mezza corsa; poi le cadde la spada di mano; e infine il suo corpo si squarciò, e di lei non rimase più niente. 

« Medusa! »

Giapeto rideva. I brandelli di Medusa caddero a terra con un raccapricciante rumore di molliccio. 

« Che ingiusta la vita, vero? » sorrise il Titano. « E pensa: una volta che sarai morta, lo stesso accadrà all’intera Eilawa. E tutto perché loro si fidavano di te, ma tu sei debole. Hai imparato la lezione, Pellegrina? ».

Giapeto stava di nuovo per attaccare, ma dovette fermarsi, sbigottito. 

Noctua si stava inequivocabilmente alzando in piedi. Il suo corpo era interamente in via di rigenerazione e dunque era debole come quello di un verme, non avrebbe dovuto nemmeno reggersi sulle caviglie… ma si stava alzando. 

E per giunta, era avvolta da una luce sfavillante, simile a quella di un sole, mentre la sua aura stava diventando talmente immensa da sembrare che nemmeno Stella Natalis, la Terra Infinita, potesse contenerla. Era un’aura piena di rabbia e di dolore, e intanto era del colore dell’oro purissimo, quasi che nel lutto fosse pur sempre presente una disumana serenità. 

« Medusa era una donna incredibile, » diceva Noctua col viso generosamente rigato di lacrime, mentre la sua aura cresceva ancora e ancora. « Era una donna che aveva sofferto l’impossibile e aveva quasi perso sé stessa, ma era riuscita comunque con le sue sole forze a conquistare il dolore. Era forte e gentile, sembrava una regina delle leggende… era un vero miracolo di donna. Non è possibile che l’abbia uccisa tu. Che sei solo un  comunissimo mostro ». 

Giapeto tentò di rispondere, ma scoprì di non riuscirci: l’aura straripante della Pellegrina, quasi che in quel momento si fosse tramutata nella dea in persona, produceva una pressione talmente assoluta su di lui da comprimergli i polmoni fra le costole e strappargli la parola.

Noctua, col corpo in pezzi, stava dritta come un fuso e brillava come una stella. 

« Ho imparato la lezione, Giapeto, proprio come volevi. Ma non diventerò come te. Io sono io… te l’ho detto. Andrò avanti sulla mia strada, mai sulla tua. Stella Natalis non mi renderà malvagia. Perché da qualche parte mi stanno aspettando, e io non li farò vergognare di me ». 

La gente di Eilawa a quel punto assistette a uno spettacolo straordinario: il cielo galattico, sempre così oscuro anche se percorso da corpi celesti sfavillanti, divenne pura luce; tutti si coprirono gli occhi e qualcuno anche le orecchie mentre si diffondeva un suono mai sentito prima, forse il suono di una stella che esplode. Non si vedeva niente, non si sentiva nient’altro, e ci fu chi fu preso da euforia, chi da terrore, chi dalla frenesia. 

Poi, il momento finì. 

I cittadini recuperarono così la vista, e si udì un coro di esclamazioni stupefatte. Giapeto non c’era più, completamente polverizzato; lo stesso destino era toccato anche ai Giganti e al resto del suo esercito. La pianura era come rasa al suolo ma dalla nuda terra si levava un oceano di lucciole, e la volta celeste era cambiata, come se fosse stata obbligata a ruotare. 

Noctua era in piedi al centro di quella bellissima devastazione con lo scudo in una mano e la Lancia in un’altra. 

I cittadini di Eilawa ci misero un po’ a capacitarsi, presi com’erano dal magnetismo che li avvinceva completamente alla Pellegrina, ma infine si precipitarono tutti giù con l’intento di festeggiare la vittoriosa. 

Ma Noctua, rimasta sola, cadde in ginocchio di fronte ai resti di Medusa, che erano sopravvissuti alla liberazione del suo cosmo. Le sembrò in quei pochi minuti di piangere tutte le sue lacrime. 

Il cosmo che aveva mostrato un attimo prima non si sentiva più. Ora era fioco e freddo. 

« Mi dispiace, » gemette, piegandosi come genuflessa su quei miseri resti. « È stata tutta colpa mia. Volevo restare fedele a me stessa e ho messo tutti in pericolo… sono io che ti ho uccisa, non Giapeto. Se mi fossi svegliata prima saresti viva. Te lo prometto, » aggiunse, portandosi al volto le mani sporche del sangue di Medusa, « non sarò più debole. Te lo giuro ». 

Noctua, nel pianto, sentì qualcosa tremolarle sulle mani sporche di quel sangue. Con gli occhi annebbiati, si tolse le mani dal viso per guardarsi i palmi. 

Dal sangue era nato, chissà come, il pulcino di un civetta. 

 

Chapter 2: L'Impiccata

Notes:

Facciamo la conoscenza di Odino e assistiamo alla nascita dell'amicizia più forte della storia

Chapter Text

 

Nota dell’autrice: Le canzoni cantate da Sonja sono a volte traduzioni liberissime di canzoni in altre lingue, a volte canzoni in italiano citate esattamente, a volte inventate. 

 

Il drago terreno cadde sull’erbetta stecchita con un tonfo che, in quel regno di defunti, si andò un po’ a perdere in un’aria fredda, stantia e desolata. 

La sua testa, recisa con più colpi insistenti a causa di una lama smussata, cadde un po’ più in là, con un ultimo taglio slabbrato e poco pulito che esibiva una certa ferocia. Il drago aveva patito parecchio prima di morire, perché ci erano voluti quasi venti colpi d’ascia per strappargli completamente la testa dal corpo. Non c'era niente da fare: non si trovavano quasi armi, nell’inferno di coloro che non erano morti in battaglia… e quelle poche che c’erano facevano schifo. 

Sonja barcollò un po’, quindi si premette una mano sulla bocca per soffocare un urlo e insieme il vomito; quando il braccio strappato da un morso le ricrebbe, la ragazza cadde in ginocchio, completamente ripiegata su sé stessa, con la fronte a terra, a piangere in silenzio dal dolore. Aveva dovuto bruciarsi in battaglia il moncherino col fuoco — una delle poche magie che conosceva al momento — perché diversamente l’emorragia l’avrebbe uccisa prima che potesse avvenire la rigenerazione. Ma Mimir amava sentirla gridare, così era stata ben zitta.

L’infinita fiumana di morti, appena ombre senza contorni, che procedevano verso l’ultimo passaggio, non si curava, come sempre, di niente di quello che succedeva lì, alle radici di Yggdrasil. Perciò nessuno di loro ebbe neanche un fremito quando il drago cadde. Andavano avanti come sempre, insopportabili e lagnosi. L’inferno era sempre lo stesso: una specie di infinito pratino di erba morta, una puzza insopportabile di stantio, un freddo cane; Sonja non aveva mai visto il cielo di Stella Natalis e non aveva mai visto anima viva, letteralmente. Da dieci anni. 

« Poteva andare meglio, » osservò Mimir. 

Mimir era sempre stato la sua unica occasione di parlare con qualcuno, perché il resto dei morti non aveva più voglia di parlare di niente. Purtroppo Mimir era uno stronzo. Siccome era soltanto una testa di gigante senza corpo, a Sonja era sempre toccato trascinarselo in giro per le varie fasi dell’addestramento. Quando invece non l’avrebbe voluto toccare neanche con un bastone. 

« Quello di sicuro, » rispose Sonja, sarcastica. Era verde per la nausea e per il dolore. 

« Tu sei risentita con me, non è così? »

« Nooo, perché dovrei? » Si scandalizzò Sonja. « Farmi sorprendere nel sonno da un Lindwurm e darmi un’ascia di cartapesta per farlo fuori è un approccio educativo per il quale ho solo gratitudine. Come ne ho per tutto il resto delle tue idee… Tipo, che so? » E cominciò a contare sulle dita. « Rinchiudermi nel regno dei morti sola come un cane per dieci anni rallegrandoti di tutte le volte che avevo un attacco, togliermi il cibo fino quasi a farmi morire di fame, contarmi i giorni che passavo qui a sentire lamenti e rimpianti solo per farmi star male, drogarmi per farmi entrare in delle trance che in diverse occasioni mi hanno quasi uccisa, togliermi i cinque sensi uno ad uno finché non entravo in coma… sto dimenticando qualcosa, maestro? Forse i cinquecento addominali ogni volta che ti rispondevo un po’ più frizzantina, ma ti dirò, rispetto a tutto il resto, quelli erano quasi carini ». 

La testa del gigante sorrise indifferente. « Se la cosa ti può essere di conforto, il cervello dei tuoi predecessori si è sempre infranto — il tuo, tutto sommato, sta in piedi. Per il resto, apprezzo la tua eloquenza odinica, ma tu sai benissimo che questo era il tuo destino. Quante volte hai cercato di scappare scalando l’albero e ti sono finite le ossa in frantumi? Alla fine hai concluso che ti conveniva darmi retta e sei rimasta a farti addestrare, o sbaglio? »

Sonja incrociò le braccia sul petto. « O ho solo qualche morbosa sindrome nei tuoi confronti visto che, se non conti Hugin e Muninn, sei l’unica creatura con cui posso parlare… ma forse è meglio non avventurarsi nella psicanalisi, sennò magari viene fuori che per me sei una figura paterna e ti giuro che vomito ». 

Non c’era molta soddisfazione a prendersela con Mimir. Non gliene fregava mai niente di niente. Stava lì come un grosso uovo inquietante a non avere un solo problema al mondo. 

Si udì un gracchiare e un frullio d’ali, e Hugin e Muninn, i corvi, arrivarono subito dopo; Hugin su collocò sulla spalla destra di Sonja, Muninn sul suo capo, piegato in giù per parlarle all’orecchio sinistro. Se erano tornati, significava che erano passate altre dodici ore. 

« Io ti ho iniziata ai corvi, la tua prima Regalia, è per questo che hai dovuto soffrire fino a odiarmi con tutta te stessa ».

I corvi le sussurravano nelle orecchie con le varie notizie che avevano appreso dal mondo esterno in tutta la giornata. Sonja ormai riusciva ad assimilare quello che dicevano anche mentre parlava con Mimir, ma a dire il vero preferiva starsene per conto proprio in pace a suonare la chitarra mentre sentiva le loro storie — il suo unico sguardo su Stella Natalis, che non aveva mai visto. Mimir, tanto per cambiare, stava decisamente rovinando il momento.  

« Sai quanti Pellegrini ho addestrato in cinquemila anni? » Proseguì la testa monca. « Nessuno è mai divenuto Incarnato, e molti non sono mai arrivati nemmeno ai corvi. Le prove di Odino non sono come i divertenti giochini che gli altri Dei chiamano prove — ammazza questo mostro, scala questa montagna, e ulteriori fesserie che tu compivi regolarmente come allenamento base. Un vero Pellegrino di Odino non è parigrado con gli altri, » disse con disprezzo. Mimir non aveva mai parole buone per gli altri Pellegrini, e Sonja, non avendoli mai visti se non quando morivano e finivano lì, pensava che dovessero essere tutti dei deficienti molto fortunati. « Odino combatte a fianco ai morti, imbroglia e illude, canta, governa, impazzisce, sa tutto, anche quel che nessuno vorrebbe sapere. Perciò dovrai completare il rito sciamanico che ti spetta oggi ». 

« Oggi? »

« Oggi, » assentì Mimir. « Oggi ho finito di addestrarti, io non posso più insegnarti niente, il resto è in mano tua. Oggi, quindi, scalerai l’albero col mio permesso, tanto per cambiare, e una volta in cima — posto che ci arrivi — farai quel che dev’essere fatto ».

« Non si potrebbe essere un po’ più specifici? »

« Adesso stai facendo l’idiota di proposito, » la rimproverò Mimir, con uno degli insulti più soft che le avesse mai rivolto. « Ti ho insegnato tutto sulla poesia, e la poesia non è specifica. Sonja. Tu hai iniziato il tuo cammino qui, mortale nel mondo dei morti, con aspetto di vecchia. Possedevi già le caratteristiche del Viandante, hai compreso in poco tempo le parole di Hugin e Muninn, sei sempre stata molto precoce rispetto agli altri, ma non potevi assolutamente brandire Gungnir. Mano a mano che ti tempravo ringiovanivi fino alla forma fisica che ti è fondamentale per ottenere la seconda Regalia. Ti ho drogata, costretta al digiuno, spinta sull’orlo della morte e privata ripetutamente dei cinque sensi per darti i mezzi per questa prova, che comprenderà ciascuno di questi aspetti ».

« Ah, quindi era per farmi un favore, non perché sei uno psicopatico ».

« No, infatti ».

Sul volto di Sonja si dipinse un sorriso arrogante e altezzoso. Scagliò l’ascia verso Mimir, e questa andò a piantarsi a un centimetro da lui. Sonja si avvicinò molto, con pura violenza negli occhi verdi.  

« Beh, stai pure tranquillo, testina, otterrò la Regalia prima che tu abbia il tempo di dire un’altra cazzata pomposa. Dopodiché mi recherò finalmente nel mondo dei vivi dove ho intenzione di combattere e uccidere, scoparmi tutto quello che cammina, ubriacarmi tutte le sere e soprattutto fare una cazzo di conversazione. Quando poi mi sarò tolta gli sfizi, tornerò qui e ti ucciderò. In dieci anni ho passato il tempo pensando costantemente a quale fosse il modo migliore per farlo, e penso di avere una buona idea. Aspettami qui con pazienza, d’accordo? Non che ti spuntano i piedini e sgusci via ».

« La veemente ira di Odino ».

Sonja, infastidita dal tono sarcastico, assestò alla tempia di Mimir un calcio rotante talmente poderoso da far rotolare l’enorme testa parecchi metri più in là. 

« Tu non tornerai a uccidermi, Sonja, » disse la testa riversa di lato. 

« Vuoi scommettere? »

« Possiamo anche scommettere, se vuoi, » concesse Mimir, imperturbabile. « Ma non tornerai. Perché quando otterrai la Regalia scoprirai che davanti a te hai una nuova vita di infinite proporzioni, e a me non ci penserai più. O forse tra qualche secolo, se sarai ancora viva e avrai viaggiato per l’universo per raggiungere la tua terra, Asgard, mi ringrazierai ». 

« Forse non hai capito, » sorrise Sonja con cattiveria. « Io non ho sopportato tutto questo casino solo per passare da una prigione all’altra. Niente incarichi istituzionali per me, Mimir, e di Asgard non mi importa un cazzo… invece, ho parecchia voglia di divertirmi. Preparati, perché questo posto diventerà sovraffollato ». 

 

Sonja guardava in su cercando di indovinare la cima di Yggdrasil. Ma non c’era verso. Hugin e Muninn erano già volati su… ed erano scomparsi dietro il velo dell’atmosfera. 

Davanti a lei c’era un intrico di radici nodose e antichissime, di proporzioni colossali e tutte in un discreto stadio di putrescenza. Le stesse radici, immerse nell’acqua morta, si spingevano talmente in alto da far perdere di vista il tronco, da laggiù. Sonja conosceva bene la base dell’albero: ci volevano delle ore per percorrerne tutta la circonferenza, e lo sapeva perché in passato ci aveva passato diverso tempo, a cercare il punto migliore per iniziare la scalata. 

Ma cercare il punto più facile era una baggianata. Doveva salire e basta. 

Si allontanò di parecchi metri per prendere la rincorsa. Saltellò un po’ sul posto per darsi la carica, e poi scattò in avanti e saltò più in alto che poteva. 

 

Sonja cercava di contare i secondi, in modo da darsi il tempo con l’arrampicata, da avere la mente occupata per non pensare alla paura di cadere, e da non perdere di vista il tempo che passava. L’aveva fatto mille volte, ma era sempre caduta, rompendosi piuttosto male. Ora non doveva succedere. 

Con i muscoli tesi e gonfi Sonja si arrampicava, e così fece per un’ora. A tratti saltava da una radice all’altra, in altri punti doveva scalare a mani nude. 

Ma i morti erano esseri senza cervello, mossi soltanto dal riverbero nervoso di un vecchio impulso; ed erano resi frenetici vedendo qualcuno che scappava di lì. Così strisciavano in alto, cercavano di afferrarla. Le prendevano le caviglie e i polpacci, le tiravano i capelli, e toccandola le gelavano le ossa e le riempivano la testa di sentimenti di angoscia che rischiavano di distrarla. 

Nella frenesia di scroccarle un passaggio, alla fine i morti si ammassarono su di lei, aggrappandolesi ai capelli, al collo, a tutto il corpo — era quello il punto in cui le sue fughe erano sempre fallite; Sonja si ritrovò con diversi spiriti aggrappati al corpo, e sembravano pesare una tonnellata per essere patetici ectoplasmi. Sarebbe caduta. 

Ma non poteva farlo. Non avrebbe trascorso un altro giorno in compagnia di Mimir. Il solo pensiero di tutto quello che le aveva fatto la faceva inorridire. 

Raccogliendo la determinazione diede uno scossone col corpo, in piedi sopra una radice, liberando tutta la sua rabbia — ed era parecchia. I morti vennero travolti da un turbine tagliente di ghiaccio; e la magia fu più forte di quanto fosse mai capitato in addestramento, perché congelò un’ampia porzione di albero e fece precipitare giù i defunti, trasformati in grandine. 

Cadendo in pezzi, cessando di esistere, scomparvero alla vista: Sonja d’istinto guardò giù per seguire la loro caduta, ma fu un grave errore. Non si vedeva più il suolo: era il vuoto. 

Sonja fu presa da una specie di crisi, respirava male e il cuore le stava esplodendo, e dovette accucciarsi e aggrapparsi alla radice per la paura di cadere. Aveva gli occhi serrati ed era in preda alla frustrazione: scendere era fuori discussione, ma c’era da salire senz’altro ancora per ore, e più saliva più si stancava, più aumentava le probabilità di cadere. Sudata fradicia, con le mani scivolose, e insanguinata malgrado le piaghe inflittele dai morti si stessero già rigenerando, si sentiva disperata. 

Guardò in alto. Ancora non era possibile vedere la cima, nemmeno lontanamente. Ma non sarebbe tornata da Mimir. E nemmeno sarebbe morta. Voleva vedere il cielo che le avevano raccontato tante volte Hugin e Muninn per farla dormire. 

 

Era un’eternità che saliva. Le radici erano finite da un pezzo, ora c’erano i rami più bassi di Yggdrasil. Inizialmente aveva provato a contare approssimativamente i metri, ma dopo ottocento si era confusa e aveva perso il conto. 

Si dovette fermare su un ramo. Sedette con la testa fra le mani. Era madida di sudore, tutti i muscoli erano rigidi e lesionati. Non si sentiva più in grado di affrontare lo sforzo mentale richiesto; ma doveva farlo, e restare concentrata, perché se avesse commesso un errore sarebbe morta.

« Non ce la faccio, » sussurrò fra sé e sé. 

« No che non ce la fai, » sibilò qualcuno o qualcosa. 

Sonja si voltò lentamente, comandando nel frattempo al cuore di non dare di matto su un ramo così stretto. Sapeva benissimo chi aveva parlato: di lui le avevano parlato Hugin e Muninn. 

Nidhogg aveva l’aspetto di un’enorme lucertola nera dalla coda incredibilmente lunga, e provvisto solo delle zampe anteriori dotate di artigli d’acciaio. I suoi occhi da coccodrillo avevano un’espressione perfettamente vuota. Era lui che si aggirava per Yggdrasil e cercava di farlo marcire.

Non c’era spazio per combattere lì sopra… e Sonja non aveva armi, solo magia — già debole di per sé senza Gungnir, adesso quasi inesistente a causa dello sfinimento.

« È dura salire così, vero? » disse Nidhogg con falsa simpatia.

« Davvero, » ammise Sonja, mantenendo la calma. « Fortunato tu, che puoi andare in cima quando vuoi a vedere il cielo, come si addice alle creature superiori ».

Nidhogg non rispose: aggrappato al tronco, rimase a incombere, gigantesco, su di lei… ma era senza parole. Sonja trattenne a fatica un sorriso astuto: inutile, i draghi erano proprio stupidi. 

« Dev’essere incredibile lassù. Potresti descrivermelo? Vorrei sapere almeno questo prima di morire ».

Nidhogg era in difficoltà. « Non c’è niente di speciale in cima. Solo aquile insolenti ».

« Io le odio le aquile, » disse Sonja, comprensiva. « Con la cosa che hanno le ali e possono andare dove vogliono senza nessun limite, pensano di essere migliori di quelli che stanno in terra. È ridicolo. Ma alla fine sono solo umana, quindi ho sbagliato io a pretendere di poter alzare lo sguardo. Il tuo caso è diverso. Con un balzo puoi arrivare in cima. Divorare le aquile, dominare Yggdrasil, essere un dio. Ti invidio… sei fortunato. Dev’essere meraviglioso ».

Nidhogg restava aggrappato al tronco con le sue misere zampe anteriori, e tutto il suo corpo troppo lungo che minacciava di trascinarlo giù. Non aveva mai visto la cima dell’albero neanche in sogno. Ma si sarebbe vergognato a correggere Sonja… e fremeva, non sapendo se ucciderla subito. 

Poi Nidhogg si accorse che gli occhi verdi di Sonja erano puntati intensamente su di lui. Cominciò a sentirsi strano.

« Un salto è tutto quello che ti ci vuole. Sei il grande Nidhogg — ti conosco, sì, tutti ti conoscono. Un salto e diventerai il signore di Yggdrasil… in culo alle aquile pompose e deboli ».

Nidhogg sentiva fremere il corpo e non capiva. Un salto. Un salto. Un salto. Per quale motivo improvvisamente si sentiva obbligato a saltare? Ma era vero… un salto solamente, lui che era grande più di ogni altro drago, e avrebbe ucciso le aquile, avrebbe visto il cielo, viaggiato per il mondo…

Gli occhi verdi erano intensi e fissi. Un salto. Un salto.

E Nidhogg saltò. Saltò desideroso di raggiungere la cima dell’albero, ma il suo corpo sproporzionato lo trascinò verso il basso — e cadde disordinatamente, lanciando maledizioni, verso la sua morte. 

Purtroppo però nel cadere aveva mulinato disperatamente la coda, e colpito Sonja fino a farle mancare il respiro; anche lei cadde, cercando in qualche modo di aggrapparsi ma senza riuscirci, strappandosi le unghie, fin quando parecchi, parecchi metri più sotto il suo torace incontrò un ramo. Perse conoscenza nel momento in cui le si ruppero le costole. 

 

Sonja riprese finalmente conoscenza. Quella caduta avrebbe potuto finire davvero male. 

Non riusciva a vedere, in alto, il punto da cui era caduta. Era tornata indietro di troppi, troppi metri. La corteccia era perfettamente liscia. La frustrazione le inondò il petto di veleno. Sdraiata bocconi sul ramo, si lasciò andare a un lunghissimo pianto isterico. 

Se lo fece passare appena in tempo: appena si alzò in piedi sul ramo, questo si ruppe, lasciando sul tronco un moncherino fragile al quale Sonja, terrorizzata, si aggrappò all’ultimo momento. E ora se ne stava così, appesa, senza appigli né per scendere né per salire. Forse non poteva farcela. La fatica l’avrebbe vinta. 

« Mi piace come hai ucciso Nidhogg, » disse ancora qualcun altro. « Alle aquile piacerà ancora di più. Non l’hanno mai sopportato, troppo proletario ». 

Sonja si guardò intorno e dapprima non vide nessuno. Poi capì chi aveva parlato. Un piccolo scoiattolo — o così le pareva. Non ne aveva mai visto uno, a dire il vero. 

« Bene, ti conviene riprendere la scalata. Nidhogg era solo uno dei draghi da queste parti. Devi essere veloce se vuoi evitarli ».

« Non posso… » boccheggiò Sonja tremando come una foglia. Stava per mollare la presa. 

« Ma certo che puoi, » la corresse lo scoiattolo. « Devi solo appoggiare i piedi e correre ».

Era ridicolo. Nella disperazione, le veniva da lanciare improperi piangenti contro lo scoiattolo. Appoggiare i piedi dove?

« Va bene, fai la vaga. Credi che non sia capace di riconoscere Odino, io? » si offese la creatura. « Forza, appoggia i piedi. Che ti costa? »

Le costò un tremendo sforzo di addominali, ma finalmente Sonja fece aderire le piante dei piedi al tronco. Adesso sì che stava per cadere. Aveva quasi troppa paura per vivere.

« Ecco, e adesso corri verso l’alto. Però mettiti in piedi, lascia quel coso ».

« Ma che cazzo dici? » urlò Sonja con le lacrime agli occhi.

« Hrami, tu sei una maga. Se non riesci a fare una così semplice come il Passo di Corvo tu, chi deve farlo? »

« Io non so chi sia Hrami! »

« Hrami, ossia Colei che Incatena e Smembra. Insomma, tu, no? Lascia la presa ».

« No, no, no! »

« Se non ti fidi di te stessa, non otterrai mai la Regalia. È questa la vera prova, non l’hai capito? Lascia la presa ». 

Sonja serrò le palpebre, smise di respirare e lasciò la presa. 

 

Sonja quasi non osava aprire gli occhi. Non solo era viva, ma non stava nemmeno cadendo… era in piedi in orizzontale sul tronco di Yggdrasil. Sotto le suole dei suoi stivali si vedeva uno strano riverbero oscuro, sembravano… piume di corvo. 

« Ma che cazzo? » disse allo scoiattolo.

« Magia, di che ti stupisci? Ti conviene spicciarti a correre, prima che si esaurisca. In cima ti aspettano da un po’ ». 

Sonja non se lo fece ripetere. Con un cenno di ringraziamento allo scoiattolo, partì di corsa, alla massima velocità di cui era capace, correndo sul tronco dell’albero e salendo, salendo, salendo finché non sentì i timpani subire la pressione, e poi ancora più su, ignorando il proprio corpo. 

 

Ventun’ore dopo l’inizio della scalata, dopo aver superato qualsiasi sorta di creatura, Sonja arrivò alla cima di Yggdrasil. 

Era un posto molto diverso dal resto dell’albero selvaggio: lì era costruito intorno al ramo più alto un vero e proprio terrazzo circolare di legno, decorato con tappeti e torce. Sonja vi si sedette con le gambe penzoloni nel vuoto. Stava morendo di sete, di fame e in generale di qualsiasi altra cosa.

Eppure quello era il cielo. Era fatto così, proprio come i corvi le avevano raccontato. Il profondo cosmo nero striato di tutti i colori, fra gas in piena esplosione, comete, enormi creature volanti, e tutte quelle lune e stelle, e quegli immensi anelli planetari come un arcobaleno su Stella Natalis… la terra che era sotto di lei, così tanto in basso ora, e che da lassù  a un passo dalla cima dell’universo appariva convessa, e del tutto sterminata. 

Sonja si asciugò una lacrima. Ma c’era poco da fare i sentimentali: dov’era la Regalia, dov’era Gungnir e con essa la magia suprema? 

Si avvicinò a lei una capra con le mammelle gonfie. Sonja non aveva mai visto nemmeno una capra, ma i corvi le avevano descritto per anni tutti gli animali. Per un po’ la rimirò stupita, e ne percepì l’odore pungente. Nel mondo dei morti c’era sempre lo stesso odore di cimitero. 

La capra si avvicinò a lei mansueta. Sonja capì che le stava offrendo qualcosa, ma cosa? Esitando un po’, allungò la mano verso una delle mammelle e, non sapendo bene cosa stava facendo, la munse, così come le veniva. Uscì una meravigliosa sostanza bianca e luminosa come una perla. Ci volle poco prima che Sonja, quasi impazzita dalla fame e dalla sete, si buttasse per terra come un animale per bere il latte della capra. 

Era assurdo: non aveva mai bevuto del latte, ma era sicura che quello non fosse un latte qualunque, perché le guarì il corpo, le rilassò la mente, le diede l’impressione di essere invulnerabile, di non aver scalato l’albero, di essere a casa, di non essere sola, e di essere forte e amata.

Una volta che si fu satollata dell’ambrosia, cacciò un rutto piuttosto poderoso e ringraziò la capra, che se ne andò per la sua strada senza fare commenti. 

Poi tornò a sedersi con le gambe a penzoloni, fece un gesto magico e fra le sua braccia comparve una chitarra. Per un po’ strimpellò leggermente solo per accordarla, e nel silenzio della cima dell’albero, lassù in alto dove non arrivavano nemmeno gli dei, se ne udiva il suono delicato. 

Poi, con gli occhi fissi sul cielo stellato, Sonja si mise a suonare, e ci inventò sopra delle parole sul momento. 

 

La mia voce ora l’hai sentita,
sono emersa dalla selva per scelta mia.
Mi proteggeva, ma la cortina sul cielo era la contropartita
E nel buio non avevo nome 

Lascio una mente annebbiata e la fobia
Sicuramente da qui vedo un nuovo inizio.
Lascio un cuore pesante in cambio della grazia della follia
Ho paura, ma so anche come

Stringimi forte, stringimi forte
Perché sono una nomade incurabile.
Ma imparerò, imparerò
Ad amare il cielo sotto cui mi trovo
Amerò il cielo sotto cui mi trovo.

 

Sonja concluse la canzone con qualche arpeggio delicato, e solo quando ebbe finito del tutto di suonare, fermando le corde con la mano, sentì un contenuto applauso.

Si voltò senza lasciare la chitarra, e vide che un uomo era seduto lì nei pressi. Aveva i capelli lisci e variamente intrecciati, di un rosso fiamma, rasati a pelle ai lati della testa, e aveva degli occhi chiarissimi, a dir poco scintillanti. Aveva un bel viso, ma su di esso c’erano delle cicatrici da ustione, come se vi fosse gocciolato lentamente dell’acido. Reggeva con delicatezza lo scoiattolo di prima, tenendolo con una mano e accarezzandolo con l’altra. 

« Tu sei il classico nemico finale? » disse Sonja. Stavolta in mano le comparve una pipa, e iniziò a fumarla continuando ad arpeggiare tranquillamente. 

« In un certo senso sì, ma tu non sei ancora alla fine neppure lontanamente, » rispose lo sconosciuto. 

« Hai mandato tu lo scoiattolo? »

« Il vecchio pettegolo Ratatoskr? Sì ».

« Perché? »

« Perché mi preme che tu ci arrivi, alla fine ».

Lo sconosciuto estrasse dalla giacca di pelle una busta di cuoio con del tabacco e iniziò a girarsi una cartina. 

« Bene, figlia di Odino, ho appurato che mi piaci molto, per fortuna… ma sai almeno cosa devi fare per meritare Gungnir? »

Sonja percepiva un’interferenza nel cielo… ma non era una cosa negativa. Certo inizialmente ne fu infastidita, perché quello era il suo momento e la situazione era già fin troppo affollata… poi si accorse che era qualcosa di buono. Forse il primo e unico intento generoso che avesse mai percepito.

Adesso sapeva, si rendeva conto. La poesia, infatti, non era mai specifica. Non lo era quella nota dorata purissima nel cielo, e non le erano le visioni e le impressioni nel suo cuore. Erano lo stesso chiarissime… e con quell’aura che brillava in cielo, appartenente a chissà chi, non si sentiva nemmeno sfiduciata. 

« Già ».

« Ma hai paura di morire. Sei così debole… ti sei rigenerata troppe volte ».

« Non essere ridicolo ».

Fumavano tranquilli sul tetto del mondo, nella musica delicata della chitarra che accompagnava i purissimi gorgheggi di quell'aura. 

« La paura è parte integrante di questa prova, fin dai tempi del mito. Se tu non la provassi, non potresti vincerla, e quindi non otterresti la Regalia. Il tuo stato mentale deve essere sgradevole, e tu ci devi combattere contro. È così che si ottengono le cose. Non si può saltare il processo. Non reprimerti, capelli grigi… quella sarebbe la strada sbagliata ». 

« Ok… bla bla. Piuttosto, tu chi sei? Sei tipo la guida dell’albero, la guida spirituale, la voce del mio subcosciente…? »

« Io sono Loki ».

« Tsss, » sibilò lei, con una smorfia come a dire “ma levati dai coglioni”.

« Sonja… non ho mai avuto interesse per i tuoi predecessori. Tu hai un quid particolare, non so come dire. Che, dopotutto, ci volesse finalmente una donna per cogliere la giusta essenza del dio? Certo, potresti ancora morire come un’idiota — dopotutto sei acerba, avendo vissuto dieci anni con i morti… eppure ho l’impressione che tu possa farmi contento, alla fine ». 

« Wow ».

« Era un complimento ».

« Faceva cagare ». 

 

*

 

Loki aveva fumato forse ottanta sigarette in quei nove giorni, e si annoiava un po’. D’altra parte ci voleva del tempo, non c’era niente da fare. La chitarra di Sonja era appoggiata lì vicina, insieme con la pipa spenta. In fondo, Loki le faceva compagnia volentieri, ma non le aveva mai rivolto la parola, perché in quel momento lei era in un mondo a parte — che perfino lui non poteva comprendere. Era così che doveva andare. 

I corvi della ragazza avevano fatto avanti e indietro nove volte, ma adesso finalmente si erano fermati lì e aspettavano: forse sapevano che quello era l’ultimo giorno. 

Sonja oscillava nel vento freddo. Era di una brutta sfumatura di viola, appesa per il collo al cappio che pendeva da un ramo di Yggdrasil. Il suo corpo era rigido, e aveva affrontato in nove giorni diversi cambiamenti, dalla grandine alla tempesta a un vero e proprio uragano, sempre penzolando come un misero batacchio. 

La sua aura si era spenta subito, quando la fune si era tesa e il collo si era spezzato. Eppure, Sonja era ancora lì — sacrificata a sé stessa, morta, e completamente presente. Di Pellegrini con prove del genere, che richiedevano il suicidio, ce n’erano pochi… solo una prova della Regalia poteva ignorare le regole dell’universo, ma se Sonja non avesse ottenuto la lancia, sarebbe rimasta morta. 

Loki udì una voce senza corpo e non comprese le parole. 

In quel momento, era parzialmente partecipe di una visione di Sonja; udì la voce chiamarla Farmr Galga, vide una grande luce e per un attimo, solo per un attimo, gli parve di sbirciare dentro il Valhalla. Poi finì tutto. 

E Sonja, arrampicandosi sulla fune alla quale si era impiccata, si issò nuovamente sul terrazzamento. 

Loki la lasciò stare, ma sorrise. La ragazza era sdraiata supina cercando di riprendersi, sembrava stremata da una profonda estasi, ma nella mano stringeva senza possibilità di sbaglio la lancia di Odino, Gungnir. Adesso era davvero diventata una maga: adesso, col tempo, avrebbe iniziato seriamente a comprendere le rune. 

« Dormi, non parlare, » le disse Loki, conciliante, sdraiandosi nella stessa posizione a poca distanza da lei. « Bel lavoro ». 

 

*

 

I Quattro Cardini erano un gioco di carte molto in voga in quella parte di Stella Natalis, la Terra Infinita; si basava su bluff e gambetti arditi che avevano lo scopo di indurre l’avversario a un simbolico suicidio. 

Sonja e Loki erano vicini alla fine della partita. Giocavano alla tavola centrale del grande salone, dove l’esercito di Sonja, ubriaco, era intento a crapulare in onore dell’ultima travolgente vittoria. 

Il trofeo principale, il corpo gigantesco di un basilisco che era stato il protettore della città, si trovava al posto d’onore, arrostito, e i guerrieri e le guerriere si esaltavano a tagliarlo per assegnare le carni (i tagli migliori ai più grandi eroi) mentre cantavano e declamavano storie. 

« Devo dire che sei diventata la regina dell’inganno, » disse Loki spiritosamente, tenendo in mano le carte rimaste con un gesto elegante. 

« Chissà da chi ho preso esempio, » fece Sonja, sorridendo con affettuoso sarcasmo.

« D’altra parte non è tanto giusto usare le illusioni mentre si gioca ».

« Però quando le ho usate a letto non ti ho sentito protestare ».

Ridacchiarono. La partita si capovolse nel giro di due minuti, e il vantaggio di Sonja fu dissipato con tre mosse di Loki, il quale a questo punto stava per vincere. 

« Che pensi? » le chiese. 

« Penso che rimane solo Eilawa, la città più ricca della regione, » rispose Sonja. « In dodici anni ha messo su un bell’esercito, ma sono tutte persone comuni. Lì c’è la Pellegrina di Atena, ma non dovrebbe essere difficile fare a filetti una pacifista con un’unica uccisione importante all’attivo ».

« Un’unica uccisione, eppure nessun invasore è mai passato, » osservò Loki. 

« Il Nord è mio da cima a fondo ».

« Questo Nord. Ma siamo nella Terra Infinita. Così tanto manca alla tua lista ».

« Non mi interessano altri nord. Mi interessa questo. Il limite estremo… il Valhalla ». 

Loki sorrise come un serafino mentre metteva giù l’ultima carta sconfiggendo Sonja su tutta la linea, causandole un’adorabile espressione imbronciata. « Su, Sonja, non ti agitare. Che te ne fai del Valhalla? Attualmente, non puoi controllare gli Einherjar. Non sei Odino ».

« Non sono Odino? » insolentì Sonja con un sorriso spaccone. Poi allargò le braccia e l’esercito nell’enorme salone, come guidato da un direttore di orchestra, levò all’unisono i boccali e le gridò lunga vita. « Che altre prove ti servono? »

Loki non sembrò impressionato. Sorrideva. « Se tu fossi Odino, ti avrei uccisa ». 

« Che poi, me lo spiegherai perché, un giorno o l’altro? »

Loki la ignorò. « Tu sai che ho ragione. Ok conquistare Eilawa per completezza, diciamo, ma valicare le montagne? Lascia perdere. Sai cos’hai in faccia? »

« Tatuaggi molto fighi? Il mio caratteristico cipiglio carismatico? »

« No. Due occhi sani, » disse Loki. Sonja si imbronciò di nuovo. « Eh, cara, tu non hai trattato con il Guercio, non hai compiuto il sacrificio, e quindi non sei colei che ha gli Occhi Fiammeggianti ». 

« Pfff ».

« Posso sapere perché esiti così tanto con l’ultima Regalia? Che ci sarà mai di difficile, ti cavi l’occhio destro e via, no? »

« Posso sapere perché mi metti furia? »

Loki non le rispose. Le toccò la mano con dolcezza mentre continuava a sorriderle con falsa benevolenza. Sonja sbuffò e ritrasse la mano.

« Bene, se proprio ci tieni a saperlo ho praticato il seiðr, » disse la Pellegrina. 

« Santo cielo. Il rito sciamanico per vedere il futuro, dove i partecipanti praticano atti innominabili mentre si passano in cerchio simboli fallici in metallo? »

« Già ».

« E perché diavolo non sono stato invitato? » protestò Loki.

« Non erano cazzi tuoi ».

« Ma ora stai per dirmelo, no? » disse lui, furbesco. « Tutte le tue bugie, con me, hanno le gambe corte. E sono tante bugie. Un plotone di bugie con le gambe cortissime. Allora? Soddisfatta di questo assaggio di vera preveggenza? Hai davvero Visto? »

« Ho Visto, » disse Sonja. « Sai cosa? Ho visto il Guercio. Ho visto che sarebbero successe cose terribili se avessi preso quella Regalia… che l’occhio si sarebbe impossessato di me, che sarebbe successo un disastro e avrei perso tutto ».

« Tutto cosa? Questa banda di vichinghi inferociti? Avresti un esercito migliore, più i tuoi baldi cavalieri personali, se raggiungessi Asgard ».

« Qualcosa di importante ». 

« Io, vero? Anche perché sono l’unica cosa importante che hai, povera poetessa nomade, mai sazia del materiale. Se è così, ti posso confermare che mi perderai, ottenuta l’ultima Regalia. Perché quel giorno, come promesso, io ti ucciderò. Perciò, la verità adesso: è per questo che esiti. Non vuoi affrontarmi in uno scontro mortale. Significo troppo per te ». 

Loki fu colto alla sprovvista, tanto che non poté nemmeno difendersi: l’aura di Sonja era diventata schiacciante come un ghiacciaio eterno, e il suo corpo aveva una forza sovrumana. Sonja scattò in piedi facendo rovesciare la panca, si avventò su di lui e lo afferrò per i capelli sulla nuca. 

« Stai a sentire, ciarlatano, » sibilò, mentre la sala di guerrieri stava a guardare sperando che finisse a botte. « Sì, significhi molto per me, e da maga a mago, dovresti sapere bene perché. Esito ad affrontarti? Dovrebbe essere lo stesso per te, bestia, per i motivi che sai. Abbiamo fatto un patto. Ci siamo bagnati copiosamente del rispettivo sangue. Bella cerimonia, vero? » Aggiunse a denti stretti, stringendo la presa sui capelli di Loki e torcendolo in modo tale che si abbassasse verso il tavolo e che sentisse dolore. « Sobria, con relativamente poca gente nuda, location molto luminosa in quartiere signorile ». Dopo questo ringhio Sonja diede uno strattone e attaccò Loki al tavolo di guancia, tenendolo schiacciato. « Non confondermi con i coglioni che scegli per vittime. Se avrò mai l’impressione che il patto non abbia significato niente per te, ti farò rimpiangere di essere nato ». 

Con un ultimo strattone, così per sottolineare il concetto, Sonja si allontanò dal tavolo impettita, accompagnata dai canti e dagli applausi dei suoi uomini. 

La donna si rivolse poi al suo esercito. « Eilawa! » ruggì. 

E tutti persero quasi il ritegno dalla frenesia, tanto che la sala esplose in un vero e proprio boato di boccali che sbattevano e gente che intonava urla di guerra. 

Ma Loki le parlò dietro, a bassa voce — ma sapeva bene che lei l’avrebbe sentito. « Sonja, Sonja, adorabile galletto. Ancora che non credi in te stessa nel profondo, eh? Male! » 

 

*

 

Su Stella Natalis il cielo era sempre lo stesso, l’universo senza alcun velo, e non c’erano la notte e il giorno; ma, per scandire il tempo, le città più civili di solito cambiavano le luci magiche in modo che gli abitanti potessero avere un ritmo sostenibile per un mortale. 

Le luci di Eilawa erano limpide e sfavillanti: quella che veniva chiamata mattina. Ma era una mattina tesa, perché Noctua era scesa alla testa dell’esercito per parlamentare con gli invasori.

I guerrieri di Eilawa aspettavano schierati, Noctua avanzava sulla pianura; e parallelamente procedeva verso di lei una donna piuttosto spaventosa, in groppa a un possente cavallo da tiro dal manto grigio. Anche alle sue spalle c’era un esercito, ed era molto più numeroso. 

Le due si ritrovarono di fronte, ma la donna nemica, che brandiva una lancia pulsante di magia, non scese da cavallo per mettersi al pari di Noctua. Torreggiava, così, con una tempestosa criniera di capelli grigi come il cavallo, intrecciati sui lati della testa. Non portava quasi protezioni, solo abiti neri attillati. Per quel che si poteva vedere, sembrava coperta di tatuaggi, alcuni anche in viso. Di sotto l’ampio cappellaccio ugualmente nero, si intravedeva il bagliore di due occhi color smeraldo. 

« Tu chi sei, che marci in casa d’altri armata? » chiese Noctua, i ricci castani che le sventagliavano liberi attorno al viso. 

« Togliti di mezzo, bella topa. Io sto marciando in casa mia » .

L’esercito invasore iniziò a battere i piedi e percuotere gli scudi con la lancia o con l’ascia, producendo un fracasso infernale atto a incutere terrore. L’esercito di Eilawa manteneva la serenità — ma a stento, e solo per non deludere Noctua. 

« Tu saresti la Pellegrina di Atena? »

« Hai indovinato ».

« Pft. Io non indovino, » si offese la donna a cavallo, con un sorrisaccio altezzoso. « Fatti da parte, devo passare ».

« E se rifiuto? »

« Saresti una cretina fotonica. Puoi farmi passare senza spargimento di sangue, non vedo perché dovresti preferire lo sterminio dei tuoi ».

« Chissà perché, ma ho come l’impressione che se ti faccio passare ci sarà spargimento di sangue lo stesso, » osservò Noctua, dedicando un ulteriore sguardo all’armata di pazzoidi che non prometteva niente di buono. 

« Stammi a sentire, ragazzina. Ho sentito dire che hai ucciso Giapeto, mi congratulo, aveva ucciso molti migliori di te, ma un’uccisione non basta a fare gli spavaldi ».

« Magari ho ucciso tanta altra gente ».

« No… ho sentito dire di no ».

« Da chi hai sentito dire tutte queste cose, per curiosità? »

Come in subitanea risposta alla domanda di Noctua, preceduti da un gran gracchiare, due corvi volarono verso la donna. Uno si sistemò sulla sua spalla, l’altro sull’arcione della sella. 

« I corvi reali che ho visto in questi giorni… » considerò Noctua. 

Ripensava alla stranezza di due corvi scorbutici e perfettamente incivili che avevano fatto visita a Eilawa molte volte, con tutta l’aria di volersi fare gli affari altrui, intrufolandosi nelle case e ascoltando le conversazioni. Qualche abitante aveva anche cercato di dar loro da mangiare un po’ di carne, ma i corvi, dopo essersene approfittati, avevano sempre beccato piuttosto malamente l’occasionale benefattore: il fabbro era finito dal guaritore con mezzo naso di meno. 

« Tu sei quella che ha estinto gli Ifrit, ucciso Ponto in singolar tenzone, sottomesso Fenrir e i cannibali, quella che va in giro razziando e uccidendo per tutta Stella Natalis e ha conquistato tutto il Nord, » riassunse Noctua. « Sei Colei che Pende dalla Forca, il Passo di Corvo… Sonja, la Pellegrina di Odino ».

« Bene, abbiamo fatto le presentazioni, » si rallegrò freddamente, ma con compiacimento, la nemica.

« Beh, tecnicamente io non mi sono presentata, » puntualizzò Noctua. 

« È vero, ma non mi interessa. Come ti potrai mai chiamare, Susanna tutta panna? Ora te lo dirò per l’ultima volta: spostati. Devo raggiungere il Valhalla. È mio diritto e non ha nessuna importanza chi devo uccidere per arrivarci ». Sonja levò la lancia in alto, e subito, con sorpresa di Noctua, il cielo cominciò a borbottare, poi a ringhiare… quindi a ruggire, mentre da chissà dove piovevano due o tre fulmini a mo’ di avvertimento. « Oppure fai come fanno di solito le regine guerriere quando marcio sui loro territori: arrenditi e sdraiati sul mio letto, e nessuno ti farà del male. Il mio esercito non tocca i miei amanti ».

« No, grazie, il sesso non rientra fra i miei interessi, » disse tranquillamente Noctua, come se non fosse stata per niente impressionata. In verità, però, sapeva di doversi giocare il tutto per tutto: quella che aveva di fronte non era una Pellegrina qualsiasi. 

« Perché altrimenti non sei vergine come Atena? Ma non ti devi preoccupare di questo, non ti sverginerei. Ci tengo alle tradizioni ».

« Promesse da marinaio, passo, » rispose Noctua serenamente, ben ritta con le mani sui fianchi. « Vuoi risvegliare gli Einherjar? Ho paura che ti sbagli ».

« In che modo, sentiamo? »

Noctua sentì il cosmo di Sonja incupirsi molto, in maniera particolarmente minacciosa: le parve, a dire il vero, che quel cosmo le facesse vibrare tutto il corpo proprio come una sensazione di paura. 

Sonja scese agilmente da cavallo, e con la lancia in mano si fece a un palmo da Noctua per minacciarla. Ci riusciva benissimo, c’era da dire: non solo era alta almeno dieci centimetri più di lei, ma aveva un aspetto davvero intimidatorio, nera come la pece di fronte a lei vestita di bianco. Noctua non aveva sentito nemmeno in Giapeto una tale sensazione di morte. 

« E cosa ne sa Atena, che istruisce le donne industriose, di queste faccende? »

« Beh ora insomma, di tutti gli appellativi hai scelto quello che suona male in questo particolare contesto ».

« Non so decidere se tu sia solo deficiente o proprio trascesa a un livello superiore di stupidità ».

« Il tuo cappello è bisunto ».

« Mi stai sui coglioni ».

« Puzzi di guano di corvo ».

Fu un momento molto intenso. Noctua era tutta presa dalla straordinaria impressione di aldilà che proveniva da Sonja, la quale intanto la fissava dritta negli occhi, mentre sembrava ascoltare quello che il corvo le stava sussurrando all’orecchio, sotto il cappello.

Poi, il viso di Sonja iniziò a deformarsi per una risata repressa. Noctua stessa non era più capace di tenersi. In pochi secondi, le due donne si misero a ridere di cuore. 

Fu carino, ma non durò molto. Però si era decisamente creato qualcosa di diverso. Noctua seppe che Sonja aveva rispetto per lei. E nella risata, che non era un ringhio ma al contrario era una risata molto carina, riconobbe la voce che aveva già sentito cantare, anni fa. 

« Bene. Si dà il caso che io presieda anche al tribunale di Eilawa, e siccome sei abbastanza un invasore, bisogna che tu venga processata, » disse Noctua. 

« Ma pensa, » rispose Sonja, per niente impressionata. 

« E per i poteri a me conferiti, scelgo il combattimento giudiziario. Sconfiggimi in duello, e sarai dichiarata innocente ».

« All’ultimo sangue, mi auguro ».

« Santo cielo come sei intensa, » protestò Noctua. « Non la facciamo quella roba, qui. Al primo sangue ».

« Purtroppo per te, non hai specificato la quantità del primo sangue, » sogghignò Sonja. Fece un bel movimento rotatorio con la lancia, e si mise in posizione. 

 

I due eserciti stavano a guardare con interesse e stupore, alcuni addirittura col fiato sospeso, mentre Medusa, la civetta di Noctua, percorreva il cielo descrivendo ampi cerchi. 

Le due Pellegrine si affrontavano in campo aperto, ed era come vedere due calamità naturali che si scontravano. 

Noctua tentò di concentrarsi sulla difesa e sulle schivate come era solita fare mentre cercava di inquadrare il proprio nemico, ma Sonja, irritata dalla sua elusività, aveva deciso di non dargliene modo. 

Le magie che la Pellegrina di Odino scagliava furono uno spettacolo nuovo per la gente di Eilawa: Noctua non dava mai dimostrazione di incantesimi offensivi, mentre quelli di Sonja erano a dir poco devastanti. Fulmini neri producevano boom sonici e aprivano voragini, fiamme violacee turbinavano, esplodevano e si espandevano distruggendo tutto al loro passaggio, spuntoni di ghiaccio eruttavano dal terreno a velocità incredibile cercando i punti vitali della sua avversaria. 

Noctua era stata subito costretta a rivelare il Gorgoneion per difendersi; a questa vista, Sonja, compiaciuta di averla messa alle strette, intensificò ulteriormente l’offensiva — fece comparire dal nulla trecento lance infuocate, che saettarono tutte insieme verso la sua avversaria.

Così, Noctua fu costretta a estrarre anche la Lancia. Con un movimento elegante e deciso, col cosmo che brillava come una supernova, spezzò quest’ultima offensiva, e le picche si dissolsero. 

Nessuna aveva ancora versato il primo sangue, eppure la pianura fiorita era ridotta a un inferno carbonizzato, pieno di crateri.

Dagli eserciti si levò una potente esclamazione quando le lance delle due Pellegrine si incontrarono, producendo un’onda d’urto che fece cadere in ginocchio tutte le prime file, malgrado fossero distanti. Sonja e Noctua si fissavano intensamente negli occhi con le lance incrociate, e avevano l’aria di divertirsi parecchio. Poi entrambe fecero un balzo indietro e si fronteggiarono a distanza. Il cappello di Sonja era volato via. 

« In questi venti minuti abbiamo appurato che in difesa te la cavi, » concesse Sonja. « Ma se non tiri fuori le ovaie, alla lunga vincerò io ». 

Noctua non poteva darle torto. Sonja era evidentemente meglio temprata di lei, perciò, se Noctua avesse continuato a difendersi solamente, si sarebbe sicuramente stancata prima dell’avversaria. Il problema ulteriore era l’intuito di cui Sonja sembrava dotata: l’aveva messa seriamente in difficoltà per tutto il combattimento, proprio perché sembrava capire, per chissà quale magia, la direzione in cui Noctua avrebbe saltato o rotolato. 

« Bene, penso che tu abbia ragione. Del resto mi fido molto del parere di qualcuno che ha passato quasi dieci anni a combattere ininterrottamente, » disse sportivamente Noctua. « Allora giochiamocela tutta su un solo attacco, se per te va bene ».

« Annunciare gli attacchi, che cosa cavalleresca… Per caso hai dato anche il nome alla tua tecnica segreta? » disse Sonja con sarcasmo. « Ma va bene, facciamo così. Sarà più soddisfacente schiacciarti sul tuo stesso terreno ». 

Il loro cosmo bruciava ad altissimi livelli. Entrambe levarono la lancia; col braccio alzato, la fecero oscillare come per trovare il perfetto bilanciamento. E poi, in un’esplosione che fece rimbombare l’ulivo sacro fino alle radici più profonde, la scagliarono. 

 

« Bene, Atena, » annaspò Sonja, col fiatone, reggendosi il braccio che sanguinava copiosamente. « Devo dire che hai la forza di un drago. Riconosco il risultato. Siamo pari ».

«  Non chiamarmi Atena. Io sono Noctua, » rispose a fatica Noctua, anche lei col fiato corto, e con una cortina di sangue che le scendeva fastidiosamente sugli occhi. 

« Ok. Piacere ».

Sotto lo sguardo attonito dei rispettivi eserciti, le due donne si strinsero sportivamente la mano. 

« Sonja, puoi passare, perché non sei una persona malvagia ».

« Scusa? »

« Il tuo cosmo è pieno di luce, sei giusto un attimo… come dire… testosteronica, » spiegò Noctua. « Non hai colpito per uccidermi, in tutto il duello ti sei trattenuta ».

« Tu ti sei trattenuta, da stupida idealista che sei ».

« Mh-m, e tu ti sei adeguata a me, anche se avresti potuto uccidermi. Una bella manifestazione di gentilezza per un’orgogliosa signora della guerra, non credi? »

Sonja era, incredibile a dirsi, ammutolita. 

« Puoi entrare per stanotte, ma magari l’esercito fallo accampare… fuori, ecco, » aggiunse Noctua. 

« Io voglio comunque passare per il Valhalla ».

« Passerai domattina, se ancora lo vorrai ».

« Perché non dovrei più volerlo? »

« In una notte ti farò cambiare idea, » disse Noctua con un ampio sorriso fiducioso. 

« Come… sei stupida? Chi ti garantisce che— »

« Che posso fidarmi di te? Nessuno ».

« Sembri più la Pellegrina della Madonna, » disse Sonja, aggressiva. « Strano, perché l’ho uccisa due anni fa. Niente, mi dispiace, ho proprio antipatia per le vergini ». 

Noctua sollevò le mani in un comico atteggiamento di esasperazione. « Senti… basta, ok? Stop morti ammazzati e brutale spontaneità per cinque minuti? Ascolta. Possiamo anche affrontarci di nuovo, e lo sai che non è scontato che vinceresti, » disse. Sonja aprì bocca per protestare, ma Noctua le parlò subito sopra. « Non è scontato. È probabile? Sì, mi sa di sì. Ma non è scontato. È comunque un rischio che può essere evitato. Non ti conviene di più accettare, a costo zero? Una notte da noi e domattina fai cosa vuoi, senza versare una goccia di sangue. Neanche una, Sonja, o il patto decade ». 

« Una negoziatrice. Divertente, » disse Sonja, continuando con la sua posa. « Beh, accetto. La tua è una scommessa piuttosto coraggiosa, di farmi cambiare idea in una notte. E se apro il Valhalla, perdo il controllo e faccio finire il mondo? No… non coraggiosa. Ingenua ». 

« Sonja… tu non vuoi aprire il Valhalla e rischiare la fine del mondo ».

Era silenzio tombale. Sonja di nuovo era senza parole. 

« Tu non credi davvero di poter controllare gli Einherjar. Tu fai così solo perché pensi di esserci obbligata per non perdere il tuo ruolo. Guarda che ti capisco, eh. Come pensi che mi senta io, qui, con tutti che mi chiamano Atena e si aspettano grandi cose? Io non lo so mica se ce la farò, » proseguì Noctua. « Tu non vuoi mettere il mondo in pericolo. Tu… speri che i miei argomenti stanotte siano convincenti e ti facciano cambiare strada. Forse speri anche prima o poi di trovare un posto dove restare. Vuoi amare il cielo sotto cui ti trovi ».

Sonja sgranò gli occhi, e le si aprì leggermente la bocca. Strinse con maggior forza Gungnir, per non farsela cadere di mano.

« Quella sera ti ho sentita cantare dal tetto del mondo, » sorrise Noctua. 

« La magia che mi ha aiutata… »

« Il mio cosmo ». 

« Perché? »

« Perché nella canzone ho visto com’eri dentro. Mi sono gasata con la canzone perché mi ci sono riconosciuta ».

« E hai dedotto che devo essere una brava persona per come canto? Stai iniziando a irritarmi ».

« Però è la verità, » insistette Noctua. « Senti, nessuno qui sta negando che tu sia una furia potentissima, reproba, scellerata e accompagnata dalla morte. Dico solo che sapevo benissimo che a cantare non era una comune assassina, era tutto nella musica. Ti ho sentita vicina senza conoscerti, e ti ho inviato il mio cosmo. Tutto qua ». 

Noctua si sentiva volare il cuore: Sonja sembrava quasi commossa. 

« … Eeeee anche in parte perché quando ho sentito il tuo cosmo ho pensato che fosse meglio averti per alleata che per nemica, ok, però le cose romantiche che ho detto prima sono vere ». 

Gli eserciti abbassarono le armi, in perfetta sintonia con le rispettive condottiere. Sonja ripose la lancia, facendola scomparire per magia, e, un po’ sbigottita, si lasciò abbrancare gentilmente da Noctua che iniziava ad accompagnarla verso Eilawa. 

« Che poi il tuo problema sono le cattive compagnie, nient’altro. A proposito, ti piacciono i panini raffermi? »

 

 

Chapter 3: My Lucifer is lonely

Notes:

Esra è un personaggio molto importante per me perché riflette molti dei miei complessi e paure. Il capitolo quindi potrebbe essere un po' intenso, anche perché ci sono menzioni piuttosto esplicite ad abusi sessuali e torture

Chapter Text

 

Su Stella Natalis esistevano molte località senza un nome, a motivo del fatto che la Terra Infinita non era mai stata né interamente misurata né completamente scoperta. Nessuno sapeva nemmeno se Stella Natalis fosse statica, semplicemente infinita, o se si stesse addirittura espandendo ogni giorno. 

Eppure, nel corso di tanti millenni, si erano succedute varie popolazioni che avevano abitato perfino gli angoli più remoti; popolazioni delle quali si era perso ogni ricordo. Stella Natalis aveva naturalmente i suoi storici e i suoi archeologi, ma il loro lavoro, presso un mondo di infinita estensione e infinito mistero, non aveva mai chiarito che un millesimo degli interrogativi sotto quel cielo stellato.

Ecco quindi che nell’oriente estremo si trovava un’isola alquanto solitaria che galleggiava nel cosmo, staccata dalla terraferma, e su questa piccola isola non c’era assolutamente niente, salvo un portale molto antico, sorretto da due colonne di un rosso scolorito, e un tempo forse adornato di pitture che avevano finito per non vedersi quasi più. 

Il portale sorgeva così dal niente nel centro esatto di quell’isola pianeggiante e deserta, e subito dopo l’ingresso iniziavano subito delle scale ripide che scendevano e scendevano, sparendo presto nel buio. Si poteva presumere che il sistema sotterraneo si espandesse per tutta l’altissima radice dell’isola volante, perché all’estrema base di quest’ultima si poteva notare un’apertura che sfociava nel vuoto — perciò, forse quel portale conduceva in basso e in basso, fino a un salto nel vuoto. 

Dall’ingresso del portale spirava un vento leggero che sapeva di chiuso, e che proveniva proprio da quell’interno cavernoso; tirava arietta di morte, e nessuno aveva mai raccontato di quel portale né in libri né canzoni, il che lasciava presagire che nessuno fosse sopravvissuto all’averlo visto. 

 

« Che storia ganza, » disse Noctua, giocando a fare la rapita mentre stava sdraiata comodamente sul divano; beveva un aperitivo leggero distrattamente con la cannuccia, e stava a sentire Sonja che suonava seduta sul davanzale lì vicino.

« Vero? » sorrise Sonja conciliante, mentre continuava ad arpeggiare e mentre i corvi gracchiavano sommessamente. 

Ascoltare il rapporto serale di Hugin e Muninn era diventata un’abitudine già da tempo. Sonja viveva ad Eilawa da cinque anni e, con un po’ di lavoro, i suoi guerrieri e le sue guerriere si erano integrati, mescolati, perfino sposati nel tessuto cittadino. Spesso Sonja cantava per loro le ultime notizie presso uno spiazzo carino sull’ulivo sacro — e, curiosamente, sembrava avere un talento particolare nel gestire un uditorio di bambini — ma altre volte, come ora, cantava solo per Noctua. 

« Non ho mai sentito parlare di questo posto ».

« È un posto importante ».

« In che senso? »

« Non so in che senso. Sento soltanto che il destino ci si è posato sopra ».

« Mi piace un casino quando fai la mistica, » esclamò Noctua, deliziata. 

« Pfff ».

« Hugin e Muninn hanno guardato oltre il portale? »

« No. Ci sono dei posti che sono troppo intrisi di morte anche per loro. Non sarebbero riusciti a uscirne, probabilmente, » rispose Sonja, riponendo la chitarra per dedicarsi alla pipa. « Ma qualcosa sta per emergere di lì… credo ».

Da una delle finestre sempre aperte entrò volando la civetta Medusa, che subito si appollaiò su un ginocchio alzato di Noctua; Muninn, che era il più aggressivo dei corvi gemelli, gracchiò al suo indirizzo con aria di sfida e Medusa subito si irrigidì, trasformandosi in una specie di stecchino con gli occhi stretti a fessura. Hugin, che era la metà più misurata di Sonja, non perse tempo in certe sciocchezze. 

« Parlando d’altro, » disse Noctua, dando con un dito una grattatina alla testa di Medusa. « Ti ho sentita cantare una canzone strana ieri ».

« Non era strana, era in corso. La stavo scrivendo ».

« Ma tu improvvisi sempre alla perfezione! »

« In questo caso no ».

« Come mai? Come mai? »

« Ma che vuoi!? » protestò Sonja sorridendo col bocchino della pipa fra i denti. « Beh, se proprio non vivi senza saperlo, non ho ancora deciso come mi sento, quindi l’ho già riscritta da capo tre volte ».

« Oh mio dio, ma sei innamorata? »

« Non dire cazzate, » fece Sonja, sbuffando una nuvola di fumo alla quale comandò di andarsi a posare come un cuscino sul viso di Noctua, che tossì e protestò comicamente. « No, è solo… ho avuto una sensazione. Forse il futuro… in effetti, ho sentito chiaramente che era il futuro. Strano, perché, anche se avessi l’ultima Regalia, sarebbe molto difficile vedere ciò che non è ancora successo senza operare magie complicate. Una visione del futuro spontanea è qualcosa di assurdo. È solo che il tuo cosmo fa sempre casino. L’altra volta, quando l’hai liberato per guarire quel ramo portante, io ero nei pressi… e mi ha dato noia ».

« Oddio in che senso? Sei allergica al mio cosmo, in quanto creatura oscura e mortifera? » Ma Noctua sorrise fra sé e sé: Sonja all’inizio l’aveva presa in giro quando l’aveva sentita definire l’aura “cosmo”, ma poi alla fine aveva iniziato a dirlo anche lei. 

« Deficiente, » rispose Sonja. « Voglio dire che mi ha provocato una visione ».

« Come quando hai visto quei cavalieri nella neve? »

« Quelli me li mostrava Mimir quando ero vecchia. Ora non sono in grado di vederli… non li vedo da parecchi anni, da quando ho rifiutato quel destino insieme con Mimir, » la corresse Sonja. « Inoltre puoi smetterla di chiamare tutti “cavalieri”? I cavalieri vanno a cavallo ».

Noctua la ignorò sorridendo. « La visione che hai avuto per colpa mia è stata sgradevole? »

« Sì e no, » ammise Sonja, enigmatica. « Sarà durata cinque secondi. È stato… piacevole inizialmente. Gioioso, direi… stavo proprio bene, ero perfino ottimista ».

« Tu? Ottimista? »

« Infatti, pensa che situazione. Poi c’è stata una sensazione — come dire, metallica? O forse ferrosa, come il sangue… e un gusto di aceto, come vino di merda. Ho sentito che era tutto sbagliato, mi sono sentita in colpa, sapevo che avevo… ammazzato qualcuno che avrei voluto proteggere. Mi sono sentita debole e stupida. Sottomessa. Per questo non riesco a finire la canzone. Non capisco, e detesto la me che avverto in quella visione ».

« Un dilemma poetico, fantastico. Mi piace un sacco vedere i poeti in crisi ».

Sonja rivolse per un attimo lo sguardo di lato, come se avesse avuto bisogno di pensare. « Ricordi quando mi hai parlato di quell’omino in armatura che vedesti? » disse poi.

« Beh, ora, “omino”… » disse Noctua, continuando a fare i grattini alla civetta. Ma poi improvvisamente saltò su dalla posizione sdraiata, quasi mandando Medusa a gambe all’aria con un fischio acuto, e si rivolse a Sonja con espressione esaltata. « Ho capito tutto! Hai avuto una visione del cavalie— guerriero in armatura, ti sei innamorata ed è uscito il meglio di te, ma poi la sensazione onnipresente di morte è intervenuta, in quanto costante riferimento simbolico al tuo pensiero radicato di non essere degna dell’amore di una brava persona ». 

« Hai dimenticato la rabbia repressa e l’invidia del pene, » le fece notare Sonja, per niente impressionata. 

Noctua sbuffò e si lasciò nuovamente cadere sdraiata. Medusa stavolta stava appollaiata sullo schienale del divano — non si sa mai. « Era la stessa persona che ho visto io? »

« Dalle tue descrizioni tipo bambina di cinque anni, era probabilmente la stessa armatura ma non la stessa persona. Però poi non è che abbia visto proprio bene. È stato un attimo, un fantasma ».

Noctua finì per rabbuiarsi. Non ne parlò a voce alta, si limitò a seguire la traiettoria della sua mente che cadeva come un sasso in un profondo pozzo di pensieri complicati. 

Per dissimulare canticchiava un motivetto, ma si dimenticava sempre che fingere con Sonja era inutile. Magari non aveva l’occhio e la piena conoscenza, ma, per un misto di intuito e tirare a indovinare che aveva perfezionato in molti anni, a volte sembrava che ti guardasse dentro. 

Sonja fumò in silenzio per un po’, dandole modo di marinarsi per bene nei suoi pensieri sofferti. Poi, con la pipa fra i denti, si avvicinò al divano e si sedette sul bracciolo dov’era appoggiata la testa di Noctua. Iniziò distrattamente a farle una treccia ai capelli ricci. 

« Noct, come ti ho detto mille volte, sei una tipa assurda, che ha ottenuto tutte le Regalie con naturalezza. Puoi letteralmente Incarnarti in qualsiasi momento. Ho capito che non vuoi andartene di qui fin quando ci sarà la guerra a minacciare Eilawa, ma ti rendi conto che su Stella Natalis c’è sempre la guerra? Vattene, no? Vai dal tuo omino, ti aspettano. E la cosa ti fa sentire in colpa. Capisco il problema, tutti che ti vogliono e tutti che hanno bisogno di te caricandoti di aspettative. Ma questo è solo il tuo posto di passaggio… vai via ».

« Non posso lasciarti sola qui, andremo insieme, » si ostinò Noctua mentre Sonja le intrecciava i capelli con maestria con le sue dita sottili. « La visione che hai avuto rende perfettamente evidente che siamo destinate allo stesso mondo! »

« Io non me ne andrò di qui, e lo sai. L’ultima Regalia non la posso toccare. In più non mi interessa la conoscenza suprema, mi interessa vivere normalmente. E qui, io… ecco, ci sto bene ».

« Guarda in che condizioni siamo, due donne adulte che non riescono ad accettare le proprie responsabilità ».

« Così sembrerebbe ». 

« Ti mancherei se me ne andassi? »

« Sì, molto ».

« Anche tu, da pazzi. Perciò è deciso: andremo dagli omini insieme. Sarà tutto bellissimo, oso dire perfetto: tu troverai Asgard e diventerai la regina delle nevi e finalmente si presume che indosserai una gonna, e io troverò— uh… beh, non so cosa, ma insomma sarà sicuramente da quelle parti ».

« Pff, come ti pare ».

« A volte potresti anche mostrare un po’ di entusiasmo ».

Sonja finì la treccia, dopodiché strizzò un occhio: una generosa manciata di neve si formò a mezz’aria e cadde su Noctua, facendola strillare e protestare in modo davvero comico.

Un paio di minuti dopo, Sonja era seduta sul divano con Noctua appoggiata alla sua spalla mentre, con aria serena, la sentiva cantare la canzone che aveva scritto per lei, e che aveva definito “una ballata folk punk”. 

 

Se mai lascerò questo mondo viva

Ti verrò a ringraziare per ciò che hai fatto nella mia vita

Se mai lascerò questo mondo viva

Tornerò giù per sedermi in fondo al letto dove dormi

Dovunque andrò a finire tu sarai sempre più di un ricordo

Se mai lascerò questo mondo viva

 

Se mai lascerò questo mondo viva

Mi porterò via la tristezza che ho lasciato indietro

Se mai lascerò questo mondo viva

La pazzia che percepisci finirà presto per svanire

In una parola, non versare nemmeno una lacrima

Sarò lì con te se la situazione si farà strana

Se mai lascerò questo mondo viva

 

Perciò se hai dubbi tu chiamami per nome

Un attimo prima di perdere la testa

Se dovessi lasciare questo mondo…

Forse non lo lascerò mai, ma—

Se mai lascerò questo mondo viva

 

Dirò che è tutto ok; che sto bene

Anche se sei uscita dalla mia vita

Ora tutto dovrebbe aggiustarsi

Perché l’hai detto tu che l’avrebbe fatto

Andrà tutto bene. 

 

*

 

Nel laboratorio del Padre c’era una botola sempre aperta sul pavimento, una botola che appariva come un quadrato perfettamente nero (a causa della profondità della caduta); da essa spirava sempre una corrente fredda e maleodorante; e anche oggi, come spesso accadeva, si sentiva anche provenire da chissà dove giù in basso un muggito lamentoso che faceva davvero pena. Esra sapeva solo che sotto la botola iniziava il Labirinto. Sapeva che si poteva entrare dal portale con le scale, ma la magia impediva a quel punto di tornare indietro; in parole povere, più si andava avanti, ossia in basso, più si era perduti. 

Aveva vissuto vent’anni con questa consapevolezza, sapendo che dietro di lei c’era una porta sigillata e che davanti c’era il Labirinto, che scendeva e scendeva nelle viscere dell’isola volante fino a terminare in un salto nel vuoto; perciò, se per fuggire fosse andata avanti, alla fine sarebbe rimasta intrappolata fra una porta chiusa e l’abisso per il resto della sua eterna giovinezza, finché un giorno avrebbe deciso di farla finita e saltare.

Ma per ora non pensava a queste cose. L’essere in trappola era un dato di fatto da vent’anni, parte della sua stessa esistenza. E del resto, il Sigillo non le permetteva di far niente. 

« Un tasso di rigenerazione sbalorditivo a dir poco. Che questa sia la Pellegrina più vicina a un dio che abbiamo mai incontrato? »

Il Padre, come sempre, stava relazionando il suo uditorio in merito alle sue scoperte. Esra aveva una vaga concezione che tutto questo fosse grottesco e inutile: il Padre non aveva mai scoperto niente di risolutivo in vent’anni, e il suo uditorio era composto dai corpi misteriosamente mummificati di quelli che erano morti lì dentro nei secoli. Cioè i vecchi abitanti del Labirinto, a ricordarle perennemente qual era il rischio, lì dentro. 

Nel tempo Esra, pur non avendo capito chi lei stessa fosse, aveva compreso che troppe rigenerazioni di seguito erano una faccenda molto dolorosa. Per esempio, rigenerare entrambe le gambe inficiava molto la camminata per un certo tempo (che non aveva modo di misurare). Rigenerare un organo interno era come averlo malato per qualche tempo.  

Ora non riusciva a rendersi nemmeno conto, sdraiata scompostamente su un tappeto di sangue. All’inizio aveva avuto un forte dolore — forse un formicaio nella testa, o un nido di calabroni che facevano un frastuono infernale; come sempre aveva pensato inutilmente alla morte, quale unico sistema per far tacere quegli insetti. Aveva pianto, ma poi le si erano seccati gli occhi. 

« Come ha potuto sopravvivere all’asportazione del fegato, come ha potuto rimanere cosciente durante la procedura? Come può essersi esso rigenerato tanto velocemente da non darle nemmeno il tempo di morire? Una rigenerazione di questo livello è pari all’immortalità. Di più, è insieme parabola di straordinaria forza vitale e tragedia della tracotanza dei mortali ».

Nel trasporto, il Padre assestò un colpo a uno dei suoi colleghi morti e la povera mummia andò in pezzi come una fragile struttura di friabili legnetti. 

Esra avrebbe voluto gridare — la conosceva bene la mummia che era andata in pezzi, e ci era affezionata più che alle altre — ma gorgogliò solo un grugnito penoso. Si stava dissociando, lo sapeva bene.

Il Padre a volte le parlava del mondo esterno, ma Esra già da tempo aveva capito che mentiva: era infatti un disperato prigioniero lì dentro, e si capiva bene che non aveva potere sul Labirinto. Perciò parlava orribilmente di Stella Natalis, forse perché anche lui era impazzito a modo suo. Parlava di violenze e disordini, di un mondo dove non c’era l’apollineo, di un cielo sempre freddo senza sole. Ma Esra avrebbe voluto comunque vederlo prima o poi. E quando ci pensava, poi le sprofondavano le budella dallo sconforto: era in trappola lì dentro insieme a lui. E alla bestia che, in profondità, ogni tanto muggiva per la fame disperata.

Mi ha mai amato qualcuno, in passato?, si chiedeva a volte Esra. C’era una donna che l’aveva partorita? Aveva mai avuto fratelli o amici? No… evidentemente no. Altrimenti qualcuno in vent’anni avrebbe almeno provato a salvarla. 

Il Padre la amava, come era solito dire. Si presentava come l’unico su cui lei potesse contare, ma Esra non beveva quel veleno. Era stata punita diverse volte per il suo atteggiamento; e qualche volta il Padre arrivava già nudo nella sua cella. Da nudo era veramente disgustoso, e vecchio. Proprio perché era vecchio aveva premura di ottenere per sé la rigenerazione e la giovinezza dei Pellegrini. Ma era troppo stupido per arrivarci. Comunque Esra non poteva farci niente: erano vent’anni che portava il Sigillo piantato saldamente alla base della nuca. 

« E tutto questo malgrado il Sigillo… ma del resto i Pellegrini di Dioniso sono sempre stati casi eccezionali. Oso dire che questa è una pura, non filtrata determinazione a vivere, che sembra perfino piegare le regole di Stella Natalis ».

Il Padre parlava sempre molto di Dioniso. Ne parlava come di un parassita nel cervello di Esra che desiderava esercitare su di lei la piena possessione. Esra pensava che quella fosse, semmai, la perfetta descrizione del Padre. Ma psicologicamente era ormai a pezzi, e sapeva bene cosa le succedeva quando diventava insolente. 

Poteva Dioniso essere tanto maligno? Esra a volte pensava che la stesse tenendo in vita. Pensava, addirittura, che forse lei aveva uno scopo, ma quale? Cosa doveva fare?

Il Padre le diceva che il Sigillo era necessario perché Esra non perdesse la testa, come tanti Pellegrini di Dioniso che non arrivavano mai sani nemmeno alla prima Regalia, e morivano prima della seconda. Le diceva che senza Sigillo la vita non sarebbe stata possibile; gliene parlava come di un essere malvagio, in spregio ad Apollo, un essere che voleva solo il male di Esra; e le spiegava che aveva visto nel suo futuro che, se Dioniso l’avesse posseduta del tutto, avrebbe conosciuto solo la pazzia e la solitudine, e le persone che erano importanti per lei le avrebbero dato la caccia. 

Esra spesso pensava al male, cercando di capire cosa potesse essere. Il Padre diceva, a volte, dopo averla violentata, di sentire che tra le stelle c’era un’oscurità profonda e inspiegabile, quasi che l’universo fosse sorretto da una mente malvagia e nemica; ma il Padre pensava di essere immune a tutto questo, o così almeno si raccontava per avere meno paura.

Una forma di vita o non-vita maligna Esra la percepiva oltre quella botola. 

« Oh, Pellegrino dorato di Apollo, il Sigillo regge e reggerà sempre, ogni mese lo rinnovo, che questo mondo sia sempre a misura d’uomo, d’uomo giusto, finché non avremo dissipato il caos da Stella Natalis ».

Esra sentiva il sangue scorrere e rigenerarsi, il corpo ricrescere come un fungo, e nel piangere non riusciva a emettere un suono.

« Noi qui, Esra, stiamo sublimando il caos, gli diamo una forma studiata, comprensibile. Non serve a nulla essere vittime dell’istinto che si presenta come una foresta selvaggia dove vige solo la legge del più forte… ma io non posso scioglierti dal Sigillo, perché vedo che a ogni momento cerchi di spezzarlo. Un principio selvaggio comporterebbe la decadenza della Terra Infinita. Non escludo che tu ti senta comunque una vittima, ma è sgradito compito dei padri impartire lezioni perennemente fraintese. Almeno tu fossi capace di darmi qualcosa in cambio… sarebbe il minimo ».

Le erano stati presi diversi pezzi negli anni; poi il Padre si arrabbiava perché non otteneva nessun risultato; e a volte diventava molto violento per questo motivo. Esra aveva paura di piangere ad alta voce, il Padre non ne sopportava il rumore.

« Perché vivere ad ogni costo, incluso quello, salatissimo, della perdita del dominio di sé? Senza il Sigillo tu perderesti te stessa. Quando ti ho adottato vent’anni fa, seppi subito che non volevo questo per te. La maledizione delle passioni, l’incubo spaventoso che è la vita di un animale. Tu sei per l’appunto ostinatamente un animale. Per questo hai così disperatamente bisogno di un padre ».

Però che rabbia.

Che potente, primordiale, ingestibile rabbia.

Mettendosi faticosamente a gattoni Esra si mosse velocemente, afferrò il Sigillo e tentò ancora una volta di strapparselo dalla nuca. Dovette desistere subito, gridando di un profondo dolore: strapparselo in quel modo poteva spappolarle il cervello. 

Il Padre la guardava piangere e gemere scuotendo la testa in pieno disgusto. 

Ora l’avrebbe punita? Cosa, questa volta? Un mese rinchiusa in cella di isolamento, a non mangiare né bere e a vivere nelle proprie deiezioni impazzendo per il buio cieco che esponeva i suoi incubi e per lo spazio minuscolo?

Rabbia. 

« Perché, Esra? Perché hai deciso di essere un fallimento? Non ti manca niente. Hai l’istruzione, hai l’edificazione, tutto in seno ad Apollo, che è quanto di meglio possa chiedere una povera creatura dionisiaca. Eppure avremmo potuto arrivarci, all’obiettivo ».

« Obiettivo…? » gracidò Esra, che aveva un’emicrania insopportabile e stava sulle ginocchia con la guancia schiacciata a terra, a reggersi lo stomaco per la nausea estrema. 

« Certo. L’obiettivo di cambiarti. Di renderti una persona del tutto nuova, che rinnega ogni intemperanza irrazionale. E di donare anche a me, tuo Padre, il dono dei tuoi poteri prodigiosi. Il minimo, dopo tutto quello che ho fatto per correggerti, e l’ho sempre fatto a fin di bene. Per salvarti da Dioniso, che non ti porterebbe altro che dolore. È un dio terrificante da avere in corpo, un dio che non si può controllare e che conduce il Pellegrino a rovinarsi la vita. Avresti fatto una brutta fine, come ti ho detto prima, e dovevo salvarti ».

« Quando… avrai i miei poteri… la cosa mi ucciderà… »

« Non lo so con certezza. Per prima cosa, desidero scoprire come i Pellegrini possono diventare fertili, capaci addirittura di procreare fra membri dello stesso sesso. Allora forse… lui mi darà un altro Pellegrino. Lo farò accoppiare con te, e potrò continuare il lavoro su più fronti. Poi, quando avrò i poteri di un Pellegrino, io potrò uscire di qui, tu invece ci rimarrai ».

Esra scagliò al Padre uno sguardo di traverso folle di ferocia. « Perciò significa… che io posso già uscire di qui ». 

Esra spense il cervello. 

Stretto il Sigillo nella mano se lo strappò oltre la soglia del dolore e della sopravvivenza. Il suo urlo, mentre il Sigillo veniva con tutti i tentacoli che erano stati aggrappati al suo cervello — e forse, anche qualche brandello dello stesso — scosse il Labirinto intero. 

Il Padre era impotente a quel punto, e Esra si maledisse per averlo capito solo ora. 

Per essersi lasciata domare; e gli infilò in profondità le dita nelle orbite strappandone via tutto il contenuto.

Per essere stata stupida; e la sua mano destra sviluppò delle unghie lunghe e metalliche come artigli, e gliela conficcò nel collo, spuntando nella bocca e strappandogli la lingua in tutta la sua lunghezza.

E soprattutto per essersi lasciata picchiare, punire e stuprare come una qualunque innocente lavanderina, lei che era una Pellegrina; e a mani nude squarciò il ventre del Padre.

Con sua sorpresa, malgrado in quel momento Esra non fosse in grado di rendersi conto bene di niente a causa dello shock cerebrale che si era causata, vide che il sangue aveva smesso di uscire dal corpo del Padre… quello che ne stava generosamente sgorgando adesso era una gelatina nera, qualcosa che aveva una puzza veramente nauseante, qualcosa che pulsava, come cosa viva, dello stesso senso di malanimo che Esra aveva sempre percepito dalla botola. 

Probabilmente era qualcosa che non era bene toccare. Però Esra ne era fradicia fino alla punta del capelli. E in realtà non le importava affatto: ormai era una furia. 

Ripreso fiato, Esra seppe cosa fare: dirigersi alla botola e saltare giù. Era pronta a buttare giù tutto il labirinto, per quel che gliene importava. 

 

Esra per lungo tempo, a causa di uno stato febbrile e alquanto confusionale, girovagò per il Labirinto discendente. Sapeva di dover scendere sempre più in basso, certo, ma le salite e le discese del Labirinto non avevano senso geometrico e non erano di nessun aiuto. 

Girò un angolo, sperando di aver trovato una strada. Quello che trovò, invece, la congelò sul posto: un corridoio ampio, quasi un salone, vuoto… al termine del quale, impossibile capire a che distanza, si trovava una grande faccia. 

Era la faccia di un vecchio rugoso con i capelli radi e disordinati, sparati in tutte le direzioni; aveva le orbite infossate e profondamente scavate, con due occhi a palla che ruotavano in modo innaturale, e indipendentemente l’uno dall’altro; la bocca con diversi denti mancanti era atteggiata in una smorfia bavosa e folle. 

Sul pavimento c’era una profusione di quella strana gelatina nera. Esra di colpo si sentì sola, senza speranza e senza più alcun istinto di salvarsi. 

Per te è tardi. 

Esra non riusciva a muoversi. Aveva una gran voglia di cavargli quegli occhi da lucertola, eppure questa voglia, appena veniva formulata, si spegneva subito. 

Io sono eterno. I Cavalieri di Sidonia sono morti. E per te è sempre più tardi. 

« Chi sei? » gridò Esra, esasperata. Perché si sentiva attratta da quella faccia ripugnante?

Il tuo Imperatore. 

« Non ho nessun imperatore, » ringhiò Esra. 

Il tuo corpo può resistere forse per secoli, ma hai toccato la bile nera; l’hai respirata per vent’anni; è stata eiaculata dentro di te da tuo padre molte volte; tu diventerai un Affamato. Avrai sempre, sempre fame… e quando nella tua vita entrerà la luce, sarai capace solo di consumarla e distruggerla, e diventerai un mostro a cui nessuno vorrà mai bene. 

« Basta! Sei solo un altro come il Padre, e morirai anche tu! »

Sono stato io a darti a tuo Padre, che da tempo era posseduto dalla bile nera. Tu perderai gradualmente la tua volontà in favore della pazzia. Più diventerai potente per resistermi, più mi farai un favore… e infine viaggerai per l’universo uccidendo semidei. Io qui ora ti conferisco le abilità di Navigatore. Quando Stella Natalis sarà intrisa di bile nera, i semidei che verranno al mondo saranno semidei neri. E tu sei la prima. 

Esra stava lottando contro la pulsione in misura titanica, ma non riusciva a impedirsi di avanzare verso il faccione. 

« Il tuo nome! »

Tuo Padre era ossessionato dalla luce, perché ne aveva fame. Per questo cercò il culto di Apollo. Culto che è responsabile di quello che ti è successo per vent’anni. 

« Chiunque mi faccia di nuovo del male o me ne abbia fatto finora morirà. Ma questo include anche te! »

La bordata magica che Esra scagliò contro la faccia fu completamente inutile; e il suo pugno successivo diretto proprio sul suo bulbo oculare sembrò totalmente perdersi nel vuoto. Esra continuò a menare colpi alla cieca fin quando non fu senza fiato, ma il vecchio non aveva subito nessun danno, e nemmeno aveva cambiato espressione. 

In quel momento, Esra sentì un rumore da gelarle il sangue: il muggito, quel muggito che aveva sentito per vent’anni, e ora era proprio dietro di lei.

Si voltò, malgrado fosse molto tesa al pensiero di dare le spalle al vecchio. 

Avanzava verso di lei con un incedere incostante e irregolare un colosso d’uomo di due metri e mezzo con addosso tanti di quei muscoli da sembrare finto, e per giunta non aveva una testa compatibile col resto del corpo: era la testa di un toro. 

Esra si sentiva su di giri, è vero, ma doveva pur prendere coscienza del fatto di non aver mai lottato prima d’ora e di non portare con sé nessuna arma. Il mostro avanzava e caracollava e intanto sbuffava con violenza. Esra sentiva anticipatamente dolore e ossa rotte solo a guardarlo. Ma se restava concentrata, era sicura di poterlo abbattere con la magia. Quanto poteva essere difficile inventarsi un incantesimo sul momento?

Esra, adesso chiusa fra la faccia del vecchio e il Minotauro, non fece in tempo a finire di porsi quella domanda; perché il secondo iniziò a contorcersi e a soffrire in modo davvero orribile a vedersi, poi il suo corpo iniziò a piegarsi e scattare in angolazioni innaturali, e infine fu squarciato in due. 

Dallo squarcio emerse una creatura molto grande, di difficile interpretazione. Era una bestia tutta nera, del nero più assoluto immaginabile, tanto che non si riusciva quasi a vederlo nella penombra; una creatura contorta e con troppi arti, ognuno dei quali terminava in artigli simili a falci. In bocca aveva delle tali zanne da non riuscire a chiuderla, e tutto il suo strano e orribile corpo era coperto dalla gocciolante melma nera di prima, la quale emanava un tanfo di carogna quasi insopportabile. 

Un Affamato. Un prodotto della mia mente. Ammira il tuo futuro. 

Esra provava delle sensazioni impossibili da mettere a fuoco. Aveva paura, o per meglio dire era terrorizzata; si sentiva emozionata in maniera selvaggia; ma soprattutto era completamente fuori di sé dalla rabbia.

La magia le uscì dai palmi delle mani dopo averle provocato a tutto il torace una compressione quasi insopportabile; l’Affamato fu travolto in pieno da onde di potere acuminate come lance, che lo trapassarono in più punti facendo schizzare ovunque quell’orribile melma velenosa. Esra non sarebbe stata capace di fermarsi nemmeno se avesse voluto e, bordata dopo bordata, infilzò, trapassò, maciullò e mutilò il mostro con un potere magico tale che sembrava che il Labirinto sarebbe crollato. 

Infine, Esra saltò sopra alla bestia agonizzante, caricò un pugno con tutte le proprie forze, e colpì la creatura con tutta la magia di cui era capace; il boato fu assordante, l’Affamato finì disintegrato e così anche il pavimento sotto di lui e quello ancora sotto, finché al posto del Labirinto non rimase una voragine simile a un imbuto che conduceva direttamente cento metri più sotto, alla base dell’isola volante. L’uscita.

Esra si piegò su sé stessa per vomitare. Non si reggeva in piedi, non trovava equilibrio, si sentiva costantemente sbilanciata e in procinto di precipitare nella voragine. I suoi movimenti erano patetici e scoordinati, completamente casuali come un attacco, non riusciva più a sentire i rumori. I suoi muscoli tremavano a scatti violenti, e aveva perso sensibilità alle estremità. Se ne deduceva che l’esposizione alla bile nera causava danni al sistema nervoso.

Quando riuscì a smettere di vomitare il vuoto che aveva nello stomaco, una sorta di bava giallastra e acida mescolata al sangue, avendo il suo corpo rigenerato i neuroni danneggiati, riuscì a rialzarsi in piedi. Il faccione del vecchio spaventapasseri non c’era più. Aveva posseduto lui il Padre. Avrebbe posseduto anche lei?

Troppo esaltata per pensarci davvero, iniziò a scendere con cautela la parete della voragine per raggiungere l’uscita.

 

Era il cielo di Stella Natalis. Una galassia infinita, di profondità praticamente incommensurabile, dove si vedevano senza alcun filtro atmosferico, e stranamente vicinissimi, tutti i corpi celesti di centinaia di colori. C’erano almeno tre lune in cielo, per quel che poteva vedere; e creavano un paesaggio notturno che Esra non avrebbe mai potuto immaginare da sola.

Davanti a lei, la terraferma, a sua volta sospesa nel vuoto. Lei si trovava più in basso, all’ultima radice dell’isola volante; guardando in alto vedeva il continente senza fine salire a perdita d’occhio, mentre guardando in basso era il vuoto cosmico. E, sicuramente, la morte. 

Ma non per lei. Esra aveva infatti la distinta sensazione di essere appena venuta al mondo. Era doloroso ed era un bagno di sangue. Sangue che nonostante tutto le rombava nelle vene pronto a vivere, a scorrere ruggendo, a schizzare fuori dalle ferite che era pronta e ricevere e infliggere, al punto che la bile nera adesso non la preoccupava più.

Chiuse gli occhi ridendo, e saltò nel vuoto.

 

Un fulmine dal nulla la colpì a mezz’aria, e Esra emise il grido di emettono i neonati quando vengono strappati alla placenta. 

Una manta cosmica la intercettò mentre, così ustionata, cadeva nel nulla. 

Sdraiata sul dorso della creatura, malgrado avesse tutto il corpo e il viso ricoperti di ulcere, Esra rise di cuore. 

 

*

 

Diciotto anni dopo.

 

« Esra… io non c’entro niente con l’uomo che ti ha torturata. Anzi ero stato io stesso a confinarlo nel Labirinto, per tutto il male che aveva fatto cercando di ottenere per sé stesso le caratteristiche dei Pellegrini, come un qualsiasi cannibale di Fenrir ».

Esra, coi suoi capelli rossi tempestosi, vestita di un’armatura di cuoio sopra abiti leggeri e discinti, gingillandosi col Tirso fra le mani, sorrideva con beffarda indifferenza. « Beh, immagino che a questo punto tu debba per forza dire così, non trovi? »

« Dico la verità, Esra! » esclamò il Pellegrino. « Non ti ho mai percepita come una nemica, non sapevo nemmeno della tua esistenza! Non ho mai agito contro di te anche se sapevo che mi stavi cercando, anzi sono venuto qui per parlare ».

Esra non gli rispose, ma si divertì a girare un po’ intorno a lui, appeso com’era per i polsi al centro della sala. Tutto intorno si consumava una celebrazione per la vittoria, ed era un po’ un allegro simposio, un po’ un’allegra orgia. 

Tutto il seguito di Esra, completamente esaltato, nudo, sporco di sangue dei nemici che era stato utilizzato per tracciare dei disegni sui corpi, gridava a viva voce esigendo che il Pellegrino di Apollo venisse spellato. 

« Ti voglio tutti morto, » osservò Esra.

« Non vedo i tuoi attrezzi da macellaio, » commentò il Pellegrino cupamente. 

« Usare un attrezzo è come fare sesso con quella di un’altra ».

Fissando il Pellegrino negli occhi, Esra gli trasmise direttamente al cervello una scossa di magia. Non fece, così, troppa fatica a forzargli la mandibola perché aprisse la bocca; con l’altra mano si introdusse nella sua bocca che tremava violentemente, gli afferrò la lingua e gliela strappò dalla testa con un unico movimento deciso. 

Il Pellegrino inizialmente gridò, ma cadde quasi subito in shock, appeso com’era. La testa gli ciondolava e dalla bocca grondava il sangue. Alcune Menadi di Esra si fecero avanti armate di calice, per attingere a quella fonte. Tutta la sala gridava di scomposta esaltazione. 

Poi Esra si voltò verso l’orgia in corso, tenendo in mano la lingua. Sembrava molto più lunga ora che era staccata. « Un po’ di silenzio, finalmente, » sorrise. « Continuate tranquilli ».

Ci fu un boato di risate. 

La festa andò avanti tutta la notte. Il Pellegrino di Apollo subì una mutilazione dopo l’altra, sempre praticata a mani nude, in modo che svenisse ogni volta che rinveniva, e le varie parti che gli venivano strappate venivano cotte sulla brace. Esra non gradiva il cannibalismo, ma alcune Menadi sì, per non parlare dei cani e dei loro cavalli, che erano tutti carnivori. 

Nelle pause Esra si sedeva presso il confortevole salottino che le era stato imbastito a mo’ di trono. Qui carezzava distrattamente sulla testa Tempesta, la sua femmina di pantera nera tanto grande che ella la cavalcava in battaglia; e anche Tempesta, seppure con elegante moderazione, si compiaceva di sbocconcellare i resti dell’evirazione completa di Apollo.

Apollo trovò la forza di pronunciare un paio di prediche e di tirate contro la pazzia, criticandola per aver ricevuto quest’ultima col fulmine che era stato la sua prima Regalia. Alla fine, dato che non era ancora immortale, venne fatto morire: Esra ordinò che le Menadi si avventassero su di lui, e quando ebbero finito non rimase che una poltiglia irriconoscibile penzolante in malo modo da pochi residui di ossa e di spina dorsale.

« Tu lo sai bene che non era necessario, » disse Tempesta. « E che davvero questo Pellegrino non aveva colpa per quello che ti è successo ». 

« Mi è girata così, » sorrise Esra. 

« Tu non sei un dio, Esra, ma una possibile reincarnazione. Anche Incarnata, però, non potresti comunque vivere come un dio. È un’esperienza non destinata agli umani e a tutti quelli che sono simili agli umani. Devi pur vivere come i tuoi simili, e trovare una compagnia… meno disgraziata di questa. E magari, qualche amicizia che sia il tuo incoraggiamento e la tua motivazione a guardarti dentro e volerti finalmente bene ».

« Non ho bisogno di altro supporto tranne me stessa. E poi, sarei simile agli umani? Ti prego ».

Esra si stravaccò più comodamente sui morbidi cuscini sporchi di sangue, con in mano un calice di vino rosso. 

« Eppure sei diventata pazza, come potrebbe capitare a un umano, » obiettò Tempesta. Era l’unica che potesse sfidare Esra. « Com’è stato già detto, la pazzia è il dono che hai ricevuto per essere venuta al mondo come Pellegrina di Dioniso. Ma la pazzia è un dono soltanto se stimola la mente a dominarla, altrimenti è destinata a diminuire molto la tua vita. La soluzione sarebbe bere di tua spontanea volontà la rugiada che si forma sulle foglie dell’ulivo sacro di Eilawa. Ciò non altererebbe chi sei, ma ti guarirebbe dalla follia ». 

Esra schioccò le labbra con sufficienza. « Andare al Nord? Perché no. Appartiene tutto a quella montata di Odino. Sarà divertente strapparglielo ».

« Apparteneva a lei, è vero, » rispose Tempesta. « Ma adesso è tutto unificato sotto la guida congiunta sua e della Pellegrina di Atena, che hanno formato un’alleanza ». 

« Strana coppia, » disse Esra con una smorfia sarcastica.

« Esra… non hai speranza di sopravvivenza contro le due Pellegrine unite. Sono più vecchie e più esperte di te. Peraltro è la Pellegrina di Odino a guidare l’esercito del Nord, e si tratta di un’armata che è venti volte la tua, composta da guerrieri ben addestrati, disciplinati e motivati, non esaltati ».

« Vedremo… » sogghignò Esra. « Io ho sentito dire che la Pellegrina di Atena è una pacifista, e che quella di Odino, taaaanto potente oltre ogni limite, non ha nemmeno ottenuto l’Occhio. Piuttosto patetico, penso ». 

« Ti sconsiglio di sottovalutarle. E queste parole ti saranno utili ora, o fra molto tempo ».

Esra non rispose, e tracannò il vino in un solo sorso, prima di buttare il calice a terra dove finì in mille pezzi.

« So quanto ti senti sola, » proseguì Tempesta. « E quanto ti senti obbligata a comportarti in un certo modo per compiacere il tuo seguito, e perché la tua mente è confusa. Ma io ti dico comunque che il tuo destino è molto probabilmente collegato a quelle due Pellegrine. Se per una volta vuoi degnarti di ascoltare un consiglio, io credo che dovresti far visita a Eilawa. E bevi quella rugiada, Esra. Dioniso stesso, nel mito, rinvenne dalla follia. Altrimenti non sarebbe stato grande ».

« Ma sì, mi hai convinta, » sorrise con indifferenza la Pellegrina. « In fondo che male c’è? »

« La rugiada non può guarirti dalla bile nera ».

La voce di Esra si fece dura. « Questo discorso non deve mai più uscire dalla tua bocca, Tempesta ». 

« Se vuoi tenerlo segreto lo manterrò, non perché tu abbia qualche speranza di obbligarmi a fare ciò che vuoi, ma perché ti rispetto, » rispose Tempesta con calma. « Ma dovrai farci i conti… non domani, non tra dieci anni — la tua rigenerazione è troppo veloce e potente. Ma prima o poi dovrai. E sarebbe una pessima idea farlo da sola. Io ho visto parecchi Pellegrini di Dioniso, Esra, e troppi sono morti per non essere riusciti a sopportare la presenza del dio. Tu, in più, devi sopportare anche un’altra presenza ». 

« Io mi prendo cura di me e mi basto, Tempesta ».

« Sarebbe un tratto positivo, in casi normali. Ma nel tuo caso, non è vero che ti basti. Hai semplicemente deciso che non puoi fidarti di nessuno, malgrado sia tu la prima che si pone in chiusura a ogni nuovo incontro e lo fa risultare nella violenza. E un umano in questo stato, in questo universo, è un umano morto ». 

 

*

 

Noctua, vestita di bianco, stava in piedi appoggiata all’enorme tavolo di legno di ulivo sacro che si trovava al centro della sala delle udienze. Sonja, vestita di nero e nascosta in tralice dietro un cappello a tesa larga, era seduta lì vicino, con le gambe incrociate stese e i piedi appoggiati sul bordo del prezioso tavolo, perché Noctua si era stancata di sgridarla già da anni. Era intenta a pulirsi il sangue secco sotto le unghie con un pugnale affilato. 

Eilawa aveva ricevuto una messaggera, una donna dall’aria stravolta, con tutte le unghie spaccate e qualche dente spezzato, oltre a un colorito tendente al giallo.

« Non avevamo mai ricevuto un dispaccio da un centro di riabilitazione. Un esercito di alcolisti con l’epatite armato di cocci di vetro avanza verso di noi? » ironizzò Sonja, malgrado la messaggera potesse sentirla benissimo.

« La pianti? » le sibilò Noctua. Poi tornò a rivolgersi alla sconosciuta con voce molto addolcita. « Dicevi… sei venuta ad avvertirci di qualcosa? Da dove, e perché? »

La messaggera parlava con voce terribilmente fioca, come se avesse passato gli ultimi tre mesi a urlare. « Io sono scappata dal seguito di Esra… la Pellegrina di Dioniso ».

« Come mai sei scappata? »

« Non potevo più vivere così… » Sul suo viso dalla pelle molto sciupata e graffiata cominciarono a scendere le lacrime. « Era… mio marito. Non so… non so cosa mi è preso! Io non l’ho mai odiato! Ma… era tutta quella situazione, non c’era mai pace, non c’era mai— non pensavo, non capivo, ero solo… pazza ».

Sonja, rivolgendo alla sconosciuta uno sguardo penetrante e molto aggressivo, si fece comparire Gungnir in mano e, anche se rimase seduta, in questo modo diventò estremamente minacciosa; per giunta sollevò la lancia dando poi un colpo sul pavimento che risuonò di un rumore innaturale, come uno schianto, il rumore di Gungnir che aveva fatto accartocciare le budella a tanta gente. « Sì, è quello che significa essere una Menade. Ma stai sprecando il nostro tempo. I tuoi pentimenti raccontali più tardi in terapia, ora sei davanti a due Pellegrine e vieni al dunque ». 

Noctua le rivolse un’occhiataccia. 

La Menade era in preda al pianto, ma sotto quella minaccia si sforzò di parlare, e balbettò in qualche modo che Esra col suo seguito aveva deciso di dirigersi verso Eilawa; spiegò che da tempo Esra era completamente consumata dalla pazzia, e che si raccontava, come si narra una leggenda, che un fulmine le avesse spaccato il cervello in due. La Menade disse che il suo seguito stesso aveva trascorso anni interi in una trance selvaggia — per mezzo di droghe raccolte dalla terra, di uno strano vino e della sinistra aura folle che emanava Esra stessa mentre li incitava a sbranare, smembrare e squartare. 

« Ecco, » disse Sonja rivolgendosi a Noctua con aria sarcastica. « Quanto ci è voluto, quattro minuti? »

« Ora ti butto dalla finestra, » le annunciò Noctua. 

Di nuovo si rivolse alla Menade, e le promise che avrebbe avuto asilo e assistenza, e che avrebbero parlato di nuovo in seguito. La donna, tutta scossa dalle lacrime, fu accompagnata fuori dalle guardie, e le due Pellegrine rimasero sole.

« Uhm… tutto questo mi suona familiare, » disse Noctua incrociando le braccia sul petto.

« Cioè? »

Noctua finse di doverci riflettere. « Una pazza omicida che marcia su Eilawa con un seguito di fedelissimi assetati di sangue. Fammi pensare… dov’è che l’ho già vista, questa scena? Oh, non mi viene proprio in mente! »

« Io non sono pazza, sono un tipo, » disse Sonja, tranquilla. La lancia era ora appoggiata al muro accanto a lei, e lei continuava a gingillarsi col pugnale. « Del resto che colpa ne ho se l’aspirante dea Atena raccatta dalla strada tutti i cani randagi che le capitano, più rognosi sono meglio è? »

Le due si scambiarono un sorriso affettuoso. 

« Io scommetto che è venuta a bere la rugiada, » disse Noctua con fiducia.

« Può essere, ma io non credo che verrà a chiederla gentilmente. Magari possiamo spararle la rugiada inframuscolo con un fucile da cecchino a dardi tranquillanti, tipo gorilla inferocito ». 

« Noneee, deve essere una cosa volontaria! » protestò Noctua. « Ma sono sicura che basterà giusto una spintarella ».

« Bene, » rispose Sonja. Si alzò dalla sedia con un movimento elastico e afferrò Gungnir. 

« Che fai? »

« Esco con Sleipnir, » rispose Sonja. 

« A fare che? »

« Beh, vado a incontrarla per darle la spintarella ».

« Assolutamente no! » protestò Noctua. « Con te e Sleipnir finisce sempre tutto in sbudellamenti e simili. Vengo con te su Pegaso in veste di voce della ragione ». 

« Ah-a, certo, e magari inviti qui Esra e tutto il codazzo di Menadi. Così ti svegli domattina e tutti gli abitanti sono stati sfilettati ».

Noctua mise le mani sui fianchi e assunse una delle sue comiche espressioni orgogliose. « Beh, ho ospitato i tuoi guerrieri no? E quello dall’aspetto più rassicurante era alto un metro e novanta per cinquanta centimetri di circonferenza del bicipite, aveva la barba sporca di sangue e aveva anche un’ascia tatuata sulla fronte e una cicatrice gigantesca sul viso ».

Sonja la guardava con un sopracciglio alzato in un’espressione di affettuoso dileggio. « Ma dai, come se non lo sapessi quanto sei nervosa di fronte al sesso maschile. Saresti terrorizzata e farfuglieresti anche davanti a un laureando in fisica, e quelli il pisello nemmeno ce l’hanno ».

« Non è affatto vero che sono nervosa di fronte agli uomini, » puntualizzò Noctua, offesa. 

« Mh, già. L’altro giorno col ministro del tesoro balbettavi talmente tanto che il pover’uomo non ha capito un cazzo ».

« Calunnie e fabbricazioni ».

« Per curiosità, riguardo a quei famosi guerrieri sacri, e probabilmente molto  alti e muscolosi, dai quali vorresti dirigerti… come pensi di comportarti con questo tuo piccolo handicap? »

« Beh, lo supererò ».

« Ah-a. Perché la forza di volontà può tutto ».

« Esatto! »

Le due donne si abbracciarono ridendo e poi si diressero fuori dal salone. 

 

*

 

Un mese dopo.

 

Esra guardava il bambino, di forse tre o quattro anni, che veniva accompagnato dai genitori nella vasca della purificazione e, sotto la supervisione di Noctua, riceveva dalla gran sacerdotessa il battesimo. Cerimonia davvero noiosa, anche se la musica non era male. Poi tutte quelle luci magiche che pendevano dai rami dell’ulivo sacro facevano molto illustrazione di un librone di fiabe. Però a lei sembrava tutto così insulso. Non sentiva quasi niente, non le piaceva quasi niente. Forse era stata strafatta per troppo a lungo.  

Stava assistendo da una terrazza costruita su un ramo più alto dell’ulivo rispetto a dove si trovava la vasca. Si aggirò per un po’ in preda alla noia. Non sapeva ancora come avesse fatto Noctua a convincerla a restare per qualche tempo, in attesa di decidere se bere la rugiada. 

Si sentiva un po’ in disintossicazione dopo quasi vent’anni di uccisioni. Il che significava che la vita ad Eilawa le risultava particolarmente noiosa e obbligata. In più, nessuno tranne Noctua le dava confidenza, mettendo così in chiaro che la consideravano una causa persa e una fonte solo di possibili delusioni, o magari anche un pericolo terrificante. A volte aveva voglia di appiccare il fuoco all’albero. 

Sbadigliò e continuò a passeggiare. Si accorse poi che poco più avanti, in cima a una breve scalinata e intenta a guardare il battesimo con espressione stranamente morbida, c’era la Pellegrina di Odino. Come ogni giorno a quell’ora, aveva i corvi sulle spalle, e anche se con gli artigli le ferivano la pelle non ci badava. Sembrava che quelle due strane bestie le parlassero all’orecchio.

La prima volta che Esra l’aveva vista era stata quando lei e Noctua le erano venute incontro per patteggiare mentre muoveva su Eilawa. 

Noctua le aveva fatto una forte impressione, ma Sonja ancora di più — in groppa a un possente cavallo da tiro dello stesso grigio dei suoi capelli, con la lancia in pugno e un cappello a tesa larga in testa, e senza armatura, come se non avesse ritenuto che le potesse servire. Esra aveva notato quanto era gradevole alla vista il solido ventre lasciato scoperto dal crop top, e quanto fossero snelle e lunghe le dita aggrappate alla lancia. Aveva anche lei gli occhi verdi, ma di una sfumatura mai vista di pistacchio. Un colore da dessert su un viso così freddamente atteggiato. Esra l’aveva considerata una donna molto virile, ma aveva notato come si poneva sempre, volontariamente o meno, in posizione difensiva verso Noctua, mostrando così anche una sua lealtà e un tipo di coraggio espressamente femminile. 

Noctua, principalmente perché non era incline a trattare Esra come una qualunque pazza, era riuscita a convincerla a trascorrere un periodo sabbatico presso Eilawa, e a Sonja si leggeva negli occhi che era pronta a uccidere al minimo sgambetto. 

In città, in seguito, le avevano raccontato tutti di Sonja, e Esra si era resa conto che avevano qualche cosa in comune — ma lei sembrava così amata, non solo temuta. 

Esra l’aveva osservata in seguito, rendendosi conto di farlo un po’ troppo spesso. La vedeva allenarsi o bere coi suoi uomini, tolettare Sleipnir o cantare per la gente della città. A volte arpeggiava da sola seduta su un ramo isolato, come se avesse chiesto al cielo galattico di parlarle di qualcosa che le mancava terribilmente. In fondo quando era sola doveva essere una donna piuttosto dolce, alla quale interessava starsene in santa pace e avere tempo per pensare. Però sembrava, in effetti, che non le interessasse molto altro. 

Adesso era lì davanti, sempre vestita di nero come al solito, ma senza cappello. Era vestita più leggera rispetto alle altre volte e aveva i pantaloni alla coscia, quindi Esra potè constatare che era davvero quasi tutta tatuata — disegni da ruvido vichingo sanguinario, per lo più, con quel massiccio teschio di montone coperto di rune sul petto. 

« Sei una di quelle che si vestono di nero per un cuore sanguinante o perché ti fa più magra? » le disse Esra.

« Ovviamente cuore sanguinante, » rispose Sonja con uno di quei suoi sorrisi. 

Distrattamente, si voltarono tutte e due a vedere la conclusione della cerimonia di battesimo. Noctua pronunciò qualche frase rituale, fra il mistico e il suo solito modo di esprimersi come una ragazza molto più giovane, e Esra ci rimase un po’ stupita: aveva appena definito il battezzato sangue del sangue dei genitori. 

« Beh, com’è possibile? » chiese. 

« Cosa? »

« I genitori sono due Pellegrini. Uomini ».

« Solo per gli umani valgono le ovaie e le palle, nonché i pancioni e l’epidurale. Mai sentito di com’è nato il dio Heimdall? Per non parlare di Gesù ».

« E come funziona allora? »

Era così bella Sonja, con le braccia incrociate e i capelli tutti sciolti. Esra non riusciva a capire come si sentiva nel guardarla, perché tutto nella sua mente era acido, torbido e fondamentalmente sgradevole. Eppure pensava a lei volentieri.  

« Allora, il figlio sarà concepito da due o più genitori, ma tutti i conti si fanno col corpo di chi effettivamente lo partorisce. Ogni cinquecento giorni dal giorno in cui hai ricevuto la prima Regalia, sei fertile… e parecchio, » spiegò Sonja. « Se il figlio viene generato in te, partorisci con indicibile dolore dopo un’ora, un mese, un anno, due, non si sa mai quando. Qualche volta è un lattante, qualche volta un adulto fatto e finito che ti esce, che ne so, dalla testa… a volte partorisci se ti sfiora la schiuma di un onda, o magari il figlio fa come Adone, e nasce dopo che la madre è diventata un albero ». 

« Quindi il concepimento è solo, tipo… mistico? »

Esra pensava di aver avuto una fortuna sfacciata per dieci anni, non avendo ricevuto ancora la Regalia… altrimenti, avrebbe dovuto partire i figli del Padre. Il pensiero le faceva venire da vomitare. Ma evidentemente il Padre non sapeva niente di come funzionava la fertilità dei Pellegrini. Era stato un colpo di fortuna sfacciato… e la cosa la faceva star male.

« Ci deve comunque essere l’orgasmo del futuro partoriente ». 

« Quindi uno ti masturba il giorno che sei fertile e diventa il padre dei tuoi figli? »

« È più o meno così, sì. Sempre che quel qualcuno rientri nella ristretta cerchia di persone che sanno come far venire qualcun altro. Mi sa che ti conviene iniziare a contare i giorni fertili, non si sa mai ».

« Ma se non avevo nemmeno la concezione del tempo quando ho ottenuto la prima Regalia ». 

« Allora pratica il rito dell’Alba e del Tramonto, che può insegnarti qualsiasi strega di campagna, e ti ci farà risalire ».

« E quando sarebbe il tuo? »

« Non è difficile da indovinare. È il giorno in cui non scopo. Non ce ne sono molti ».

Ridacchiarono. Esra notò che Sonja portava un gioiello di platino intorno al canino. 

« Ovvio che non vuoi bambini. Devi avere l’istinto materno di un sasso, » le disse. 

« In realtà, apprezzo i bambini, » rispose Sonja tranquillamente. 

« E non mi dire che ne vorresti uno ».

« Anche due ».

« Non ti credo ».

« Scusa, perché no? Dovrei vivere un bel po’ a lungo, non c’è motivo di pensare che non figlierò mai. È come dire che in un’eternità non ti fumerai mai una sigaretta ». 

« E perché in tutto questo tempo l’hai fatto? »

« Non va mica bene chiunque ».

« Beh, io comunque mi sto facendo venire il diabete a stare qui, » sbuffò infine Esra, voltandosi ed appoggiandosi con negligenza alla balaustra. 

« Eppure eccoti qua. Vediamo se indovino. Pessime figure genitoriali nella tua vita, e conseguenti disillusione verso l’atto della procreazione e disgusto per l’infanzia che non hai avuto, » rispose Sonja con la sua solita indifferenza.

« Perché dici sempre vediamo se indovino? Tu leggi la mente, » protestò Esra, imbronciandosi. 

« No, affatto. Una cosa che pensano tutti, ma non è vera. Bluffo, e siccome siamo tutti uguali nei tratti inconsci, in genere indovino. Non è affatto difficile ».

« Non è vero, » obiettò Esra. « L’altro giorno hai letto il pensiero della guardia al cancello. Si capiva benissimo ». 

« Non lo stavo leggendo, sapevo cosa pensava perché gliel’avevo detto io di pensarlo. Lo stavo ipnotizzando. Ma non ti preoccupare… funziona solo sulle menti da poco ».

« Ma l’hai fatto litigare con tutta la città ».

« È divertente ». 

Risero entrambe. Sonja rideva con quel suo timbro di voce basso che a Esra faceva vibrare qualcosa molto in profondità. 

Esra aveva avuto modo di capire che a Sonja mancava soltanto una Regalia — quella più famosa, nota anche ai non addetti, cioè una visita al Guercio. Lo sapevano tutti cosa si doveva fare per raggiungerlo, era un posto piuttosto famoso. Dunque perché non andarci? Non voleva avere l’Occhio, la magia divina, l’onniscienza, gli Einherjar?

Che si tenesse pure i suoi segreti. Ma Esra era decisa a scucirglieli uno ad uno. « Andiamo nella terra dei cannibali a massacrarne qualcuno. Cavalca con me, » le disse. 

« Ti prego, sono quattro buzzurri in croce. Sono in ginocchio ormai, sarebbe come rincorrere galline ».

« Già, bla bla, perché tu li hai sottomessi imprigionando il Pellegrino di Fenrir, » disse Esra annoiata. « Perché non ucciderlo? »

« Perché lo volevo sapere vivo e sofferente imprigionato in quel vulcano. È una cosa che mi fa dormire bene ».

« E allora andiamo a umiliarli ancora un po’ e dopo facciamoci una bella dormita in un letto matrimoniale ».

« Allettante. Perché dovrei fidarmi di te, però? »

« Per cominciare perché io andrò, e tu è meglio se mi tieni d’occhio, giusto? E poi… io penso che tu somigli più a me che a Noctua. Penso che le tue vendette siano memorabili quanto le mie. La tua esperienza militare è varie volte la mia. Penso che tu rimpianga non solo la tua ricerca delle Regalie, ma anche i tuoi anni d’oro sul campo di battaglia ». 

« Difendo Eilawa. Combatto un bel po’, in realtà ». 

« Per difendere? » sbottò Esra, sdegnata. « Il terrore, lo sgomento e il senso di impotente ingiustizia che scatenavi negli altri quando marciavi sulle loro terre per invadere… secondo me ti manca. Ti manca essere una rovina ineluttabile, che tutti temevano di vedere apparire un giorno all’orizzonte. Vieni a uccidere con me ».

« Vediamo se indovino… Ci stai provando? »

« Beh, andiamo. Ora mi hai fatto venire la voglia. Ma, per tornare al discorso di prima… » 

Esra si era già staccata dalla balaustra e si era incamminata, ma Sonja aveva compiuto un movimento davvero rapido e naturale: Gungnir era apparsa nella sua mano, ed era ben stesa come un prolungamento del braccio, puntata direttamente al viso di Esra. 

« Se muore un solo bambino, ti strappo gli occhi e ti piscio nelle orbite ». 

 

 

Gli arpeggi scivolavano dolci come gocce d’acqua sulle foglie. Come il lamento sottovoce di una banshee sembravano a lutto, o di cattivo auspicio,  in un tono gravoso e un timbro lugubre, e intanto nel fetore di sangue suonavano dolci.

« Di cosa parla questa canzone? » chiese Esra con voce affannosa e dolorante. 

Sonja suonava la chitarra senza cantare, col cappello che le nascondeva tutto il viso chinato, seduta su un muretto con intorno tutta la morte che avevano seminato presso quella città di cannibali nel profondo di una gola rocciosa. 

« Le canzoni parlano di quello che ci metti tu, » le rispose. 

« Allora tu cosa ci metti nel suonarla? » si spazientì Esra. 

Aveva un male in faccia talmente martellante che le sembrava che le dovesse esplodere il cervello. Il dolore, fulminante e rovente, arrivava in profondità fino alla nuca e al collo, e la faceva impazzire.

« Dolore. Perché non amo la gente, e devo elaborare un lutto ogni volta che ci ho a che fare ». 

« Io sono gente? »

« Tutti sono gente ».

« Perciò anche tu ».

« È quello il punto ».

Esra giaceva a terra, a poca distanza da qualche cadavere di cannibale. 

Quando quei mostri le avevano viste arrivare si erano rallegrati che giungesse così facilmente e in modo del tutto spontaneo l’occasione di un banchetto rituale, completo di vendetta nei confronti della Pellegrina di Odino — invece le due donne ne avevano uccisi a centinaia, e il tutto non aveva richiesto che mezz’ora di adrenalina e cortisolo sparati a pressione nel cervello. 

Esra aveva due voragini slabbrate e ricolme di sangue al posto degli occhi, così anche tutto il viso e gran parte del petto erano lordi. Dentro i buchi, già si scorgeva il bulbo oculare che piano piano ricresceva, come una larva biancastra e palpitante. 

« Fa male, » disse. 

« Io te l’avevo detto, » rispose Sonja indifferente. 

Continuava a suonare, e Esra restava sdraiata come la strana e macabra versione di un villeggiante in spiaggia.

Sonja non offriva alcuna simpatia. Stava aspettando. Probabilmente era un test. 

« … Mi dispiace. È stato un incidente, » disse Esra alla fine. Le dispiaceva sul serio, l’uccisione del ragazzino le aveva dato sensazioni molto sgradevoli, ma non sapeva se Sonja le avrebbe mai creduto. « Però la seconda parte della minaccia te la potevi risparmiare. Che schifo ». 

Esra avrebbe voluto vederci. Sonja doveva essere bellissima tutta nera, dal cappello alla chitarra, schizzata di sangue, seduta in mezzo alla devastazione e ai corpi sgangherati da tutte le parti. Forse era il modo in cui Esra preferiva immaginarla. 

« Perché hai cremato quel ragazzino con tutti gli onori? Era comunque uno di loro. Gente che ci odia, che ci vuole mangiare vive. Sarebbe solo cresciuto per diventare uguale ». 

« I bambini possono diventare tante cose, non è giusto prenderli per copie dei loro genitori ». 

« Beh, tu gli hai ucciso i genitori, non mi sembra tanto migliore come cosa ». 

« In qualsiasi caso non è stato giusto che sia morto per gli errori dei suoi ». 

« Da grande sarebbe venuto a cercarti ».

« E allora sarebbe morto nell’esercizio della vendetta. È una questione d’onore che tu fingi di non capire ». 

Esra fece una smorfia quando il dolore della ricrescita degli occhi arrivò al picco e sembrò trapanarle la base della nuca, ma non gemette. 

« Onore? »

« Una parte integrante del combattimento, a meno che per combattimento tu non intenda uno sfogo emotivo ».

« Tu eri una razziatrice! » protestò Esra. 

« Non significa tenere un comportamento casuale, come fai tu. Ai miei uomini ho sempre fatto pagare ogni stupro e ogni uccisione indecorosa. Tipo come te adesso ».

« Te lo ripeto, è stato un incidente, » disse Esra con la voce contorta dal dolore. « È corso sotto Tempesta, che cazzo ci potevo fare? »

Eppure doveva ammettere che la scena la rivedeva, nella testa. Il ragazzino che correva tra le zampe della pantera e moriva quasi sul colpo, rotolando e rimbalzando, somigliando a una bambola disarticolata che faceva un brutto rumore sull'acciottolato. 

« … senti, voglio bere la rugiada. Non posso andare avanti così ». 

« Bene ».

Non che Sonja le stesse dando molta soddisfazione. Ma aveva avuto parecchie occasioni di ucciderla, e non l’aveva fatto. Allora forse il test era superato: al pensiero Esra si sentì offesa e ancora più attratta da lei.

Invece di fare qualsiasi cosa, Sonja suonava, il che tutto sommato si poteva interpretare come un comportamento piuttosto intimo.  

« Pensi che smetterò di essere chi sono? » disse Esra piano.

« No, è ora che non sei chi sei. I miei corvi mi hanno dato notizia del fulmine che ti ha fatta diventare pazza. Sei stupida se credi di essere te stessa adesso, » rispose Sonja. « Bevendo la rugiada, deciderai tu se rimanere così o vivere diversamente. È un diritto che uno dovrebbe avere indipendentemente da cosa ha combinato ». Strimpellando interruppe l’armonia, e Esra, anche se ci vedeva ancora troppo ovattato e rossastro, sentì che si stava alzando in piedi. « Dai, fatti ricrescere gli occhi e andiamocene da questo posto di merda ».

« Vuoi ancora tornare indietro con me? Non mi odi? » si stupì. 

« Perché? »

Esra non seppe cosa rispondere. La domanda l’aveva spiazzata, in quello strano stato di stupefazione in cui versava. La stessa persona che l’aveva gravemente ferita non manifestava più alcuna ostilità nei suoi confronti; un po’ come se avesse mantenuto la sua promessa di vendetta e ora non avesse più motivo di avercela con lei. 

« Del resto non si possono fare colpe agli infermi di mente. In fondo sei una poverina, e non lo fai mica apposta, » aggiunse Sonja. 

« Sei… orribile, lo sai? »

« È il mio love language. Se vuoi qualcuno che ti dica che sei perfetta così come sei, ti conviene rivolgerti a Noctua ». 

Esra si toccò il viso con cautela. Gli occhi sembravano ricresciuti e le palpebre ricomposte. Ma ancora ci vedeva a chiazze. 

Si alzò in piedi barcollando. Sentì che Tempesta si avvicinava per sostenerla, senza fare commenti… come in tutto l’ultimo mese. Era diventata muta talmente di colpo che Esra aveva pensato più volte di averla sentita parlare in passato solo per effetto delle droghe… e del resto, forse era così. 

« Tu hai dominio di te, » disse a Sonja. « E mi sembra un modo infernale per vivere, senza contare che il dominio di sé non è mai sincero, ma costruito artificialmente. Comunque ammiro la tua volontà, ma penso che tu sia troppo poca. Odino sarà anche saggio, ma è anche alla testa della Caccia Selvaggia. Due aspetti che hai anche tu. Sei sprecata. Dovresti essere Incarnata e avere dei fedeli ». 

« Adesso stai flirtando come si deve, » disse Sonja. 

« Sono ancora in gara? »

« Perché no? »

« Adesso? »

« Fra i cadaveri? Niente in contrario. Il lato positivo è che tutti i letti sono liberi ora, » rispose Sonja con semplicità. Era così fredda, così diversa da com’era quando combatteva. Le persone non le piacevano proprio. « Mi è parso di capire che mi consideri degna di adorazione, quindi… fammi vedere un esempio. Ingoia l’orgoglio ».

« Perché dovrei? »

« Perché fa sesso. Che altro? »

 

*

 

Noctua sollevò la coppa di terracotta, molto antica, che aveva la forma di una tartaruga scolpita piuttosto rozzamente. 

L’aura della Pellegrina di Atena bruciava altissima ma non dava fuoco a niente — al contrario, sembrava trasmettere all’anima, in un punto molto in profondità, forse quasi fino all’infanzia, proprio il calore giusto per suscitare conforto. 

Esra l’aveva sempre presa per una sprovveduta, ma c’era il “rischio” realistico che lì dentro fosse lei la più potente. Non aveva mai sentito un’aura tanto illimitata, senza confini eppure così profondamente accogliente. 

« Esra, » disse Noctua. « È l’ultimo momento per decidere. Vuoi bere o non vuoi? »

Per quale motivo sentiva di star per piangere? La gola oppressa, il petto bloccato, gli occhi che bruciavano. Era forse quell’aura? 

Eppure a cosa stava dicendo addio? A qualcosa che le sarebbe mancato? Certo che no… ma cosa sarebbe rimasto di lei, una volta rimossa quella parte?

Forse era vero però che la rugiada non l’avrebbe salvata dalla bile nera, quella che Esra teneva nascosta ad ogni anima viva. 

Forse Esra si poteva pensare di correggerla in mille modi, come le era accaduto per vent’anni, ma non c’era niente che la potesse salvare. Era davvero una causa persa, magari. Una solitaria cronica, una destinata a rovinare sempre tutto con la bile nera che le scorreva nelle vene. Noctua stessa l’avrebbe detestata se lo avesse saputo. E Esra sapeva che avrebbe dovuto dirglielo, ma non intendeva farlo. 

Con gli occhi appannati, Esra guardò avanti. Noctua, con Medusa abbarbicata sui ricci in cima alla testa, reggeva la coppa, Sonja era accanto a lei a fumare la pipa, in piedi a gambe incrociate contro un ramo. Che motivo aveva quella vista di farle venir voglia di commuoversi?

Noctua le sorrideva, Sonja sembrava ammiccarle, anche se sempre con freddezza — il suo atteggiamento dopo il sesso era diventato assolutamente glaciale.

Aveva sentito qualcosa?

 

Esra si fece avanti sentendosi le caviglie come due sottilette flaccide. Infine, scoppiò a piangere. 

« Mi sento sola… » singhiozzò. « Da quarant’anni ».

Il sorriso di Noctua divenne più gentile, ma ebbe la forma di rispetto di non avvicinarsi per confortarla. 

« La rugiada non può correggere questo aspetto, ma forse può rimuoverne una delle cause, » disse. « Non diventerai un’altra. Ma cambierai in qualche modo, ed è bene che questo si chiaro. Sapendo questo… lo vuoi fare? »

Esra le prese la coppa dalle mani e la tracannò. Nel frattempo si era messa a piangere ancora più forte, e per poco non si sbrodolò tutta la rugiada addosso. 

« Ho giurato che nessuno mi avrebbe più limitata, » singhiozzò. « Ma sbagliavo… io vorrei… provare a vedere se riesco a controllarmi per… per qualcosa che valga la pena. Per star bene… come si deve ».

Fu Esra ad andare da Noctua per prima, e a cadere come un sacco di patate nel suo abbraccio. Poi sentì la mano di Sonja sulla spalla, che stringeva in maniera incoraggiante. Intanto continuava a piangere, e le sembrava che le fosse scivolato giù dalle spalle un macigno. 

Chapter 4: Bad moon rising

Notes:

Quando le cose cominciano ad andare a cosiddette.
Il prossimo è il capitolo di Camus! (inizio con lui perché sono un Aquario ehehe)

Chapter Text

In un primo momento, una timida delegazione cittadina convinse Noctua a chiedere spiegazioni a Sonja: in città le coppie scoppiavano, i fratelli litigavano, c’era una rissa in ogni locanda, le botteghe non aprivano, serpeggiava l’invidia. Pensarono quindi tutti che si trattasse di uno degli scherzi della Pellegrina di Odino, che qualche volta si divertiva a ipnotizzare la gente: era ancora impresso nella memoria di tutti il giorno in cui, essendo molto dispettosa quando era in forma di donna anziana, aveva fatto in modo che mezza città dicesse solo la verità in ogni discorso, ed era stato un disastro. Ma in questo caso Sonja disse che non era opera sua e che non ipnotizzava nessuno da un pezzo, e che forse gli abitanti di Eilawa si erano solo stufati di essere buoni e stucchevoli. 

Ma poi furono i pesci nei laghetti ornamentali, i quali vennero tutti insieme a galla, morti; e quando furono aperti per comprenderne il motivo, rivelarono di avere tutte le interiora completamente nere, malgrado il colore esterno fosse invariato.

Poi toccò alle iridi degli occhi di tante persone, che si fecero scure; e a uno strano liquido gelatinoso che ogni tanto usciva, in poche gocce, dalla bocca di alcuni individui e macchiava loro i denti permanentemente — cantanti e poeti, orfani e malati cronici, ragazzi che avevano appena diciott’anni ed erano sempre stati gioiosi e pieni di prospettive; e ancora donne che avevano appena partorito, veterani di guerra, medici, infermieri, missionari. 

La situazione peggiorò nel corso dei mesi. Non passò inosservato l’aumentato tasso di violenza, di alcolismo antisociale, di scommesse illegali sui Levogiri da combattimento e di suicidi. Sonja non poteva davvero essere: non faceva certo queste cose, e per giunta odiava gli ubriachi fuori controllo, che considerava deprimenti, e se vedeva un combattimento fra animali fulminava sul posto tutti gli astanti. 

Una sera, Noctua ebbe un malore e svenne; tutti pensarono che si sarebbe ripresa in un attimo dato che era una Pellegrina, ma accusava sintomi estremamente persistenti malgrado la rigenerazione. Un mal di testa così forte da farla rabbrividire, sudare, raggelare e vomitare. Trattata dai migliori medici, che però non avevano mai dovuto curare un Pellegrino in vita loro, stette male senza rinvenire per tre giorni e, dopo questi, la ripresa fu comunque lenta. 

Anche se era rinvenuta e il mal di testa era diminuito, non mangiava, e si provò a tentarla: panini di pastella con l’arrosto in salsa gravy; jambalaya rossa; lasagne; tagliate di picanha e patate al cartoccio col lardo; cotolette impanate e fritte nel burro; tinozze di ramen di brodo di osso di maiale con tre uova e burro; la miglior moussaka che potessero preparare accompagnata da un enorme tagliere di pita con tzatziki, salsa di aglio e i formaggi più grassi possibile con generoso miele — in altre parole, i suoi piatti preferiti. Ma dopo una settimana ancora non aveva mangiato altro che un misero consommé. 

Sonja ed Esra partirono dunque a cavallo rispettivamente di Sleipnir e di Tempesta per viaggiare fino alla seconda più grande città del Nord in cerca di un dottore che in quel periodo si stava specializzando in tutti quegli inspiegabili episodi; ma mentre cavalcavano a rotta di collo, si accorsero che nel cielo galattico verso ovest era apparso qualcosa di strano. 

« Che diavolo è? » chiese Sonja.

Esra rispose che non lo sapeva, e si tenne qualsiasi considerazione per sé; sapeva che era un ciuffo dei capelli spennacchiati di Saturno: il suo volto  sbiancato come una luna di gesso stava sorgendo. L’infezione di Stella Natalis era cominciata

 

*

 

Noctua alzò gli occhi dal proprio lavoro quando un chiocciare di Medusa, intenta a spolpare un topo, le comunicò che qualcuno si stava avvicinando al salone. 

Esra, di ritorno il giorno stesso da un’altra campagna contro i Saturnali che avevano preso a circolare per il Nord, si presentò poco dopo alla porta, offrendo una smorfia spiritosa all’Affamato mezzo mutilato che giaceva morto su un’enorme tavola di legno che faceva da tavolino per l’autopsia. 

Non era la prima volta: da un po’ di tempo, campagna dopo campagna, tutte condotte dalle tre Pellegrine, Noctua si era interessata a sezionare quei cosi. 

« Non ti avvicinare troppo, » disse subito Noctua. « La bile nera poi non si leva più ».

« Allora lo sai cosa succede se tocchi quella roba, » disse Esra con una bizzarra contrazione della mandibola che durò solo un attimo.

« Sì, sì, lo so. So che bisogna evitare il corpo a corpo e che tu e Sonja andate a uccidere gli Affamati sempre vestite troppo poco, » spiegò Noctua. « Ma io c’ho il trick! »

Noctua sollevò le mani tutte sporche di bile nera fino a sopra il gomito, e sotto lo sguardo di Esra concentrò il suo cosmo con una buffa espressione spavalda: la bile nera colò via senza colpo ferire, a causa di una specie di pellicola d’oro liquido che ricopriva tutto il corpo della Pellegrina. 

« Oh, può essere che abbiamo un rimedio? » fece Esra, affettuosamente sarcastica.

« Ma magari! Purtroppo la magia non dura tantissimo e non riesco a praticarla sugli altri. Però oh, magari posso imparare ». 

« Tu che stai qui a far finta che non sia niente di che… ti rendi conto che è un tipo di magia straordinario? » fece Esra. « Che potresti raggiungere l’Amrita continuando a studiare? »

« Dai… » si schernì Noctua. « Ne abbiamo parlato. L’Amrita magari neanche esiste ».

Noctua si era rimessa al lavoro. Aveva condotto l’ultima battaglia più grossa di quei due mesi, e anche se diceva di no era stanca; era morta parecchia gente, e tanti amici di sempre si erano trasformati in Affamati. Il fatto che l’ulivo sacro si stesse infettando e che il volto di Saturno stesse sorgendo sempre più alto, palmo dopo palmo, la faceva soffrire parecchio. Per questo tagliuzzava gli Affamati. Faceva finta che non fosse niente, ma invece ci credeva di poterli curare. Aveva perso tante persone a cui aveva voluto bene. 

Lo stesso era capitato a Sonja. Non si era mai particolarmente affezionata a nessuno di Eilawa al punto da piangerlo, ma il fatto che alcuni dei suoi guerrieri più fidati, che erano con lei dagli inizi, fosse incorso in quella fine orribile obbligandola a ucciderlo l’aveva ferita profondamente. 

Tutte e tre avevano seppellito in tre mesi decine e decine di persone. 

« Io ho letto tutto sull’argomento ed esiste, » insistette Esra. « Un maestro dell’Amrita capisce il tempo, e può negare che qualsiasi cosa sia mai accaduta, guarendo in questo modo qualunque malattia ». 

« Ssssì ma… » disse Noctua. Aveva davvero paura a crederci troppo, era evidente. « È una leggenda. O meglio, un sistema filosofico fondato sull’assunto che l’oniroverso funzioni col karma accumulato dai defunti. Non è detto che si possa fare nel concreto. A te comunque è da tempo che interessa molto, vero? »

Esra si chiuse. « Beh, è magia suprema. Perché non dovrebbe interessare? »

« La magia suprema è come la conoscenza suprema, a pochi interessa davvero, » spiegò Noct.

« I modesti sono la piaga della nostra razza, » disse Esra, scherzando, ma in maniera piuttosto categorica.

« Sto solo coi piedi per terra. Ma penso che tu sia molto dolce a desiderare una cura per qualsiasi male. Tu e Nina siete sempre state per la distruzione del nemico, ma tu sei influenzata da Dioniso che è la vita stessa, e in fondo vorresti vederlo salvato. Spero che sia così anche per lei prima o poi ».  

« Ma piantala. Non desiderare le cose più rare è solo sintomo di poca ambizione, e la cosa mi disgusta, » replicò Esra orgogliosa. 

Noctua, continuando a tagliuzzare l’Affamato per cercare di carpire i suoi segreti, sorrise di quell’atteggiamento. Era, in fondo, un’imitazione del modo di parlare di Sonja. 

Esra era assediata giorno e notte dalla sovrabbondanza straripante del dio che cercava di reincarnarsi in lei; eppure Noctua la conosceva come un animo tenero, ma probabilmente stava tenendo un segreto che la faceva soffrire — e forse per questo cercava di emulare Sonja nel comportamento, anche se Sonja stessa fingeva solamente quando si comportava in quel modo. Noctua si rendeva conto a volte, con senso di colpa, che Sonja era la roccia a cui si appoggiavano tutti, loro due incluse, eppure sarebbe stata uno spirito libero se non si fosse sentita obbligata a sorreggere tutti quanti. 

Dal canto suo Esra assisteva all’autopsia con sentimenti che si rifiutava di esprimere. Non aveva detto a nessuno, neppure alle sue migliori amiche, quello che le era successo nel Labirinto — e quello che continuava a succederle ogni giorno che Saturno sorgeva di un altro millimetro nel cielo, la sua voce che sentiva nella testa, gli istinti che le sfuggivano di mano. 

Pensava, vedendo sezionare l’Affamato morto, di essere lei quel mostro — il che del resto, probabilmente, era il suo futuro. Sentiva di essere lei sul tavolino, neanche più una persona di nome Esra, ma una pustola maligna da incidere per trovare una cura. Qualcosa che doveva morire per il benessere degli altri. Il solo pensiero che Sonja o Noctua potessero guardarla con commiserazione o magari con disgusto, e vedere in lei un destino segnato e fare probabilmente quelle due facce desolate, la faceva impazzire. Esra era convinta di potercela fare, non aveva neanche una parte del corpo nera, la sua rigenerazione funzionava benissimo. Sicuramente non ci sarebbe mai stato bisogno di toccare l’argomento. 

Altrimenti… avrebbe dovuto allontanarsi. Avrebbero cominciato a parlare in privato su cosa si doveva fare con lei. Noctua avrebbe provato compassione, il che sarebbe stato insopportabile. Sonja… Sonja cos’avrebbe pensato? Alla fine si sarebbe decisa a dirle addio e l’avrebbe esclusa dalla sua vita?

Un giorno sarebbe stata su quel tavolino.

Un giorno sarebbe stata un mostro. 

« Tutto bene? Sei diventata pensierosa, » disse Noctua dopo un po’, strappando Esra a quella terribile e bizzarra comunione con l’Affamato. 

« Sì, sì, » disse lei. « Tu? »

« In che senso? » si stupì Noctua.

« Sei felice con quel tizio? »

« Uh… domanda piuttosto brusca ».

« Come fai a parlare con lui? Sei ancora in alto mare col comunicare con gli uomini ». 

« Beh non è che… non parliamo molto. Insomma è una cosa così per provare ma proprio… non so, non sono convinta più di tanto. Tu perché me lo chiedi con quella faccia? » rispose Noctua allegramente. 

Quant’era strano quel continuare a fingere che fosse ancora tutto normale mentre il Nord era impestato di bile nera.

« Perché ti sei messa con un bastardo. Uno col feticcio per le Pellegrine e che pensa segretamente di poterti convincere a scopare ».

Noctua rise dolcemente. « Come sempre sei senza filtri. Comunque non ti preoccupare, la verginità me la tengo e anzi, un giorno varrà miliardi ».

« Puoi garantire che in un’eternità di vita non proverai mai? » la sfidò Esra sorridendo.

« Beh, no, certo, non posso garantirlo, ma… boh sai com’è, sono etero, e ogni giorno che dico no al cazzo questo diventa sempre più spaventoso. Coi denti, le spine, e poi tutto quel… tutta quella roba, i peli. Poi i vostri racconti sono raccapriccianti. Cosa diavolo vuol dire che a volte è salato? »

« Te ne troveremo uno tirato a lucido e con le palle belle depilate ». 

Entrambe si misero a ridere con complicità. 

Dopo un po’, Noctua gettò la spugna con l’autopsia e si allontanò brevemente per cambiarsi nella stanzetta accanto, ritornando poi da Esra vestita comoda e di bianco come al solito.

« Ez, ci sarebbe una cosa di cui vorrei parlarti anche io ».

« Dimmi ». 

« Beh, ecco… il fatto è che mi pare di vedere che, uh, tu e Sonja siate molto… come posso dire ».

« Vicine? »

« Ecco, sì. Ma in una maniera strana però. A volte siete pappa e ciccia, il più delle volte in realtà, ma altre volte… Nina sembra un bel po’ scostante ». 

Noctua vide l’espressione di Esra indurirsi molto, fra il difensivo e l’aggressivo. Sapeva che non sarebbe stato un discorso facile, ma dopo anni in quelle condizioni le pareva evidente che non l’avrebbero risolta da sole, e che forse avevano bisogno di una mano. 

« Non riesco a decidere se sei gelosa o cosa ».

Noctua arrossì leggermente. « Ma che dici! Siete due sorelle per me ». 

« Sì ma tu eri l’unica sorella prima che arrivassi io, vero? » la provocò Esra, con un sorriso pestifero. « Adesso ci hai viste sempre uscire a cavallo a divertirci prima di questa guerra, Sonja non ti ascolta più granché quando cerchi di moderarla, ed è evidente che è più vicina a sé stessa quando è con me, invece che con te ». 

« Ez, non essere assurda, » disse Noctua seriamente. « Siamo un trio, non un podio. Non c’è competizione tra noi. E nemmeno ci dovrebbero essere gelosie. Semmai… beh, volevo dirti che qualche volta, quando io e lei parliamo, sei tu che mostri gelosia, quasi che ce l’avessi con me perché le rivolgo la parola, e ci rimango male. Che vuoi che faccia per farti danno? Non mi interessano le donne in quel senso, lo sai ».

« Sì, ok. Mi dispiace, va bene? »

Noctua rimase del tutto interdetta. Si sarebbe aspettata giri di parole sarcastici fino alla fine della conversazione, non una resa concessa così di buon grado. Qual era l’argomento di cui Esra moriva dalla voglia di parlare?

« A volte mi viene da dire roba. Roba che nemmeno penso. Anzi in realtà ho paura che se la dico per istinto, significa che è quello che penso, e mi vergogno di pensare. Non vorrei essere così. Io… non lo so, perdo il controllo, o tipo… mi dissocio un pochino, non so ».

Noctua era stata a sentirla con le sopracciglia aggrottate e senza battere le palpebre. « Ma Ez… perché non me ne hai mai parlato? È orribile… tu stai male! Perché voi due non mi dite mai niente? Io vi prenderei a pugni entrambe, ve lo giuro! Certo, se solo tutte e due non poteste spaccarmi il cranio con un dito… ma ugualmente, il vostro comportamento non va bene! »

« Calmati, Noct ».

Noctua cacciò un sospiro nervoso e teso. 

Sospettava? Perché diavolo Esra aveva quasi vuotato il sacco con lei, quasi rivelato il suo segreto?

Fortunatamente, Noctua sembrava aver completamente equivocato quella confessione. 

« Ez, avere qualche pensiero che non ti torna non è una cosa di cui vergognarsi! Qualsiasi cosa che non sia colpa tua non è motivo di vergogna, io— »

« Lo faresti questo discorso se io— » Esra prese fiato: le si era rotta la voce, e non voleva che Noctua lo sapesse. « Se io rovinassi la vita a qualcuno, a te o a Nina, mi diresti le stesse cose? »

« Ez, ma certo, ma che dici? » Sbottò Noctua. « C’è sempre una maniera di recuperare. Ok, forse non si possono recuperare le cose perse, ma le persone sì, perché non sono mai perse. Guarda questo Affamato. L’hai detto tu, se esiste l’Amrita… si possono salvare. Quando uno sta male… ha bisogno di stare bene, così tanto a volte da fare disastri con le persone, come fanno loro, che nel buio desiderano la luce e, se la trovano, finiscono per distruggerla… ma tutte queste non sono cose fatte apposta, qualcuno che soffra per quello che è costretto a fare o pensare non sarà mai un nemico. Tu hai paura di farci del male, non ti considererò mai una persona cattiva, » esclamò con passione. « Se nella tua mente c’è del dolore, non ti devi vergognare. A volte si può sconfiggere, a volte ci si può coesistere… circondati magari da persone che conoscono i nostri guai e ci vogliono bene come siamo. Io non ho sempre voluto bene a voi due anche se siete due cani da combattimento che non sono stati socializzati da cuccioli!? »

« Non ho un dolore mentale, probabilmente sono solo stanca per la presenza di Dioniso. Non sono malata di mente, ho bevuto la rugiada, » disse Esra, chiudendosi completamente a quel discorso. 

« Tu sei innamorata di Sonja, vero? »

Esra non rispose. Aveva gli occhi fissi sull’Affamato, e sentiva che le ginocchia le stavano diventano liquide. 

 « Gliene dovresti parlare ».

« Lei lo sa benissimo. Figurati se non lo sa ».

« Già… » ammise Noctua. Ecco un altro caso in cui avrebbe voluto prendere Sonja a schiaffi. « Però… senti, anche Sonja è fatta un po’ a modo suo certe volte… io sono sicura che non voglia ferirti, che sia quello il problema— »

« Cosa vorresti dire con questo? » sbottò Esra, aggressivamente. 

Noctua cercava un modo per dirlo che facesse meno male possibile, ma in realtà la situazione era peggio di quello che avesse mai creduto. 

« Voglio dire… se non ti ha ancora detto niente, insomma, devi considerare la possibilità che non ti ricambi come vorresti tu. Sai quanta gente in lacrime si è lasciata dietro? Lei fa così, facciamo sesso, divertiamoci, ma poi… non si interessa ad altre cose. Da tanti anni, sai? E lo dice sempre da subito, non è che ti seduce e ti abbandona. Se vogliamo chiamare qualcosa “rapporto”, può essere solo… non so, qualsiasi cosa sia la roba che aveva con Loki prima che litigassero. Ma l’hai visto quando veniva a cena da noi, no? Non erano una coppia, si volevano ammazzare a vicenda piuttosto palesemente. C’è una possibilità alta, purtroppo, che non le interessino le relazioni ».

« Tu parli così perché devi essere sempre quella saggia che sa come stanno le cose, vero? Ma non sai niente. Io percepisco chiaramente quello che lei prova per me ».

« E io non escludo che lo provi, ma— Ez, assumendo che Sonja sappia davvero cosa provi, sono anni che le cose stanno così e non ha ancora affrontato il discorso. È possibile che… »

« Se lei mi ama— »

« Va bene, ok, potrebbe essere così, ma lo stesso magari non vuole una relazione. Magari prova dei sentimenti ma non ha intenzione di assecondarli, è pur sempre un suo diritto. Magari… preferisce l’amicizia con te, e in una relazione cerca qualcosa di diverso. Non lo so, Ez, davvero, non lo so. Sto ipotizzando. Voglio dire, spero con tutto il cuore che funzioni, ma… prenditi anche il tempo per accettare che potrebbe non farlo. Nina non si sta comportando bene a fare le orecchie da mercante e ha vinto una bella predica appena torna… ma non per questo devi pensare “io posso cambiarla”, non è giusto neanche quello, e finirai solo per soffrirci ».

« Non sono una bambina, » rispose Esra freddamente. 

« Lo so. Ma gli adulti soffrono più intensamente dei bambini ».

 

*

 

La guerra contro Saturno si protrasse per mesi che divennero rapidamente cinque anni. 

Ogni mese sembrava che fosse sorta in cielo una nuova porzione del volto bianco di quell’orribile vecchio con le orecchie a punta. 

Si cercava di puntare sulla prevenzione, giacché la sua infiltrazione era graduale: apparivano Affamati, e apparivano i Saturnali che li governavano, e si era capito subito che i Saturnali erano immortali — così, si cercava di catturarli e rinchiuderli con una maledizione dove capitava, in un’anfora, in un portagioie, in una lampada magica, in una caverna. Ma in questo modo Saturno, di fatto, non se ne andava mai: restava sempre l’orrenda sensazione che bastasse un niente perché fossero di nuovo liberi, e che la malattia non fosse guarita, solo coperta da un cerotto. 

Quando passavano i Saturnali, molte delle 28 città del Nord, un tempo unite sotto l’alleanza che avevano creato Sonja e Esra decenni prima, capitolavano principalmente per paura. Il morale generale era a terra. Quando i Saturnali si insediavano in una città, finivano per convertire molta gente e iniziavano subito a sfruttare le risorse per preparare un’offensiva. Noctua faceva del suo meglio nelle contrattazioni; Esra preferiva le spedizioni punitive, e Sonja interventi quasi altrettanto drastici. Solo che, mentre Sonja restava ragionevole e aveva pietà dei civili per quanto fossero infestati di bile nera, Esra sembrava come scatenata: la faccenda di Saturno sembrava infiammarla ben oltre la misura. 

Un giorno Esra si coprì di gloria al confine più meridionale dei territori del Nord — un confine oltre il quale si estendeva adesso una raccapricciante foresta nera e contorta, perché lì la bile nera aveva una presa maggiore. Proprio sulla linea che divideva una civiltà superstite dalla completa barbarie della sofferenza, Esra aveva sottomesso coi suoi uomini e soprattutto con le sue donne un esercito di malati di bile nera governati da una squadra di Saturnali; ma si diffuse presto la notizia che uno di questi Saturnali le avesse rivolto parole provocatorie, e che allora Esra avesse perso il lume della ragione e avesse sterminato tutto l’esercito che aveva già dichiarato la resa. Aveva affermato che per loro non c’era comunque più speranza ed era giusto che morissero subito, ma, sembrava, nel pronunciare queste parole e ordinare le esecuzioni le si era rotta la voce. 

A questa notizia inquietante pensava Noctua mentre guardava l’orizzonte da una delle torri di una città che aveva appena liberato, decretando l’arresto dei Saturnali e l’indulgenza per l’amministrazione che si era arresa a loro per paura. Ci stava pensando e ripensando, quando sentì una voce familiare che la salutava e la chiamava per nome; e nel voltarsi, con una certa sorpresa ma soprattutto con un immediato orribile presentimento, vide Loki, sempre con la sua testa mezza rasata di capelli rossi e la sua giacca di pelle. 

« A quanto pare qualcuno ha perso la testa proprio sul confine con la follia, » disse Loki, come se la cosa lo divertisse, mentre si arrotolava una sigaretta. 

« Perché ti fai vivo con me dopo tutto questo tempo? Pensavo che Sonja ti avesse detto di non farti più vedere, » rispose Noctua duramente. Era un uomo, certo, ma non era nemmeno completamente solo quello, e Noctua era sempre stata capace di parlare con lui senza balbettare; c’era qualcosa che emanava da lui che scioglieva la lingua, e questo era molto pericoloso. 

« Sonja cambierà idea, » sorrise Loki. « Ha solo la testa dura come quella di un ariete. Ma cambierà idea su tutto, su di me, sull’ultima Regalia… certo che un po’ mi dispiace che tu pensi che si comporti male con la piccola Esra ».

« Come diavolo— »

« Ti vorrei ricordare che Sonja ha imparato a bluffare da me. Ma non importa. Vedi, secondo me ti sfugge un punto importante… sai bene che Sonja le cose le Sente. Quindi ecco… la sua reticenza nei confronti di Esra, come se ne avesse paura a uno strano livello istintivo e fosse eternamente combattuta fra quella paura e il desiderio di negarla… non ti fa venire in mente niente? »

« Non c’è niente che non va in Esra, » sillabò Noctua, categorica. 

« Mh-m, » fece Loki, come annoiato. « Sonja è una pecora nera a cui il gregge non piace più e che si sente terribilmente stanca. Esra è un’ingenua impulsiva, costretta a subire molto più di quello che può sopportare. E poi ci sei tu… l’unica che crede ancora nelle favole, e che non saprebbe nemmeno camminare se non si appoggiasse alle altre due, le quali però sono praticamente zoppe. Volatili. Siete proprio un trio scalcinato ».

« Vattene, Loki ».

La Lancia di Nike era apparsa nella mano di Noctua.

« Ehi, ehi, non fare così, non voglio certo prenderle da Atena in persona, » la prese in giro Loki. « Ero solo venuto ad avvertirti. Sei comunque l’unica delle tre con cui si possa ragionare. Esra è malata, cara. Se non prendete provvedimenti sarà la fine ».

Con un ultimo sbuffo di sigaretta, Loki sparì.

 

*

 

« Non mi sento bene, » ammise Noctua massaggiandosi una tempia, come in preda a un forte mal di testa.

« Già, » sorrise ironicamente Esra. « Col tuo cosmo di luce in mezzo a questo macello di bile nera. Povera ».

« Ah, ah, » fece affettuosamente Noctua. 

Di quei tempi non si trovavano spesso tutte e tre insieme, perché conducevano il combattimento su tre fronti distinti. Ma era capitato un giorno così, perciò, dopo il consiglio, si erano messe tutte e tre nel loro piccolo salotto preferito, dove i divani e le poltrone erano morbidissimi, c’erano piante aromatiche nei bracieri, e tutta la stanza in legno e morbidi tessuti evocava una sensazione di protezione. 

Noctua era in piedi, incapace di rilassarsi; Esra era spaparanzata sul divano; Sonja era sulla sua poltrona preferita, imbracciando la chitarra e arpeggiando distrattamente, senza prendere parte alla conversazione. 

« E in tutto questo il responsabile dov’è veramente? » esclamò Noctua. « Perché i ricognitori non trovano niente, un punto da cui ha avuto origine tutto questo? Perché non si può parlare con lui? »

« Parlare con Saturno? » rise Esra. « Questa fissa di essere l’amica mamma del gruppo che è sempre equilibrata ti ha dato alla testa. Vorresti stare al cospetto di Saturno?  »

« Perché no, scusa? »

« Perché lo senti cosa canta sempre Sonja, vero? Questo discutibile onore è pensato per i Cavalieri di Sidonia e nessun altro, » fece Esra, sarcastica. Iniziò poi ad assumere un comico tono declamatorio. « Un giorno torneranno dall’esilio, e dopo dodici millenni a prendere legnate saranno in qualche modo ancora in vena di salvarci tutti, perché non può non essere così, perché tale è l’ordinamento del cosmo; e senza un vero e proprio motivo stavolta saranno più forti, e la bile nera sarà cancellata dalla faccia dell’universo ». 

Sonja aveva sempre cantato i Cavalieri di Sidonia, e tutti le avevano sempre prese per favole, anche se lei sembrava crederci: la guerra eterna contro Saturno, l’imperatore malato di bile nera, i mondi che morivano soffocati da una depressione dell’anima… nessuno sapeva di preciso dove Sonja prendesse questi concetti per le sue canzoni, ma aveva sempre viaggiato parecchio, e aveva sempre guardato il cielo come se questo le avesse parlato. Forse le aveva parlato davvero. Da ben prima che anche tutti gli altri se ne rendessero conto. 

« Quindi ora che Stella Natalis è contaminata tu cosa faresti? » disse Noctua ad Esra. 

« Io sconfiggerei Saturno. Ma se diamo retta ai racconti di Nina, non lo possiamo fare… ergo, questo è il momento migliore per andarsene ».

« È il momento peggiore per andarsene. Il più codardo ».

A quel punto Sonja smise di arpeggiare e iniziò un giro di accordi allegro, veloce e pieno di vita. Poco dopo vennero anche le parole.  

 

Vedo sorgere una luna maligna
Vedo arrivare un mare di guai
Vedo i fulmini e i terremoti
Vedo una gran brutta giornata

Ah, non andartene fuori di casa stanotte
Perché lei si prenderà la tua vita,
questa luna maligna che sale in cielo

Sento ululare un uragano
So che la fine arriverà presto
Sento un fiume che straripa
Sento la voce dell’ira e della rovina

 

« È la canzone apocalittica più rockabilly che abbia mai sentito, » osservò Esra. 

« Sì beh, facile profetare la fine del mondo ora con quel tizio infernale in cielo come un satellite a forma di enorme vecchio porco. Ma cosa pensi che dovremmo fare? » incalzò Noctua, nervosa per il mal di testa. 

« Non possiamo vincere né perdere, » rispose Sonja con semplicità. Continuava a strimpellare lo stesso motivo, anche se più piano per non impedire la conversazione. « Stella Natalis è la Terra Infinita, quindi anche la contaminazione sarà infinita e non giungerà mai a compimento; questo mondo è di conseguenza condannato a una stagione senza fine di dolore. Solo i Cavalieri possono farci qualcosa ».

Poi riprese con un’altra strofa: 

 

Spero che tu abbia sistemato i tuoi affari
Spero che tu sia ben preparato a morire
Vedo l’arrivo di una stagione di sventura
E sarà occhio per occhio

 

« Urgh, smettila! » si lamentò Noctua. Ma non poteva fare a meno di chiederselo… sventura, occhio per occhio… Sonja stava prendendo in giro, o stava profetizzando davvero? 

« Vi state ponendo problemi assurdi, e Sonja, stai scomodando potenze superiori per niente, » intervenne Esra. « Lo sapete qual è il vantaggio che ci manca per capovolgere la situazione, e cioè diventare tutte e tre immortali, e davvero semidee. Noctua scoprirà l’Amrita, io otterrò il potere del flusso vitale stesso, e Sonja sguinzaglierà un esercito infinito di Einherjar. E si potrebbero mettere insieme con lo stesso scopo anche altri Pellegrini. I Cavalieri di Sidonia erano quattro semidei. Che ne dite di duecento? Non pensate più alla gloria? »

« Hai dimenticato la parte in cui diventiamo imperatrici dell’oniroverso e tutto andrà magnificamente con l’intera popolazione cosmica che vive felice e contenta, temendoci ed amandoci fino alla fine dei suoi giorni, » ironizzò Sonja. 

« Certo, » le tenne testa Esra. « E tu riceverai l’illuminazione e diventerai un’inguaribile ottimista, al punto tale che diventerai un'attivista per i diritti dei mortali. Inoltre Noct non balbetterà più di fronte agli uomini e Sleipnir diventerà rosa ».

« È qualcosa per cui vale la pena lottare, » assentì saggiamente Noctua. 

« Siamo su una nave che sta affondando, » insistette Sonja. 

« E allora andiamocene insieme! »

A quell’esortazione Sonja non diede alcuna risposta. Noctua vedeva bene che Esra era frustrata — lo era anche lei, ma Esra non era brava a nasconderlo. 

« Io sono incazzata nera, » ammise Noctua. « Come può uno saltare su a caso e decidere: “voi miliardi di miliardi di persone, ho deciso che siete fottuti”. Senza una ragione. Così fa un tiranno. Non mi sta bene che sia il mio imperatore ». 

« Saturno può comportarsi solo in questo modo, » spiegò Sonja con calma. 

« Perché? »

« Perché ha la bile nera. Il processo completo e irreversibile: la Nigredo ». 

Per qualche secondo cadde un silenzio imbarazzato. Un silenzio pieno di tutte le vittime della bile nera che avevano visto — e un silenzio che per Esra sembrava avere una valenza particolare. O forse era solo un’impressione di Noctua, condizionata suo malgrado dalle parole di Loki?

« Perciò Saturno fa quello che la bile nera gli comanda. Non è detto che sia sempre stato un tiranno. Una volta esisteva la Via di Saturno, o no? Lui ora semplicemente non ha più nessuna volontà. Così è per tutti gli infetti, inclusi quelli di cui hai riempito interi ospedali, che saranno rasi al suolo nel momento in cui diventeranno tutti Affamati. La cosa, semplicemente, è ineluttabile ».

Noctua pensò che Esra sembrasse addirittura ferita da quelle parole; e notò che Sonja per un mezzo momento le aveva rivolto un’occhiata strana. Ma finì subito, e Esra si riprese. 

Ma perché Loki aveva parlato proprio in quel modo proprio a lei? Cosa doveva fare Noctua?

« Aridaje, » sbuffò Esra. « Non è ragionevole credere che in tutto l’oniroverso, composto di infiniti mondi onirici ognuno dei quali ha il suo proprio multiverso, non sia stata ancora trovata una cura ». 

« Non è nemmeno ragionevole credere che in tre possiamo girare tutto l’oniroverso, composto di infiniti mondi onirici ognuno dei quali ha il suo proprio multiverso, per trovarla anche noi ». 

« Ma non le dici niente? » protestò comicamente Esra rivolgendosi a Noctua con aria esasperata. 

« Ah no scusa, ci ho rinunciato, » fece Noctua alzando le mani. « Il suo primo anno qui le dissi una cosa innocentissima come “sono contenta che ti trovi bene” e me la contestò a livello logico e semantico a tal punto che mi venne da piangere e mi sono sentita in colpa per l’averlo chiesto per un mese. E lei nemmeno si accorse di nulla ».

« In effetti non mi ero accorta di nulla. Ti stavo solo rispondendo, » disse Sonja, serafica. « Mamma mia come sei sensibile ». 

Noctua si sfilò velocemente un sandalo e lo lanciò addosso a Sonja, che ridacchiò affettuosamente; poi lo raccolse e glielo passò gentilmente. 

« Credo che dobbiate andare, » disse. 

« Perché, scusa? » chiese Esra.

« Perché voglio stare per i cazzi miei ».

« E non puoi andartene tu? »

« Certo che no. Questa è la mia poltrona fortunata. Divento così instabile quando ne sono separata ». 

Risero tutte e tre, e poi Noctua ed Esra decisero di lasciare Sonja da sola; quando faceva così, aveva una canzone da scrivere — e non poteva nemmeno muoversi, pena la perdita dell’ispirazione. 

 

Ma mentre Esra e Noctua si dirigevano per il corridoio, Noctua si ricordò di aver dimenticato gli anelli in salotto, quando se li era tolti per lavarsi le mani. 

Così tornò indietro, sperando che Sonja non avesse già iniziato a scrivere. La porta però era rimasta socchiusa, e si udivano arpeggi confusi, come di chi prova e riprova.

Noctua non avrebbe dovuto origliare, ma qualcosa di quel principio di canzone la inchiodò proprio lì, dietro la porta. Le pareva di sentire, su tutte, una nota particolare, una nota che aveva sentito tante volte ma che da un pezzo non sentiva più, una nota che congiungeva lei stessa a qualche posto molto lontano… qualcosa di molto simile all’Eufonia. Non potè fare a meno di fermarsi ad ascoltare. 

E mentre udiva le parole che venivano provate e poi cestinate, finché piano piano non si componevano un paio di strofe, Noctua si rese conto che era proprio quella canzone… quella che Sonja aveva iniziato a scrivere dopo la visione di molti anni prima, la visione di quel cavaliere — canzone che non aveva mai finito, e della quale esistevano probabilmente una cinquantina di bozze. 

Sonja smise di suonare, respirò profondamente un paio di volte, e poi si decise a mettere in musica le conclusioni raggiunte fino a quel momento. 

 

Mi consuma il desiderio di sentire
il mio cuore aprirsi in una tempesta di fuoco
Finché non rimane altro che la brace da cui sono venuta

Come anime divise per un’intera epoca
Io forse potrei abbracciare lo stupore e la meraviglia
E anche il mondo rifatto da capo

Ma ora questa mia foto sbiadisce
Non mi dà pace questa fredda mano morta
Ti prego,
accendi il fuoco dentro di me

 

Noctua l’aveva sentita esitare e soffrire intensamente quando aveva cantato quel “ti prego”. 

Poi, dallo spicchio di porta, la vide smettere nuovamente di suonare prima di poter scrivere un ritornello, spegnendo la melodia con un accordo stonato, una corda pizzicata con la violenza di un profondo dolore. 

Poi la vide piegarsi sulla chitarra quasi come piangendo, e rimanere lì immobile, come se l’oggetto di quella nostalgia fosse vissuto per poco soltanto nella chitarra. 

Noctua la lasciò stare e se ne andò. 

 

*

 

Noctua era in difficoltà alle feste organizzate da Esra e le sue menadi a motivo del fatto che si risolvevano quasi sempre in un’orgia, ma non si sentiva quasi mai a suo agio nemmeno alle feste che i guerrieri e le valchirie di Sonja organizzavano dopo una vittoria; c’era infatti un motivo se essi si riferivano a sé stessi come alla “Caccia Selvaggia” — e i loro festeggiamenti comprendevano fiumi in piena di alcol, un fracasso infernale, musica di guerra che era tutta un inneggiare alla violenza, gioco d’azzardo, tornei di pugilato, racconti ubriachi di eroiche gesta mentre gli ascoltatori esprimevano approvazione sbatacchiando scudi e boccali e, non di rado, qualche comportamento davvero poco piacevole, che di solito comprendeva l’umiliazione di un prigioniero.

Stavolta non c’erano prigionieri da umiliare: Sonja aveva già provveduto di suo pugno. Dopo che la città era caduta, infatti, era toccato al console e al suo primo ministro cercare di spiegare alla comandante le ragioni del loro volgersi dalla parte dei Saturnali. Ma Sonja li aveva considerati inutili farfugli, e aveva condotto direttamente sul posto, nella piazza principale della città, l’esecuzione dei due politici. Aveva, nello specifico, stampato i palmi in faccia a entrambi, evocando la magia del fuoco e fondendo loro completamente il viso finché non erano morti. Noctua non era arrivata in tempo per impedirlo. 

Adesso beveva del vino per il nervoso, e cercava un momento adatto per avvicinare Sonja — la quale invece era richiesta da tutti i tavoli, e passava da uno dei suoi sottordini all’altro scambiano storie, o ascoltava, bevendo come una spugna, quelle degli altri guerrieri e delle valchirie. 

Finalmente Sonja si sedette al posto d’onore, ossia sul bello scranno intagliato al centro della tavola sollevata nella sala, in mezzo ai suoi quattro generali. Noctua doveva ammettere di sentirsi un po’ mancare al pensiero di apostrofarla mentre se ne stava così seduta in mezzo al salone e aveva quell’espressione davvero inavvicinabile, ma Esra, anche lei presente alla festa, non si fece gli stessi problemi e avanzò verso di lei, facendosi dietro alla sua sedia per parlarle nell’orecchio.

Noctua non riuscì a sentire niente in quel macello, ma comprese subito il senso del sorriso che Esra stava rivolgendo a Sonja, insieme, probabilmente, con un invito inequivocabile; e poi Noctua vide Sonja farsi di pietra… la sua espressione diventò una lastra di ghiaccio e negli occhi aveva il gelo più totale. Noctua non sentì cosa Sonja rispose a Esra, ma i generali dovettero sentirlo perché risero beffardi; e Esra si allontanò con espressione umiliata e ferita. Esra, che ispirava terrore anche nei più accaniti guerrafondai del Nord, era stata colpita a sangue. 

Noctua ne aveva abbastanza. Ingollò il vino restante in un sorso e, con la testa un po’ leggera, marciò fino a davanti il tavolo d’elite. 

« Oh, mi sa che sono nei guai, » osservò Sonja per nulla impressionata vedendola arrivare sul piede di guerra.

« Sì, direi di sì. Ti devo parlare ». 

« Tu… stai aprendo bocca di fronte a tutti questi uomini? »

« Sì, ho bevuto, ok? »

« Ah, c’è il trucco, » commentò Sonja accendendosi la pipa con indifferenza. Non erano comportamenti strani quando beveva; Noctua l’aveva vista bere come una spugna (soprattutto negli ultimi tempi) e rimanere sempre in possesso delle proprie facoltà — ma un effetto glielo faceva l’alcol, e cioè la faceva diventare particolarmente stronza. 

« Anche tu hai bevuto. Troppo. Ti pare il caso? »

Sonja alzò una spalla. « Mi pare di sì. Sono stata piuttosto straordinaria ». 

Noctua non aveva intenzione di farsi abbindolare. « Quella gente aiutava i Saturnali perché aveva paura, è solo colpa nostra per non averli aiutati prima. E tu hai giustiziato quei due come bestie ». 

« Ti ho presentato… Politica, » sorrise Sonja sbuffando fumo nella più completa impassibilità. « Tradisci l’Alleanza del Nord e ti unisci a Saturno, per qualsiasi motivo, e quando arriva il momento ti prendi la responsabilità ». 

« Chi non ha scelta non ha nessuna responsabilità! »

« No, amica, non funziona così. Chi non ha scelta non ha colpa, ma la responsabilità ce l’ha eccome. Tirale fuori ogni tanto queste palle da guerriera, che ne pensi? »

« Se quelle che ho visto sono palle, sono contenta di non averle ». 

Sonja fece una di quelle risate che faceva quando era alticcia, e che normalmente a Noctua piacevano tanto: timbro basso, una leggerissima nota rauca. « Perché, perché la pena di morte è da persone orribili? E dire che Atena fu quella che trasformò una ragazza innocente in un ragno solo perché ricamava meglio. A proposito… dal momento che sei patrona dell’artigianato, vai a ricamare un cazzo con le ali e non farmi i lettorati ».

Quelle montagne di vichinghi che sedevano accanto a lei risero così di gusto che Noctua si sentì quasi sprofondare; ok che da ubriaca aveva meno questo problema, ma doveva ammettere che si sentiva debole alle ginocchia. Ad ogni modo, rimase perfettamente impassibile e continuò a rivolgere a Sonja uno sguardo duro.

« Beh, adesso cos’hai da guardarmi di traverso? » Si infastidì Sonja. « Fai tante di quelle storie per cosa? I civili sono incolumi dal primo all’ultimo, come piace a te. Ho ucciso il console e un ministro. Politici. Quando prendono tutti quei soldi per sedersi dove si siedono, accettano di essere i primi che uno va a cercare se succede un casino. Diciamo che è il loro lavoro metterci la faccia ».

I guerrieri risero i nuovo. Ridendo tutti insieme sembravano un’orchestra di ottoni indiavolata. 

« Ti diverti, Sonja? A trattarmi come una stupida per far divertire i tuoi? » la sfidò duramente Noctua. 

I guerrieri erano molto interessanti a quel possibile litigio fra Pellegrine e amiche, e anzi incalzavano battendosi le mani sulle cosce o sbattendo i boccali sul tavolo, ridacchiando ed emettendo vocalizzi per fomentare la discussione. Noctua non aveva nessuna volta di accontentarli.

« Possiamo parlarne in privato? » disse, dura. 

« Ok, ok ».

 

Là fuori nella notte, i rumori della festa erano leggermente più ovattati, come un rumore di fondo particolarmente allegro. 

Si sentiva puzza di bruciato e di sangue, e di bile nera, naturalmente. Il tutto rappreso nello sgradevole aroma di schifezze impastate e di malessere assoluto che era diventato il protagonista di quelle loro nuove vite — adesso, quindi, si sentiva ancora di più che era ormai tutto cambiato.

Sonja fece la sostenuta, nell’accompagnare Noctua fuori; e, sempre continuando questo atteggiamento ostentato, si appoggiò di schiena, a braccia conserte, a un edificio in rovina e le rivolse un’espressione come a dire “Dunque”?

Ma Noctua vedeva oltre i suoi modi. Quelli, anche se un’altra persona non l’avrebbe mai notato, erano gli occhi da cucciolo di Sonja.

« Mi ha dato fastidio, » disse Noctua. « Mi volevi umiliare? E poi lo sai che odio quando mi tratti come se fossi Atena. Sarò anche la futura reincarnazione, ma sono la tua amica prima di tutto, è quello che mi piace di più essere. Solo che stanotte non mi sono sentita molto ricambiata ». 

« Sì… mi dispiace. Ho sbagliato, sono stata una bestia. Però anche tu, ora volevi fare questo discorso, quando siamo qui, esausti, in gruppo ad abbassarci il quoziente intellettivo a vicenda, a bere e tutto? Non domattina? Non do proprio il meglio di me dopo quasi un’intera giornata di combattimento ininterrotto ». 

« Hai ragione, mi spiace. Io non ti volevo disturbare con questi discorsi, ma siccome domani ripartiamo mi sembra importante stabilire delle regole ».

« Regole? » chiese Sonja, guardinga. 

« Senti, io non ti chiedo di spiegarmi perché giustizi la gente. Io non lo farei, ok, io non— capisco di cosa sa mettere la gente alla pena capitale. Cos’è? Una questione di principio? È brutto quando i princìpi uccidono, quando la legge uccide. Ma nella roba che fai ci trovo una tua logica, un codice, e capisco che debba essere importante per il tuo retaggio odinico. Quello che voglio è che mi prometti che, quando sono anch’io presente, terremo consiglio prima di fare ‘sta roba ». 

« Nocti, mi fanno cagare i consigli per ogni cazzo di cosa — come a Eilawa che ci vuole la carta bollata anche per ordinare le puntine da disegno quando finiscono ». 

Il viso di Noctua si ammorbidì leggermente, come succedeva sempre con Sonja, anche quando la prima partiva a gamba tesa per sgridare la seconda. Noctua era inequivocabilmente etero, eppure non amava nessun altro come amava quella donna. Avrebbe voluto prendersi cura di lei, ma Sonja non glielo permetteva. Avrebbe voluto stare per sempre insieme a lei, ma c’era sempre una grossa porzione di Sonja che le sfuggiva via come un corvo. 

« Sì, lo so benissimo che non ti piacciono, però lo esigo. È giusto che tu capisca me come io capisco te. Certo non sarà consono alla tua mentalità da signore della guerra, ma è consono alla democrazia e alla giustizia. Abbiamo formato insieme quest’alleanza, quand’è che sono diventata un socio minoritario? »

Sonja sospirò. E fu buffo, perché si vedeva che faceva finta di essere scocciata ma non lo era veramente. « Va bene, ok. Facciamo come hai detto. Non chiedermi di sentirmi in colpa, però, se non ti dispiace. Francamente, con te che mi vuoi in un modo e Esra che mi vuole in un altro, sembra che solo ai ragazzi laggiù io vada bene come sono ». 

« Non voglio cambiarti, solo chiederti uno sforzo per vivere tutti insieme in maniera soddisfacente, » disse Noctua con passione. « Però almeno capisco perché di questi tempi combatti così tanto e così aggressivamente ».

« Perché… fammi pensare… c’è quello là? » fece Sonja, indicando con indifferenza il terzo di volto di Saturno che campeggiava in cielo, pallido e spaventoso.

« Sì, certo, ma anche perché non ci stai più bene con noi perché a un certo punto ti abbiamo delusa, e così ora sei sempre più lontana e ti trovi bene solo con la Caccia Selvaggia. È il tuo modo di spegnere il cervello. Stai cercando di non pensare a qualcosa di preciso ».

Sonja sbuffò rumorosamente. « Ma che cazzo, Nocti… sempre a psicanalizzare, a trovare la giusta scatolina con la giusta etichettina… nessuno mi ha delusa e non sono cambiata ».

« Ti sei vista prima, a umiliare Esra? L’altra tua migliore amica? »

Cadde un silenzio simile al piombo. Noctua guardava il volto di Sonja, che come al solito era la sua perfetta versione di volto duro e bastardo. Ma aveva gli occhi molto tristi. 

« Non mi avete delusa, » insistette Sonja. « Fatti meno seghe mentali. Sono solo— beh, insomma, sono cazzi miei ». 

« Danne un po’ anche a me, » disse Noctua gentilmente, ma seriamente.

« E che ci fai tu con un bel sacchetto di cazzi? Una torta? »

Noctua ridacchiò con affetto. Non voleva farsi distrarre, ma Sonja la faceva sempre ridere quando faceva battute sulla sua verginità, così come quando le raccontava il sesso in impietoso dettaglio per prenderla in giro. In un mondo come Stella Natalis, e dedita com’era al sesso, non l’aveva mai trattata come se le fosse mancato qualcosa perché era vergine; l’aveva sempre affettuosamente tormentata come una sorella. 

« Io credo che tu ne abbia più di un sacchetto. E non capisco perché da tempo non ne parliamo più come prima ». 

Ancora silenzio. Sonja a questo punto si era seduta con la schiena al muro diroccato, e Noctua decise di sedersi accanto a lei, anche se Sonja cercò di dissuaderla perché si sarebbe sporcata i pantaloni. 

« Nina… il fatto è che Esra secondo me prova qualcosa di molto forte per te ».

« Sì, lo so ».

« Lo sai? »

« Da un po’, » ammise Sonja. « O meglio. C’è stato un momento, durato un paio d’anni, che sembrava che le stessi sul cazzo in una maniera allucinante e che quando facevamo sesso sembrava più una faccenda di odio che altro, poi… mi sono fatta l’idea che fosse come quando i ragazzini fingono di odiare la ragazza per la quale hanno una cotta ».

« Ma… perché non le dici niente? » si meravigliò Noctua.

« Perché quella conversazione voglio che abbia luogo più tardi possibile ».

« Ma perché? »

« Perché non la amo come vorrebbe lei. Come un’amica sì, e molto. Ma il problema è che non le sta bene fare sesso una volta ogni tanto, lei vuole proprio stare con me. E io non voglio, non ho mai voluto, ho sempre avvisato di non volerlo. Cazzo, che ci posso fare? Anche se mi innamorassi di qualcuno non vorrei starci lo stesso. Non… non mi interessa, Nocti, non ce la faccio, non fanno per me queste cose e non ho voglia di starci dietro, » rispose Sonja. « Succederà questo: mi dirà che mi ama prima o poi, e io le spezzerò il cuore. A quel punto tutto il trio, che mi è caro come la vita, cadrà a pezzi. E io non… ce la faccio, ok? »

Noctua si prese del tempo per digerire quelle parole. 

Ma a Sonja serviva una doccia fredda. 

« Senti, Nina, ma perché devi sempre fare il profeta? Oltretutto, cosa ti dà la certezza matematica che tu stia interpretando correttamente tutto questo? Tu non lo sai cosa succederà in futuro. Sei sempre categorica, come quando hai detto che non vinceremo mai. Lo so che hai un dono… lo so che con Hugin e Muninn vedi il mondo fare sempre schifo da anni… ma non è quasi impossibile vivere pensando che niente si risolverà mai bene? Io penso che con una buona comunicazione voi due possiate avere un epilogo diverso. E per buona comunicazione intendo… dille le cose, quello che vuoi, come ti senti, e ascoltala mentre anche lei ti dice tutto. Dovete cercare di capirvi, di non ferirvi… voi due state sempre con la guardia alzata! »

« Nocti, una buona comunicazione non mi trasformerà in una fidanzata svenevole, » spiegò pazientemente Sonja. 

« Ma non dico questo, e secondo me lo sai benissimo! Perché non vuoi una relazione, poi? »

« Perché ho bisogno di spazio libero, la convivenza mi sembra un incubo, e ho preso accuratamente visione degli obblighi che comporta una relazione anche sana, e sono d’accordo che siano obblighi ragionevoli ma io semplicemente non voglio averli. Se parliamo di Ez nello specifico, è possessiva e lo sai benissimo. Io devo respirare la mia aria ». 

« Sonja… cazzo, non puoi manipolare intere situazioni e discapito dei sentimenti degli altri e dei tuoi solo per evitare le cose. Capisco che una conseguenza del Vedere sia sviluppare l’ossessione per procedere con un piano. Ma i casini ti troveranno proprio sulla strada che percorri per evitarli, te lo garantisco! » Esclamò con passione. Aveva sempre desiderato utilizzare quel ridicolo aforisma. « È tua amica! Dici che la ami come tale, allora perché la inganni in questo modo non affrontando la questione per poterla chiudere in via definitiva? »

« Non faccio tutto questo per essere una persona cattiva, » rispose Sonja con una voce strana, un po’ alterata. Forse rotta. « È solo che non ce la faccio, Noct ».

« C—? »

« Beh, che c’è? Ti è crollata la convinzione che non ho mai paura di un cazzo? » 

Noctua non osò rispondere. Perché in fondo quelle parole erano vere. Perché forse una parte di Noctua continuava a voler pensare che Sonja fosse fatta di marmo, senza neanche una crepa. 

Eppure li conosceva, gli occhi da cucciolo. Solo non ne aveva mai conosciuto la profondità. Pensò che una forma di dolore simile al lutto stesse mangiando viva Sonja, alterando la sua personalità e il suo comportamento. Ma cos’era che le mancava tanto da piangerla con tutto il cuore?

« Invece ce l’ho, e tanta. Io non voglio ferirla, non voglio che stia male. Non ho materialmente il coraggio di scaricarla. Lo so che è un comportamento codardo, ma quando la vedo e siamo sole io non ho— non ci riesco ».

« Ma… puoi sempre… insomma, scaricarla con gentilezza ».

« Primo, non ricordo di essere mai stata gentile in un secolo. Secondo, Ez non ha mai accettato un “no” come risposta in tutta la sua vita. Terzo, cosa faccio, magari le dico anche “Non sei tu, sono io” o “Ti meriti qualcuno di meglio”? » 

Noctua abbassò lo sguardo, sconfitta da quell’argomentazione, e cominciò a giocherellare con un frammento di pietra che era lì per terra. 

Però anche star sedute su un campo di battaglia sventrato andava bene, accanto a Sonja.

« C’è stato un momento in passato in cui… beh, mi sono comportata diversamente, comportata come se volessi stare con lei. Ok? Perché credevo di volerlo fare, una volta. E… poi ho cambiato idea. Perciò è colpa mia se le cose stanno così. Ho fatto la rizzavagine ».

« Ma certo che non è colpa tua! » esclamò Noctua. « Uno avrà ben il diritto di cambiare idea in vita sua, non è che se una volta flirti con qualcuno poi te lo devi portare a letto e dopo sposare eh! »

« Con Esra sì ».

« Non trattarla come una pazza ».

« Non la tratto come una pazza. Ma guardami nelle palle degli occhi e dimmi se non ha sempre ottenuto quello che voleva con le cattive, se le buone non funzionavano ».

Noctua la stava guardando negli occhi. Si rendeva conto solo adesso, chissà come, che quegli occhi erano diventati progressivamente più stanchi, negli anni. E molto delusi. 

« Uff… senti… »

« No, tu senti, » la interruppe Sonja. « Non è neanche tutto qui, a dirla tutta ».

« Che altro c’è? »

« Ho ricominciato a entrare nel regno dei morti quando cerco di dormire, » disse Sonja, col solito tono con cui sganciava bombe di quel genere; e con rassegnazione, perché le visioni erano una sofferenza costante della quale si era fatta una ragione, e che accettava come un destino ineluttabile. « I morti desiderano che io attraversi la soglia ed entri nella Mente di Odino. In parole povere, desiderano che mi cavi l’occhio. E a volte nel sonno non posso nemmeno essere sicura che non mi mutilerò mentre dormo. Prendo i funghi allucinogeni prima di andare a letto per poter restare cosciente mentre ho la visione ».

« Ma è orribile… Sonja… da quanto tempo non dormi? »

« Da un po’ ».

« Sonja, non puoi stare così! Devi vedere un dottore, non puoi… non puoi andare avanti così, hai troppo sulle spalle, troppo nella testa… »

Sonja la interruppe. Non voleva mai commiserazione… era una cosa che la mandava in bestia. O forse sentiva di non meritarsela. « Il punto è che i morti hanno un sacco di cose da dire. Vedili come trailer, e la tentazione di guardare tutto il film è forte. Io da un po’ ho delle sensazioni quando sono accanto a Esra — le ho sempre avute, ma ora sono fortissime. Mi vedo spappolata, una poltiglia. Accanto a me ci sono altre poltiglie. Una è piccola, come i resti di un bambino. Non so spiegarti razionalmente, ma durante la visione il collegamento è cristallino: il modo in cui Esra continua a spingermi a ottenere l’ultima Regalia, come faceva Loki, come fanno i morti, e ti ho già parlato di cosa succederebbe se lo facessi. Sto cercando di impedire questo destino. E sono sicura, Noct, sicura come la morte che il giorno che rifiuterò Esra succederà un gran casino ».

« Ma lei ti ama davvero, non ti farebbe del male! » protestò Noctua, che non riusciva a credere a tutta quella storia. « Voglio dire, è diventata parecchio più forte di me e te, ok, ma… »

« Anche tu sei in pericolo. In un angolo della sua mente c’è un’oscurità, ma non di quelle fighe da regina della notte, di quelle brutte, piene di malessere. Nello stesso angolo c’è anche la convinzione che io sia innamorata di te, e che tu sia l’ostacolo. Se la scarico, cercherà inevitabilmente di eliminarti anche solo per farmi del male. Perciò, come ho detto prima, sarà la fine di noi tre in quanto amiche ».

« Esra sta facendo di tutto per superare tutto questo. Sei malvagia se pensi che sia tutta colpa sua, che lo faccia apposta! »

« Esra non regge Dioniso esattamente come io non reggo quasi più Odino. Ricordi il discorso di prima sulle colpe e le responsabilità? »

« Non è vero! » sbottò Noctua. « Non è vero, e lo sai! Voi due avete entrambe bisogno di aiuto! Di volervi bene! Possibile che abbiate praticamente cento anni e siate delle tali ragazzine? »

« Ti ho già spiegato— »

« Mi hai spiegato una cosa bellissima, e cioè che non vuoi rifiutarla per non ferirla. Invece quello che hai fatto non ha niente di bellissimo, e l’hai ferita tanto, peggiorando ulteriormente le cose! » replicò Noctua, categorica. « Lei questo fardello lo sta portando lo stesso anche se tu non parli, ed è così che si rovinano i rapporti, così che si creano i casini! So quanto cazzo le vuoi bene, so che per lei moriresti, lo vedo in maniera cristallina, allora come puoi tenerle un segreto e poi trattarla così? La tua è solo sofferenza che si trasforma in ostilità perché non dici come ti senti, ma io ti ho sentita cantare su Yggdrasil e non è possibile che una persona che canta dal cuore abbia rinunciato a farlo per paura di soffrire! Tu ora canti solo storie d’altri, Sonja, impersonali, e non canti quasi più te stessa. Lo so che hai le tue visioni, lo so che Odino ti sta spaccando la testa, lo capisco che non ti senti sicura accanto a Ez, ma la tua è paura di star male, tutte le cose a cui rinunciato inclusa l’ult— »

« L’ultima Regalia? »

Noctua si paralizzò. Non per la paura, certo, perché non temeva niente da Sonja — ma i momenti in cui la Pellegrina di Odino diventava così terribilmente glaciale tendevano sempre a immobilizzare l’interlocutore lì sul posto, a chiedersi se sarebbe successo, subito dopo, qualcosa di sgradevole. 

Sonja la guardò a lungo con quegli occhi gelidi. Eppure Noctua sentiva in lei un’agitazione interna che somigliava molto più al fuoco.

« Sai cosa significa perdere tutto? » Disse Sonja. « È un grado particolarmente intenso di sofferenza. Tutto, il materiale, l’immateriale, quello che sei, quello che hai sempre saputo, forse anche la vita. Io perderò tutto, incluse voi due e i guerrieri che devo proteggere, il giorno che otterrò l’ultima Regalia. E non voglio, Noctua ».

Noctua abbassò lo sguardo per un attimo. « Lo capisco. Credimi. Ma tu… come fai a essere sicura del significato esatto della profezia? E se significasse, per dire, che perderai tutte le cose vecchie e rinascerai? Lo sai benissimo anche tu che i presagi sono enigmi, che possono mostrare solo il risultato di una concatenazione di eventi che non puoi in nessun modo conoscere! »

« Il rischio è troppo alto ». 

« Sì ma tu per evitarlo stai smettendo di vivere. Cosa ti fa essere così sicura del fatto che comportandoti in questo modo scongiurerai ogni pericolo? Pensaci un attimo, cazzo! Hai avuto una visione che ti ordina di non prendere l’ultima Regalia, è vero, però subito dopo hai visto quel cavaliere simile a quello che ho visto io, no? E sapevi benissimo che era il futuro, quello. Sai, non credo che quest’uomo, che è tanto importante da averti raggiunta attraverso il tempo, ti si recapiterà qui a domicilio. Quindi la Regalia tu in futuro la prenderai! E te ne verrai con me! Non so dirti se sia un bene o un male, ma succederà, il tuo destino è scritto, corrigli incontro allora! »

Sonja non sentiva ragioni. « Tu te ne andrai da qui da quelli che ti aspettano. E— e ci sto male. Ma io non voglio che vi succeda nulla, che siate incluse nel conto di quello che perderò se offrirò l’occhio al Guercio. Perciò, io rimarrò qui. E mi mancherete ».

Noctua rimase a bocca aperta. Sonja aveva le lacrime agli occhi.  

« Sonja… ma… perché non mi hai mai detto come ti sentivi? Mi hai sempre incoraggiata a partire… tutti i mesi a dirmi parti, vattene via… e non hai mai avuto intenzione di venire con me… »

« So che quei cavalieri sono importanti per te. Non volevo fartela prender male ». 

« E i cavalieri che aspettano te, in quel posto di nome Asgard, non sono importanti per te? » balbettò Noctua con la voce rotta. 

« Se tu dovessi morire per colpa mia, mi ucciderei ». 

Noctua si asciugò una lacrima e si ricompose — almeno esternamente, ma dentro si sentiva annientata. Improvvisamente le sembrava di non aver fatto altro che sbagliare. Si era sempre appoggiata a Sonja e alla sua saggezza. Solo ora vedeva il prezzo che Sonja aveva pagato da sola. Stando sempre appoggiata a Nina con tutto il proprio peso, Noctua aveva finito per diventare cieca a quanto la sua migliore amica fosse fragile. 

Sonja che si sentiva in pericolo accanto ad Esra ma non ne aveva mai fatto parola con Noctua per non rovinare i rapporti; Sonja che solo ora le parlava dei morti che la torturavano, perché per mesi non aveva voluto darle una preoccupazione; Sonja che aveva deciso di rinunciare al proprio destino e alla visione di quello strano cavaliere che la chiamava dal futuro, solo per non mettere in pericolo loro due e nemmeno i propri guerrieri; Sonja che aveva deciso di restare da sola su Stella Natalis che ormai era in via di putrefazione, stretta in un’eterna tristezza, a vagare per la Terra Infinita, solo perché Noctua e Esra potessero vivere i loro sogni. Sonja che non voleva relazioni, ma era probabilmente il più lampante esempio di lealtà che Noctua avesse mai visto. 

Noctua decise di non tenere alcun segreto con lei. « Senti… ti prego, non ti arrabbiare. Questa cosa è successa totalmente contro la mia volontà ».

« Quale cosa? »

« Beh… Loki è venuto a parlarmi di qualcosa di simile… riguardo a Ez ».

« Che cazzo voleva? »

« L’ho mandato via, ti dico! » Replicò Noctua, messa sulle spine dall’improvviso atteggiamento aggressivo di Sonja; non sapeva bene perché avesse litigato con Loki, ma sapeva che avevano lottato e che era stata una cosa piuttosto grave e sanguinosa. « Ma… era venuto dicendo che c’era qualcosa che non andava in Esra. Ma ti spiego come la penso! » Si precipitò ad aggiungere. « Penso che lui ti possa aver letto la mente, Nina. Non mi stupirebbe se avesse approfittato dello stato in cui sei quando cerchi di dormire. Il pensiero che magari ti guarda mentre dormi— non ci voglio pensare. Ma non se n’è andato. E adesso sta venendo a sobillarci con tutte le cose di cui abbiamo più paura, per metterci le une contro le altre. Tutto questo solo per metterti all’angolo e spingerti— »

« … A ottenere l’ultima Regalia e diventare immortale. Vedi, Nocti? Non ha senso prendere quella Regalia. Se non ci fossero tutte le altre ragioni, basterebbe anche solo perché è Loki a volere che io la prenda ».

« Ma Loki è un Pellegrino? »

« No, è completamente Incarnato. Troppo, voglio dire ».

« Intendi… che è diventato un Assimilato? »

Noctua non aveva mai conosciuto un Assimilato, almeno consapevolmente. Si sapeva che erano quei Pellegrini che si Incarnavano ma che perdevano completamente il controllo della questione, perdevano la propria identità quasi del tutto, e fungevano da organismo ospite per una porzione consistente della mente del dio, come posseduti. 

« Credo di sì. Non ha nemmeno più il suo nome. Non è una persona inspirata o anche invasata dal dio come noialtre. È il dio Loki quello che cammina col suo corpo, non chiunque lui fosse prima ».

« C’è un modo per liberarlo? »

« Lo potrebbe fare un dio, ma non credo che un dio si scomoderebbe per dei Pellegrini. Fanno reincarnare noi apposta per non doversi sbattere a scendere in terra di persona, non ti pare? Sennò, potrebbe anche farlo da sé. Ma se quel parassita del suo dio ora ha trovato un corpo che gli piace, non credo che questa cosa succederà, » rispose Sonja. « Tutto ruota intorno alla cazzo di ultima Regalia, e adesso anche a Esra. È una situazione in cui non si possono mettere le mani con leggerezza ».

« Lo capisco ».

« Finalmente ».

Cadde un silenzio estremamente pensante. 

Durò per un po’, mentre in alto le mante percorrevano il cielo galattico sopra al campo di battaglia che adesso sembrava piangere sommessamente. 

Noctua aspettava. Sapeva bene che Sonja voleva parlare, e non voleva farlo al tempo stesso; e sentiva che il discorso stava per concludersi in una maniera orribile; ma aspettava, perché ormai voleva sapere tutto, indipendentemente da cosa sarebbe diventata la sua vita dopo quella conversazione. 

« La guerra non finirà mai, ma probabilmente faremo sì che l’infestazione raggiunga uno stallo, » disse infatti Sonja. « A quel punto andrò via ». 

Noctua restò immobile, dissociata, incapace di reagire. Sentì che nel cuore le stava battendo il tamburo del terrore, peggiore di quello di una flotta di navi da guerra, e che tutto il miserevole ambiente circostante stava iniziando a respirare affannosamente, con la gola chiusa, all’unisono con la paura che le stava risalendo la spina dorsale. 

« Non puoi ».

« Ah-a, capisco. Vuoi che stia qui a vedere te e Ez che partite ».

« No, tu stai dicendo cazzate, Sonja! » sbottò Noctua, scattando in piedi. « Tu hai visto quello che ho visto io. Hai visto un cavaliere con l’armatura d’oro ».

« Ancora con questa storia? Mi sono già dimenticata di quello là, » disse Sonja, sprezzante. 

« Bugiarda! » gridò Noctua. « C’è una, una sola canzone che stai cercando di cantare sinceramente in questi giorni. Quella che da anni cerchi di scrivere per lui. Quella che non riesci a finire perché non sai nemmeno tu come ti fa sentire. Io l’ho sentita, la bozza più recente. Quella è una canzone di struggimento e di guarigione. In quella canzone si sente quello che non ti rendi conto di metterci, l’amore assoluto. Tu lo sai benissimo che quell’uomo ti stava indicando la strada giusta da percorrere. Qualsiasi cosa dici in contrario, stai solo mentendo ».

« Ma di che stracazzo parli? Quello è il tuo cavaliere, mica il mio ».

« Tu non vuoi dar retta a quella visione perché tu devi sempre avere un piano, devi sempre sapere tutto, non puoi accettare di saltare da una torre senza sapere cosa c’è sotto! » Replicò Noctua a voce alta. « Per questo interpreti le visioni sempre nel modo peggiore, perché ti sembra che aspettandoti sempre il peggio non potrai soffrire! Io ho visto tutto, Sonja, ho visto anche i disegni che hai fatto per cercare di fissare la visione di quell’uomo che dici di aver dimenticato. E il tatuaggio che ti sei fatta lì sul petto? Adesso non dirmi di nuovo la fregnaccia che hai perso una scommessa con Thor! Le corna sono esattamente uguali! »

Istintivamente, mostrando in questo modo un momento di debolezza, Sonja si sfiorò con la mano il tatuaggio che aveva sul petto, come per coprirlo, o come per proteggersi il cuore. Era un ampio disegno raffigurante un teschio di montone. 

« Sonja… secondo me tu da allora… pensi spesso a quel cavaliere, no? È per questo che non ti interessa nessun altro… »

« Ho scordato la sua faccia, » ammise Sonja.

« Davvero? » fece Noctua, mogia. Sonja aveva il cuore che sanguinava. 

« Ho scordato i suoi capelli e sto iniziando a scordarmi anche la corporatura e con essa il resto dell’immagine. Ormai è solo un’ombra confusa ».

« Però tu sei… innamorata di lui. È evidente ».

« Ma che cazzo dici? » sbottò Sonja. « Anche meno con i cliché romantici, se non ti dispiace ». 

« Non è un cliché. So benissimo che non lo conosci e che non si può parlare di amore romantico in senso stretto. Ma lo ami come una canzone. E ami che sia un enigma. Ci continui a pensare scrivendo la canzone perché cerchi di replicare il modo in cui ti sei sentita in quel momento. Tu stai cercando di scrivere la tua prima canzone d’amore, Sonja, è questa la verità ».

Sonja non rispose. 

« E dici che vuoi rinunciare a lui. Quella era una chiamata al tuo destino, magari anche alla tua felicità finalmente, e tu hai deciso di rinunciarci per cosa, per salvare me? » Noctua aveva ricominciato a gridare. « Io rifiuto! Questa è la tua vita! Non puoi rinunciarci per la mia, quando nemmeno sai se hai interpretato correttamente! »

« Non me ne frega un cazzo se “rifiuti”, » disse Nina freddamente. « È una decisione che ho diritto di prendere ».

Noctua aveva la voce rotta e non ci vedeva neanche bene da quante lacrime aveva bloccate negli occhi. « Quindi se… se io stasera non ti avessi presa da parte, se non avessi mai iniziato questo discorso, tu un giorno te ne saresti semplicemente andata e io non avrei saputo niente? »

« Esatto ».

Noctua scoppiò a piangere; bastò che scendesse la prima lacrima perché un torrente ne seguisse. Intanto singhiozzava rumorosamente, quasi gridando mentre faceva fatica a respirare e si scuoteva con violenza.

« Smettila, Nocti ». Sonja guardava altrove e teneva le labbra premute una sull’altra. 

« Sei una stronza, Sonja! » ululò Noctua. « Non puoi andartene, non puoi lasciarmi! »

« Finirò la guerra, prima, te l’ho già detto ».

« Ma che cazzo vuoi che me ne freghi, stupida! Non voglio che tu stia con me per quello che puoi fare per me, voglio che tu stia con me perché ti voglio bene! » Urlò Noctua fra le lacrime, con la voce roca, piegata quasi su sé stessa.« E cosa dovrei fare quando arrivo dai cavalieri? Si aspetteranno tutti che io sia stocazzo incarnato, e invece mi metterò solo a balbettare e come diavolo dovrei riuscire ad assumere il mio ruolo senza di te? Tu vuoi che io tutte le mattine mi svegli ricordandomi che non ti rivedrò mai più! Sei un mostro! »

Sonja appariva sconvolta, e aveva di nuovo gli occhi lucidi. « Noct… »

« No stai zitta! » pianse violentemente Noctua. « Ti prego… ti prego, non mi lasciare ».

« Io… Noct… ora non fare così, per favore ».

« Promettimelo! »

« Ma come faccio a promettertelo! Anche se tutto quello che ho detto finora lo mandassi in culo, non sappiamo un cazzo di dove dobbiamo andare, di dove sono questi tizi con le armature, se sono ancora vivi— »

« No, me lo devi promettere! » insistette Noctua disperata. « Promettimi che non mi lascerai sola. Che mi troverai da qualsiasi parte. Promettimi che ci andrai tu dagli omini al posto mio, se io non potessi! » 

Sonja non sapeva cosa rispondere. 

« Promettilo. Poi non farlo, se non vuoi. Ma promettimelo anche se è una bugia. Dimmela questa bugia. Mi serve. Sono terrorizzata ».

« Ehi ».

Era quel particolare “Ehi” caldo e sommesso che Noctua amava più di tutto, perché rimetteva sempre le cose a posto e precedeva sempre un abbraccio. Sonja infatti si avvicinò a Noctua la strinse a sé, accarezzandole i capelli e tenendole le labbra premute sulla fronte. 

« Gufina. Non ti buttare giù ». 

« Se tu mi richiami Gufina io posso richiamarti Odino il Nonnino? »

« No ».

Per un po’ non aggiunsero altro. Noctua finì di piangere nell’abbraccio di Sonja, e si sentì come se fosse resuscitata. 

« Te lo prometto, » disse infine Sonja. 

« È una bugia? »

« Non lo so, Nocti. Vediamo come va ». 

« Davvero? »

« Davvero. Hai ragione tu. Forse ci devo provare, a prendere quella Regalia. Ma mi devi lasciare un po’ di tempo per pensarci ».

« Va bene ».

« Ti voglio bene, Gufy ».

« Anch’io, » gemette Noctua aggrappandosi a Sonja ancora più forte.

 

Per un paio di settimane, sia Esra che Noctua notarono un cambiamento positivo in Sonja. Non era più così spaventata dall’ultima Regalia, perciò cominciava a pensare di non dover trascorrere l’eternità su Stella Natalis; ciò a sua volta significava che il suo umore era migliorato, e sembrava perfino esserle venuto fuori un po’ di ottimismo. Anche se la guerra andava avanti, i momenti di convivio delle tre amiche, proprio perché rari e circondati da oscurità, erano diventati più luminosi. Certo Esra era ancora innamorata di Sonja e Sonja non si era ancora decisa a mettere le cose in chiaro… ma Sonja aveva cambiato atteggiamento e si era fatta molto più calorosa, come se tutto il ghiaccio che aveva tanto ferito Esra si fosse sciolto; così, in generale, erano tutte e tre di umore migliore. Perché in fondo era sempre stata Sonja il pilastro del trio. 

Poi, un giorno, accadde qualcosa che avrebbe cambiato tutto. 

Né Noctua né Esra sapevano di preciso com’era iniziata, perché Sonja era stata ben muta in proposito. Sapevano che un giorno la Pellegrina di Odino si era trovata a percorrere su Sleipnir il campo di battaglia, in una porzione che era stata un frutteto, avanzando lentamente verso una città ormai Saturnale con l’intenzione di espugnarla ora che non le restavano difese; dietro di lei la Caccia Selvaggia… e davanti, una bellissima donna apparsa come dal nulla. 

La donna, così vestita, così rosa sulle guance e così debole e liscia, si pose davanti a Sonja e alla Caccia. Nessuno al momento si mise a ridere di questa iniziativa: nessuno poteva essere tanto idiota, quindi doveva voler dire che quella cicciottella nanerottola aveva qualche asso nella manica.

« Ti spiace spostarti? Sto andando a salvare la città ma e non vorrei spiaccicare una collega Pellegrina, » disse Sonja, torreggiando su di lei sull’enorme Sleipnir e con Muninn sulla spalla. 

« Salvare? » disse la donna, sprezzante. « Sei venuta a portare altro sfacelo. Vattene, guerrafondaia. Perché solo i guerrafondai pensano che la loro opera sia un male necessario ».

Sonja sorrise gentilmente, come se avesse avuto compassione. « Ah, certo, ecco il tuo piano: convincere tutti i guerrafondai dell’universo a smettere di guerrafondare nello stesso istante, tutti insieme. A quel punto avrai salvato tutte le galassie. Io però non disarmo finché non disarmano tutti gli altri, te lo dico. Ah, se solo ne’immondo ci fosse un po’ di bene e ognun si considerasse suo fratello… »

La donna riusciva sicuramente a percepire l’intensa pressione del cosmo a riposo di Sonja, ma non abbassava né il mento né lo sguardo. « Sei un tipo affascinante, Pellegrina, ma sei anche una persona triste ».

Senza che Sonja dovesse nemmeno muoversi, il terreno intorno alla Pellegrina sconosciuta si congelò; e dalla lastra di ghiaccio emerse in diagonale una stalagmite di ghiaccio acuminata e sottile quasi come uno spillo, che arrestò la propria punta proprio a un passo dalla sua gola. 

« Dimmi, Pellegrina presumo di qualche ridicola divinità dei raccolti… » sorrise Sonja con disprezzo, « non si è preso nessuno cura di te finora? Così che potesse insegnarti a sceglierti i nemici con un minimo di buon senso? »

« Non mi ucciderai ».

« No? »

« Dovresti vivere poi il resto della vita domandandoti chi delle due, a quel punto, ha vinto la discussione ».

Sonja rise. « Divertente, vuoi lo scontro dialettico. Aspetta, ci penso io ». Sonja alzò la voce e sollevò la lancia. « Ragazzi! Prendiamo una prigioniera. Portate subito i ceppi da Pellegrino ».

Gli attendenti di Sonja furono molto solleciti, e molto divertiti dalla cosa. In breve, la Pellegrina fu legata come si usava fare per contenere chi era dotato di poteri magici: i polsi e le caviglie ammanettati con ceppi magici, e un collare di contenimento. 

« Il senso di questa farsa? » disse la prigioniera.

« Non è una farsa, è un gioco, » spiegò Sonja. « Ti darò vitto e alloggio per tre giorni, e, se non mi fai incazzare, perfino un pagliericcio. Dopo tre giorni deciderò cosa fare della città. In qualche modo questi giorni passeranno. Ti torturerò un pochino per lenire lo stress? Bisticcerò con te tutta la notte nella Sala mentre io e i ragazzi celebriamo la morte dei tuoi amici? Avrò nel mio cuore il segreto desiderio che tu riesca a cambiarmi, perché essere così cattiva fa male più a me stessa che agli altri? Non lo sa nessuno. Ma tu continua a percorrere con questa classe la linea fra il divertirmi e il darmi ai nervi, e vivrai ». 

« La vita è un dono amaro se concessa da te ». 

« Mmh… » disse Sonja, come se stesse studiando un caso interessante dal punto di vista etologico. « Non solo non sei mai andata in guerra, ma mi viene da dire che tu non abbia avuto una singola avventura sgradevole in vita tua. Beh, ti spiego come funziona Stella Natalis qui fuori. Se non puoi abbattermi, devi stare alle mie condizioni. Se non vuoi stare alle mie condizioni, ti sto dando un privilegio raro: fai un passo avanti e muori ».

Lo spillo di ghiaccio si allungò di pochi millimetri. Alla Pellegrina sarebbe bastato davvero solo un passo deciso per trapassarsi da sola la carotide.  

Ma la donna bellissima restò immobile. Rivolgeva a Sonja uno sguardo indecifrabile per lo più, ma con un’evidente nota sottostante di umiliazione. Sonja se ne considerò evidentemente soddisfatta. Si mosse sulla sella e spronò il cavallo.

« Gentiluomini! Fornite a questa Pellegrina una stanza confacentesi alle circostanze festive. È proibito farle del male salvo per mia esplicita volontà. E tu, Santa Lucia, » aggiunse rivolgendosi alla prigioniera, mentre su Sleipnir faceva il giro. « C’è sempre l’opzione bonus quando si viene sconfitti, che è venire graziati. Perciò applicati in questi tre giorni ».

Dando di nuovo di sprone, accompagnata dalle urla bellicose della Caccia Selvaggia, Sonja si allontanò verso il fianco destro dello schieramento per guidarlo nuovamente al campo. 

 

La Pellegrina, alla quale finora nessuno aveva chiesto il nome, era stata abbandonata in una cella ricavata da un edificio in rovina nel luogo dove era stato eretto il campo; e, dal momento che aveva tre giorni di tempo per salvare sé stessa e la città, Sonja decise crudelmente di non farle visita per tutto un giorno, in modo da farglielo sprecare. 

Così la donna sedeva sul pavimento della stanza “confacentesi alle circostanze festive”, che era piccola, buia e non aveva una finestra, e non venne visitata in tutto il giorno da nessuno. C’erano solo un paio di torce a illuminare la prigione, che però era vuota. Sonja non doveva essere abituata a fare prigionieri, o a mantenerli troppo a lungo. 

La Pellegrina, così torturata, aspettava in completo isolamento. Da lì sentiva bene la Caccia che faceva baldoria tutta la notte e che giocava ad azzuffarsi tutto il giorno per restare in forma. Aveva anche sentito due di loro appartarsi per fare sesso proprio dietro la parete della sua cella, ed era chiaro che era stato fatto apposta. 

Finalmente, a metà della mattina successiva, Sonja decise di far visita alla prigioniera. Era anche quel giorno bardata da combattimento, tatuata anche in faccia e con gli occhi abbondantemente truccati di nero carbone, e la Pellegrina dovette ammettere che era una donna molto bella e mascolina e dall’innato carisma, anche se le faceva tremendamente rabbia. 

« Allora, come ti chiami? » chiese finalmente Sonja, mettendosi a sedere sul pavimento davanti alle sbarre della cella. 

« Leni, » rispose lei. « E tu ovviamente sei Sonja, il Passo di Corvo, Colei che Pende dalla Forca, comandante dell’esercito dell’Alleanza del Nord eccetera ».

« Quello è quello che sono per lavoro, » rispose Sonja con falsa confidenza. « In realtà, sono una ragazza acqua e sapone. Non mi piacciono le persone false e sogno un ragazzo della porta accanto che mi salvi da me stessa e mi tratti come un principessa ». 

« Non smetti mai di fare del sarcasmo? »

« Quasi mai ». 

« E come mai? »

« Fa incazzare la gente ». 

« E inoltre, è un atteggiamento che non ti espone ». 

« Quella è la cosa più importante, » disse Sonja con passione. « Io sono una soffice ragazza timida che non vuole che nessuno le guardi dentro, perché ho così tanta paura di restare ferita e che tutti si approfitterebbero di me se vedessero le mie debolezze ».

« Esatto ».

Sonja sbuffò con accondiscendenza. « Voi donnette vivete di aforismi che vi fanno pensare che la gente sia facile da capire ». 

« Noi “donnette”? »

Sonja sorrise serafica. « Certo, le donnette come te. Ci sono io, o le mie guerriere, che siamo donne… e poi ci sono quelle come te, che sono donnette, » spiegò. « Le donnette hanno vissuto una vita semplice, mai toccato il fondo per poi risalirne, mai pensato di farla finita per poi salvarsi con le proprie mani, mai dovuto mettere in discussione ogni cosa e ricostruirsi a mani nude, mai dovuto lottare particolarmente sodo per niente, mai dovuto compiere uno sforzo sovrumano per andare avanti, per non parlare della mentalità provinciale. Le donnette non hanno esperienza praticamente in niente, perché vivono tutte in modo dove non succede niente che non si possa spiegare con un po’ di saggezza della domenica. In genere sono convinte di essere profondissime e piene di esperienza di vita, e credono di aver sperimentato il vero dolore e di esserne uscite più forti. Un altro fattore che subito mette in sospetto, in un posto come Stella Natalis, è che le donnicciole e gli omiciattoli indossano vestiti scomodi per combattere, come il tuo bell’abito lungo drappeggiato. Segno che non hai mai dovuto ricorrere a violenza, ma non perché tu sia migliore di me… solo perché sei sempre stata una di quelle privilegiate che lasciano che combattano gli altri. Vedi, io faccio quello che è in mio potere in questa guerra, perché, se non lo facessi pur avendone la forza, sarei una codarda. Tu invece sei la categoria di persona che mi fa più ribrezzo: predicatori. Che sul pulpito brillano come statue d’oro ma poi sono soltanto sassi. Buoni, in pratica, solo come proiettili. Che idea! Potrei lanciarti contro le mura dopodomani ». 

« Con la pietra si costruiscono le case ». 

« E con un esercito si buttano giù. Chiunque può passare e radere al suolo un villaggio di pacifisti con le mani pulite. Quando non sai difenderti, il primo che passa può spaccarti la testa a proprio piacimento. Ma se alla tua città non è mai successo, finora… se hai sempre potuto permetterti di avere la coscienza pulita, e non hai mai avuto necessità di ricorrere alla violenza… è me e il mio esercito che devi ringraziare, ipocrita ». 

« Adesso sei tu che pensi che la gente sia facile da capire, » disse Leni.

« Per me lo è. Conosco tanta gente che è stata fatta col tuo medesimo stampino. E la tua voce che si è rotta mi ha già dato conferma che ho toccato qualche nervo scoperto ».

« Spero che tu non ti sia dimenticata che l’Alleanza che ora proteggi è nata da tutte le città che ai tuoi tempi avevi conquistato e sottomesso con la forza ».

« In gioventù ero un tipo molto più frizzante, » sorrise Sonja. Era molto divertita dal profondo disprezzo che veniva da Leni. « È un vero peccato che all’epoca non ci fosse un Pellegrino all’altezza di fermarmi. Erano tutti come te. Perciò le città cadevano… è così che funziona ».

Sonja si battè allegramente le mani sulle cosce e si alzò con un movimento elastico, lasciando lì Leni a macerare di umiliazione. Aveva ormai deciso di averla sconfitta, e di non avere niente da temere da lei. 

 

Sonja visitò di nuovo Leni poco prima di radunare l’esercito per muovere contro la città al terzo giorno. Si presentò da lei mettendosi contro il muro di fronte alla cella a braccia conserte, fumando reggendo la pipa solo coi denti, e annunciando che mancavano due ore allo scadere del tempo concesso, e che era aperta ad ascoltare eventuali confutazioni decisive. Leni rispose di non avere niente da dirle, e di aver sempre saputo che la Pellegrina di Odino era un caso senza speranza. 

« Non ti ho mai chiesto chi è il tuo dio, » disse poi Sonja, come se le fosse venuto improvvisamente quel pensiero poco importante. 

« Pomona ».

In risposta a quel nome, Sonja si levò la pipa di bocca e cominciò a ridere tossicchiando perché si era quasi soffocata col fumo. 

« Ti diverte? »

« Mi diverte? Mi sto pisciando addosso, » grugnì Sonja fra le risate, coprendosi gli occhi con una mano. « Mi hai sfidata sul campo di battaglia come se fossi la Pellegrina, non so, di Shiva e poi… sei la dea della frutta, » aggiunse in un altro piccolo attacco di risate. « Cosa volevi fare, lanciarmi una pesca tabacchiera? Ti prego… ma vattene da Stella Natalis, no? I Pellegrini inferiori hanno una sola prova della Regalia, poi fanno vite carinissime senza che nessuno si aspetti granché da loro, giustamente. Ma levati, vai nel tuo mondo di alberi in fiore predestinato e fai la vita cottagecore. Che cazzo ci fai qui? »

« Io ce l’avevo il mio mondo di alberi in fiore cottagecore, tu l’hai ridotto in cenere. Col pretesto di fermare i Saturnali… ma io lo so bene che ti ha dato piacere, » disse Leni, con rabbia e dolore. « Ma questo posto continua a piacermi. Chi sogna una casa diversa, vuol dire che ne ha una scadente. E che si aspetta che spostandosi altrove risolverà tutti i propri problemi ». 

Sonja aveva ripreso a fumare tranquillamente; sorrideva indifferente, ma almeno non rideva più. Leni aveva sempre saputo che i Pellegrini superiori erano tutti uguali, ma adesso che aveva conosciuto anche una Pellegrina suprema aveva un quadro più chiaro di come la gerarchia portasse sempre con sé un crescendo di arroganza.

« È stata facile finora? La vita, intendo, » chiese Sonja, pestifera. 

« Sì, è stata facile, » rispose orgogliosamente Leni. « No, non ho avuto nessuna prova della Regalia volta a massacrare l’esaminato per scremare i più forti come succede a voi Pellegrini supremi. Ho avuto un viaggio sereno. Ecco perché mi consideri una mezza sega e una privilegiata ». 

« Esattamente, » assentì Sonja. « D’altra parte le mezze seghe non sono inutili, se guardi il piano completo del mondo. Cerco di dirti che non devi preoccuparti di essere la reincarnazione di una dea completamente inutile, perché la tua voce è importante. Ricordati… tu sei abbastanza ». 

« Ma vaffanculo, va’ ».

« Ad ogni modo, mancano solo due ore. Non so cosa riuscirai a combinare con quell’atteggiamento così chiuso, » la prese in giro Odino.

« Tutto questo è stato solo un gioco per te dall’inizio. E non hai mai giocato con in mente la possibilità di perdere. Eppure io penso che tu sia molto stanca del tuo dio, Sonja. Penso che in fondo tu sogni ogni giorno che Saturno scompaia dal cielo. Tu devi essere sfinita, e lo sento dall’odore di morte che ti porti dietro, che mi fa stare male fisicamente e non oso immaginare che effetto stia avendo su di te. Io, comunque, ti perdono ».

« Fiu, che sollievo, » si rallegrò Sonja. « Come mai hai preso questa decisione? »

« Ti vedo come una vittima ». 

« Scommetto che ti aspetteresti una mia reazione violenta dopo questa provocazione, vero? »

« Non— »

« Ma non andrà così, » la interruppe Sonja con un sorriso altezzoso. « Vedi… tutti siamo vittime di qualcosa di più alto ed esterno a noi, come anche di qualcosa di estremamente basso ed interno. Anche per te è lo stesso. Ma, per tornare al discorso di ieri, tu sei una donnetta. Quindi l’unica scelta che avevi era impostare questa personalità pacifista, fondamentalmente sprezzante, in quanto ti offre la possibilità di dimenticare il tuo stato miserabile considerando me, la reincarnazione del Padre Universale, una povera creatura. Io ti sono superiore sotto ogni aspetto, e non perché sia più potente o dalla parte del vincitore, e nemmeno per via dei nostri reciproci dei… ma perché, qualsiasi cosa possa succedermi, io la posso combattere, e alla fine me la cavo sempre perché sputo sangue generosamente e volentieri. Tu… sei solo una povera piccola rosicona. Speravo che tu avessi qualche lato interessante o ti avrei uccisa subito, ma in questi tre giorni mi hai dimostrato che non sei in grado di affrontare niente, forse nemmeno un’unghia incarnita. Perciò non puoi avere ragione, ti pare? La ragione è una voce forte. Tu sei debole ».

Detto questo, Sonja se ne andò; dopo pochi minuti, Leni sentì suonare i corni di guerra e udì un clamore davvero infernale — l’esercito che si radunava in piazza d’armi. 

« Si vedrà, Pellegrina suprema, non credi? »

 

Ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Daphnim.
Talis amor Daphnim, qualis cum fessa iuuencum
per nemora atque altos quaerendo bucula lucos,
propter aquae riuom, uiridi procumbit in ulua
perdita, nec serae meminit decedere nocti,
talis amor teneat, nec sit mihi cura mederi.
Ducite ab urbe domum, mea carmina, ducite Daphnim.

 

La città venne presa come previsto, con relativamente poco spargimento di sangue in causa del fatto che il grosso dell’esercito era stato già annientato in precedenza. Le indagini successive rivelarono che la città stessa, che godeva di un certo primato nella forgiatura delle armi, era stata scelta dai Saturnali per sviluppare armi capaci di avvelenare con la bile nera. Tutte queste armi vennero distrutte in un gigantesco rogo magico, e i Saturnali vennero fatti a pezzi vivi e confinati, così pateticamente smontati, dentro la vicina Gola Abissale, la cui profondità non era misurabile da nessuna unità di misura. 

Al ritorno al campo, le guardie riferirono a Sonja che Leni aveva passato la notte a cantilenare parole incomprensibili, che non era nemmeno stato possibile trascrivere per qualche tipo di strana magia. Perfino Hugin e Muninn confermarono questa versione e non furono capaci di ripetere il testo della cantilena. 

Leni venne comunque liberata in segno di dispregio, e fu invitata a seguire il battaglione che si sarebbe diretto di nuovo ad Eilawa scortando i feriti. Quella notte vennero celebrati i funerali per i guerrieri della Caccia che erano caduti, e Sonja avrebbe dovuto aver già dimenticato quella stupida donna, che però, per qualche motivo, si era installata stabilmente nella sua testa. 

 

*

 

Nel corso di pochi dei lunghissimi mesi di Stella Natalis, le previsioni di Sonja si rivelarono esatte: di battaglia in battaglia, a forza di estirpare Saturnali, il Nord, pur sempre infetto di bile nera, vide uno stallo del diffondersi della malattia. 

Saturno non tramontò dal cielo; ma ovunque nella Terra Infinita si opponeva resistenza, in ogni regione in modo diverso e con risultati diversi, e così, malgrado lui fosse sempre lì e la bile nera continuasse a esistere nel tessuto planetario, per il momento sembrava che il diffondersi del cancro si fosse arrestato. 

Tantissimi, addirittura, si trasferirono in quella regione chiamata Nord (malgrado esistessero molti altri Nord, naturalmente), attratti dall’equilibrio raggiunto fra luce e ombra e dallo stato di rinnovata pace della federazione, entrambe le cose molto rare su Stella Natalis. Questo diede il via alla ricostruzione. 

Per Esra, Noctua e Sonja sarebbe quindi arrivato il momento di partire. Non era pensabile continuare ad accampare scuse, perché la guerra contro Saturno su Stella Natalis non sarebbe mai finita. Ma Noctua si sentiva in difetto e tergiversava ancora; Esra non vedeva l’ora, ma esitava forse per non separarsi da Sonja; e quest’ultima sembrava aver fatto, in pochi mesi, chilometri e chilometri di passi indietro. Adesso non voleva più partire. 

C’era di peggio. Ignorando tutti i consigli delle amiche, Sonja aveva preso a frequentare Leni, figurarsi, e le due erano diventate una coppia. Noctua ed Esra non se lo spiegavano: le due litigavano di continuo, ma Sonja ingoiava tutto e non si schiodava dal fianco di Leni. Era anche evidente che Leni disprezzava Sonja — eppure lei non se ne accorgeva affatto, o forse addirittura se lo faceva andar bene. Finché, un giorno, annunciò che l’avrebbe sposata; e che in cambio della sua mano aveva offerto una promessa assurda — avrebbe rinunciato alla violenza completamente. 

Inutilmente Esra e Noctua avevano cercato di farle capire che tutto ciò era irragionevole; avevano chiamato in ballo il dovere, l’amor proprio, la dignità; avevano cercato di farle fare dei distinguo, almeno fra la violenza arbitraria e quella compiuta per necessità o per difesa. Sonja non sentiva ragioni. Aveva deciso per l’astinenza totale. 

Da un lato era sempre la stessa, stesso modo di parlare e comportarsi, stesso umorismo e stesso carattere. Dall’altro lato era diventata, mentalmente, succube di Leni. L’annuncio del matrimonio non piacque né a Noctua né, per forza di cose, a Esra. 

Entrambe perciò sostennero separatamente con lei delle conversazioni davvero decisive, che avrebbero irrimediabilmente cambiato le cose.

La prima fu quella che Noctua ebbe con Sonja nello stesso momento in cui la prima ricevette la notizia del matrimonio della seconda. 

 

« Sonja… » disse lentamente Noctua per prendere tempo. 

Non aveva idea di come impostare quel discorso; a lei sembrava allucinante, a Sonja sembrava incomprensibile. Sonja non era affatto capace di vedere l’assurdità di quella situazione, e Noctua non voleva parlarle come a una matta, ma non voleva che si sposasse con quella donna sgradevole. 

« Rinunciare alla violenza tu? Odino è dio della guerra. Qui possiamo anche decidere che la guerra è finita per noi, ma là dove devi andare tu, ad Asgard… hanno bisogno di te, ok, ma anche di Gungnir ».

Sonja era molto infastidita, del che Noctua era dispiaciuta. Era sempre difficile fare a Sonja le dovute docce fredde, perché era cocciuta come un ariete, e se aveva deciso di commettere uno sbaglio che l’avrebbe fatta soffrire non c’era nessuno che fosse capace di fermarla. 

« Primo, voi ve ne andate ora che abbiamo deciso che la guerra è finita, vero? Io non ci posso andare in pensione? » Sbottò Sonja, con voce tranquilla ma estremamente offesa. Stava per arrabbiarsi. « Secondo, io non sono una serva. E non sono nemmeno Odino. Non mi sono ancora reincarnata, perciò ho tutto il diritto di scegliere di rimanere me stessa. Ho combattuto per cento anni. Ho fatto la mia parte in questo universo, e ora ho bisogno solo di amore nella mia vita ».

Noctua represse un sospiro depresso: non era facile già a cose normali vincere una discussione con Sonja, che era abituata a trovare sempre il modo di stare dalla parte della ragione e sapeva rigirare le frittate con un invidiabile movimento di polso. Se finiva per mettere la propria intelligenza al servizio di una pessima idea, era la fine, e nessuno poteva dissuaderla in uno scontro dialettico. 

« Di amore, » disse Noctua duramente. « Leni, è quello il tuo amore? È lei il distillato di tutti i tuoi sogni? Una donna che non ti rispetta, che non ti ama nemmeno, che ti offre la sua mano solo se prometti di non essere più te stessa, è lei l’amore che hai scelto? Tu hai sempre avuto una visione, Sonja, dal giorno che ricevesti quella visita del cavaliere d’oro, e come risultato non hai mai voluto amare nessuno perché quello che avevi con lui non l’avresti mai potuto avere con nessun altro, forse addirittura perché il tuo cuore aveva giurato di dedicarsi a lui esclusivamente. E dopo tanti sospiri, nostalgie e sofferenze… scegli Leni. Lei secondo te è il tuo nuovo destino ». 

« Ok, quindi io devo fidanzarmi con un sogno, un’ombra, devo vagare per l’universo cercandolo? » Protestò Sonja. « Noctua, porca puttana, l’oniroverso è infinito, letteralmente. Se non imbuco il mondo giusto alla prima, il che è del tutto probabile, devo restare dentro il posto in cui sarò capitata finché non troverò la Chiave Onirica per uscirne. E allora continuare a cercare, sbandando e rischiando di morire a ogni viaggio, in questo universo dove la Via di Saturno non esiste più… e magari arrivare nel mondo giusto al momento sbagliato, quando quell’uomo sarà morto da diecimila anni ».

« Questo è semplicemente impossibile, » esclamò Noctua con passione. « L’hai visto, hai visto il futuro, di conseguenza quella cosa accadrà. Tu lascerai Leni. E partirai, e un giorno lo incontrerai ».

Sonja sbuffò. Faceva così quando era ferita. « Sei una romantica, lo so, ma questo è solo un sogno! Non mi ricordo nemmeno la sua faccia! Non esiste nessun cavaliere d’oro! »

« Esiste! Sta aspettando te! »

« Non esiste! Smettila! » tuonò Sonja, così intensamente che Noctua si sentì vibrare il suo cosmo fin nel midollo delle ossa. Sonja aveva gli occhi lucidi. Ma si ricompose subito. « Non esiste. Non voglio più sentirne parlare o guai a te! Esiste Leni… e io la amo ». 

« Lei non ti ama, » insistette Noctua. Le pesava essere così spietata ora che Sonja stava per piangere, ma la sua amica ne aveva bisogno. 

« Non sai un cazzo, Noctua, » sibilò Sonja. 

« Va bene, diventa aggressiva e minacciami. Se ti va, puoi anche insultarmi. Ma io non autorizzo niente. Ovviamente tu sei mia parigrado al Nord, quindi puoi decidere di sposarti lo stesso, ma il tuo matrimonio non sarà riconosciuto da me in nessun caso. Non avrai mai la mia benedizione ».

« Tu non osare— »

« Sonja, puttana la miseria! » sbottò Noctua. « Ti rendi conto di cos’è Leni in realtà? Tutti quanti, inclusi i tuoi fratelli in armi più cari, si rendono conto che ti disprezza, solo tu non riesci a vederlo! »

« Perché cazzo vorrebbe sposarmi!? »

« L’hai chiesta tu la sua mano, o lei? »

Sonja rimase impietrita; cercò di non dare a vedere di essere stata colpita su una ferita aperta, ma Noctua la conosceva troppo bene. 

« Esatto. Tu, Sonja, Odino Padre, sei diventata una sottona, » esclamò Noctua, esasperata. « Leni ti vuole, non ti ama. Insomma è la stessa cosa di cui hai sempre accusato Esra. Solo che Esra non ti ha mai chiesto di promettere di cambiare completamente esistenza, non ti ha mai chiesto di rinunciare al tuo futuro, al tuo retaggio e alla reincarnazione, anzi ti ha sempre spinta da pari a pari a liberare il tuo potenziale ed essere una dea, superando le tue paure. Mi hai detto di aver paura di Esra, e mi sembra ragionevole, ma allora abbi paura anche di Leni. Nessuno che ama pretende che la persona amata lo compiaccia rinunciando a tutto quello che conta! »

« Credi che non lo sappia che è tutto sbagliato? »

Noctua rimase di sasso. Hugin e Muninn alla finestra si erano messi a gridare, il cosmo di Sonja era esploso, producendo una forte pressione, e aveva richiamato perfino altri corvi che gracchiavano come pazzi quasi forando i timpani… e quello era sembrato un momento di chiarezza. 

Noctua non riusciva a spiegarselo bene, ma le era parso che gli occhi di Sonja per un attimo fossero cambiati; del resto, forse era stato uno scherzo della luce, o dello stato emotivo di Noctua stessa. 

« Sonja… in che senso “lo sai”? »

« Non lo so in che senso, » tagliò corto Sonja. Quello stranissimo momento magico era già finito. « Non so perché l’ho detto ». 

« Io voglio capire— »

« Adesso basta! Forse sono stanca di essere me! Anche di Odino e di questi cazzo di corvi che mi hanno rovinato la vita!  Ho diritto a rinunciare a qualcosa che non mi piace più. Ho diritto a cambiare! E se voglio farlo per lei tu perché cazzo ti offendi così, sei gelosa? Per te, per voi, era meglio quando non volevo impegnarmi con nessuno perché così mi gestivate meglio? Fino a questo punto fate fatica ad accettare che io possa aver preso una decisione per conto mio? »

« No, questa non sei tu, » disse Noctua duramente.

« Solo perché ti è sempre piaciuto di me quello che credevi che io fossi, non quello che sono ».

A Noctua veniva quasi da piangere. Quella era stata una stilettata su un nervo scoperto. Sonja era brava in quelle cose, ma mai prima d’ora aveva rivolto quella sua abilità contro di lei. 

« Lo so bene che io e Leni siamo agli antipodi. Però sono innamorata di lei ». 

« Lo sei? Tu che non hai mai voluto innamorarti di nessuno perché non ne volevi sapere niente di relazioni, di colpo hai scelto… lei? Addirittura per passare dal sesso occasionale e dal nubilato a ogni costo al matrimonio in due minuti? »

« … Sì ». 

« Sonja, perché hai esitato? Dimmelo ».

« Perché mi fai ansia. Esra lo sapevo che non avrebbe capito, lo so che vuole il mio bene solo finché si allinea con i suoi desideri, ma tu… beh, sinceramente speravo che ti saresti sforzata di vedere oltre il tuo naso ».

« Io vedo oltre il tuo naso, forse, » si offese Noctua. 

« Puoi spiegarmi che cazzo c’è di male se mi sono innamorata? Cazzo, dico solo che… io devo rifarmi una vita, Noct, perché non— »

« Non verrai con noi, giusto? Resterai qui. Ti rimangi la promessa? Leni ti ha portato via anche questo con il suo egoismo? »

Noctua si sentiva ferita, e aveva molta paura. Aveva la netta sensazione che una tragedia si stesse per consumare sotto i suoi occhi, trovandola completamente impotente. Naturalmente poteva essere solo un matrimonio sbagliato che sarebbe durato poco… eppure aveva la netta sensazione che ci fosse dell’altro. Che ci fosse un enorme pericolo. 

« Non renderla così difficile. La amo, che cazzo ci devo fare? »

Era sembrata disperata. Era stato solo un attimo… ma quella era disperazione. Come se non volesse, ma non potesse farci niente.

Ma doveva essere tutta la sua immaginazione. Nessuno poteva controllare la mente di Sonja, era una delle sue prerogative di Pellegrina. 

« Ma non sempre l’amore fa perdonare tutto. Sonja, tu ti vuoi sposare. Sono cose che si disfano, per carità, ma a prezzo di tanta sofferenza. Senti… io ci credo che sei stanca, Odino ti fa una pressione sulla testa che io forse al tuo posto sarei pazza. Non ho diritto di dirti che se sei stanca dovresti sopportare comunque, e se ti vuoi sistemare, appendere Gungnir al chiodo, magari fare la mamma e basta… lo so quanto hai sempre desiderato figli, ma non hai sempre rinunciato perché nessuno era all’altezza di concepire con te? Leni non è all’altezza! È stata scorretta a farti fare quella promessa. E io non voglio che tu abbia un matrimonio infelice, ma secondo me è possibile ». 

« Questa è la prima volta che mi sento normale in un secolo. Lo capisci questo? »

Sonja aveva di nuovo gli occhi lucidi. E non aveva mai espresso in vita sua il desiderio di essere “normale”. 

« Dichiarami il tuo amore per lei ».

« Cosa? »

« Dichiarami il tuo amore per lei, se effettivamente lo provi ».

Un silenzio profondo che sembrava una fredda sciabola.

« Non ci riesci, vero? La semidea poetessa non è capace di mettere un sentimento in parole. Perché non lo provi. Tu stai soltanto scappando ». 

« Ne ho il diritto, se voglio ». 

« E invece no! » Gridò Noctua. Adesso basta. C’era un limite a tutto, ed era stato superato — Noctua si stava arrabbiando, cosa che non capitava praticamente mai. « Come puoi essere così ottusa? Quella donna ti ha portato via tutto quello che sei! Tu hai un dovere! Ci sono un intero popolo e dei guerrieri che aspettano pieni di speranza che tu combatta al loro fianco, e per loro! Non è solo il mio destino, è anche il tuo! Quello di qualsiasi Pellegrino! Veniamo scelti perché dobbiamo cambiare le cose, la luce ci illumina perché facciamo qualcosa in questo universo malato dove nessun altro può fare niente! Ma il tuo popolo ad Asgard aspetterà inutilmente! Aspetteranno per sempre per nulla, perché sei troppo occupata a sposare una donna che vale un decimo di te e che tira fuori solo il peggio di te, solo perché hai di nuovo paura dell’ultima Regalia! Decine di milioni di vite su qualche mondo potrebbero dipendere da te per quanto ne sai, perché sei una Pellegrina, è per questo che sei venuta al mondo — no, non hai nessun diritto di scappare! »

« Per te è più importante che io serva, piuttosto che io sia felice, vero? »

Noctua si trovò così disinnescata nella propria rabbia e sprofondata in un abisso di tristezza. 

Non si vincevano mai le discussioni con Sonja. 

« Voi ce l’avete con Leni senza nemmeno conoscerla solo perché siete incazzate che ho cambiato idea, che non la penso come voi e voglio restare qui. E non mi sembra che la cosa sia molto carina! »

Noctua non sapeva quasi più cosa dire.

« Puoi fidarti di me? Noctua, puoi fidarti? Come ti sei sempre fidata, come ti fidasti perfino quando ero tua nemica, non puoi… non puoi fidarti di me? »

Un altro giro completo di frittata. Per non farsi mancare nulla, a Sonja si era perfino rotta la voce. Effetto scenico. 

Noctua si sentiva perfettamente e completamente triste. Così tanto che le mani le si informicolivano, che le gambe non si volevano più muovere, che il sangue le era diventato freddo e che una tonnellata di piombo le era caduta sulle spalle. 

« Io non partirò subito, » disse, angosciata e sconfitta. « Aspetterò metà anno dal tuo matrimonio. E anche tu fidati di me e del mio giudizio. Perché se quello che vedrò in questa metà mi sembrerà ingiusto, io ti porterò via con me anche se dovessi combattere con te per farti venire ».

« Noctua, tu devi andare… hai sempre voluto farlo, ti sei sempre trattenuta per pensare a tutti i costi agli altri… »

« Sì, è mio dovere partire. Ma se io mi presentassi dai cavalieri di corsa trascurando tutti gli altri doveri che ho, sarei in difetto davanti a loro. E io ho un dovere nei tuoi confronti. Perché se non rispondo alla chiamata dell’amicizia, sono una miserabile. E non sarà una miserabile a Incarnarsi in Atena, ma una persona con la coscienza pulita ». 

« Significa che… non ti opporrai al fatto che mi sposo? »

« Non mi opporrò, mi impegno a fidarmi di te per al massimo metà anno, come ho detto. Ma la durata di questo accordo dipende interamente da quello che vedrò ». 

Erano scontente e tese tutte e due. E Sonja decise di andarsene, come faceva sempre in casi come quello. 

« Io ti voglio bene, Nina. Ma tu a te stessa non ne vuoi per niente, » le disse Noctua prima che varcasse la porta. 

Sonja non diede alcuna risposta. 

 

Un dialogo ancora più teso di questo avvenne poco tempo dopo, a tre giorni dalla data del matrimonio. 

Sonja e Leni avevano deciso di sposarsi il più in fretta possibile; Noctua aveva accettato di partecipare alla cerimonia come ospite ma non di fare da testimone, mentre Esra aveva rifiutato l’invito affermando di preferire la morte; si era presentata di rado ad Eilawa, e smaltiva la rabbia cavalcando in groppa a Tempesta. Dicevano tutti che stava cercando l’ultima Regalia che le mancava, e per il resto aveva già dato via tutti i suoi averi e i suoi oneri — insomma, si preparava a partire. 

Venne ad Eilawa proprio quel giorno dopo, dura e sudata dopo un viaggio intenso, e trovò Sonja a colpo sicuro: era seduta su uno dei rami più alti dell’ulivo sacro. Sonja si appollaiava sempre come un corvo. 

Accanto a lei c’era una bottiglia di whisky quasi finita. Imbracciava la chitarra e accompagnandosi cantava lentamente, con un timbro basso e quasi stonato, più parlato che cantato. Era pieno pomeriggio, e i suoi corvi dovevano essere in giro a raccogliere notizie, per tornare verso sera con un rapporto che ormai Sonja ascoltava a metà. 

 

Ed ora che del mio domani
non ho più la nostalgia
Ci vuole sempre qualche cosa da bere
Ci vuole sempre vicino un bicchiere
Ed ora che oramai non tremo
nemmeno per amore sì
Ci vuole quello che io non ho
Ci vuole pelo sullo stomaco

Sì… Stupendo
Mi viene il vomito
è più forte di me
Non lo so
se sto qui
o se ritorno
Se ritorno…

 

« Beh, adesso finalmente lo so, » disse Esra con voce molto dura, a mo’ di saluto. 

« Cosa sai? » chiese Sonja indifferente, o forse addirittura depressa, senza nemmeno voltarsi verso di lei. 

« La puttana ti ha fatto un incantesimo ».

« Occhio, Esra ». 

« Oppure cosa? » la prese in giro lei, avvelenata. « Hai promesso basta violenza, non trovi? Sei molto seria questa volta — non come le tue altre promesse, che sono sempre state più abbozzi. Perciò puoi solo starmi a guardare mentre la smembro ».

« Uccidila e la promessa sarà nulla. E ti strapperò la testa dal collo ».

Sonja faceva una certa impressione a infilare tutte quelle minacce con quel tono completamente monocorde. Non stava bene. 

« La canzone che stavi cantando adesso non è proprio lo stato d’animo di qualcuno che si sposa tra tre giorni con l’amore della sua vita, non ti pare? » insistette Esra. « Quella canzone è come ti senti veramente. Il tuo amore è frutto di un maleficio. Sei sotto ipnosi ».

« Io? » si beffò di lei Sonja. 

« Convengo che sia bizzarro. Sei investita dal potere di Odino e non puoi cadere sotto ipnosi — figurarsi per mano di una Pellegrina di bassa lega. Ma ci sarà sicuramente una spiegazione ».

« Sì, c’è una spiegazione, » disse Sonja. 

Bevve un altro sorso di whisky afferrando la bottiglia per il collo; avendola vuotata, la lasciò cadere con strascicata indifferenza. La bottiglia rotolò giù lungo il sentiero intagliato nel ramo, fino ai piedi di Esra. In tutto questo comunque Sonja non si era né alzata né voltata, ma aveva fatto sparire la chitarra. Faceva così quando si accorgeva che qualcuno la ascoltava quando voleva stare sola. Era il suo modo di protestare quando si violavano i suoi misteri — niente più musica, e chiusura totale.  

« La spiegazione è che diresti qualsiasi cosa, proveresti qualsiasi cosa e abbracceresti qualunque teoria assurda pur di non dover accettare la realtà ». 

Esra non rispose. La ferita per quelle parole le faceva così male che le sembrava che il cuore le stesse grondando sangue in dolorose contrazioni. Aveva il corpo ancora scosso dalla lunga cavalcata, e aveva solo voglia di caricare Sonja su Tempesta e portarla via da Leni. 

Sonja si alzò in piedi, barcollando un po’ perché evidentemente era ubriaca; finalmente si voltò verso di lei. Esra era esterrefatta — quegli occhi di quel verde che aveva sempre amato, occhi furbi e, strano a dirsi, dolci nel profondo, erano completamente inespressivi. 

« Visto che sei in partenza, salutiamoci, » disse freddamente. 

« Non brindiamo, però, » rispose Ez beffarda. « Mi sembra che tu abbia bevuto abbastanza. Non ti ho mai vista così sbronza ». 

« Sto ancora parlando con la Pellegrina di Dioniso? »

« Non hai la sbronza che piace a me. Hai la sbronza cinica… quella degli anziani ». 

« Sei pronta a viaggiare nell’universo senza Via di Saturno? A restare incastrata nel mondo dove atterrerai finché non trovi la Chiave Onirica per aprirne il Cancello? »

« Non avrò nessun problema a trovare il mondo giusto al primo colpo ».

« Vero, » disse Sonja. La sua espressione si deformò un po’, ma era impossibile capirne il motivo. « Perché tu sei un Navigatore… in qualche modo ».

« Già, » fece Esra con tono di sfida. Ma non assecondò la provocazione. 

« Bene, ci siamo salutate. Ora vai. Viaggiare è quello che ti piace di più in assoluto. Non capisco perché tergiversi ancora ».

« Perché sto aspettando te ».

Anche se il corpo le tremava, Esra non distolse lo sguardo. Sonja lo sostenne senza nemmeno scomporsi. Al più, sembrava demoralizzata. Come se avesse sentito arrivare una dichiarazione d’amore e la cosa l’avesse depressa. 

« Ma tu non hai più sogni, Sonja? Non pensi più alla gloria, allo splendore? Da quando hai rinunciato all’ambizione? »

« Ez, ti devi calmare ». 

« No, non mi calmo! » Sbottò Esra. « Perché sei ridotta così? Hai deciso di abbracciare la tua bella sposa giunonica del cazzo e tutta la vita senza emozioni e senza cambiamenti che ti promette. Io e te eravamo rivali e migliori amiche. Abbiamo sempre gareggiato per tutto, abbiamo fatto una marea di cazzate in tanti anni, ci siamo messe in guai di ogni genere, con Noctua che veniva a salvarci alzando gli occhi al cielo. Correvamo ballando per i campi terrorizzando i contadini, fino a che non stramazzavamo a terra. Facevamo corse di cavalli, duelli che scuotevano la regione, la corsa alla scalata di una montagna, ci sfidavamo a distruggere gli asteroidi da strafatte, per passare il tempo andavamo in incognito a far impazzire qualche popolano e ogni volta improvvisavamo una storia diversa, andavamo a caccia di draghi e poi facevamo il fuoco insieme e li mangiavano e dormivano accanto sotto le stelle, dopo esserci ubriacate. Ma a un certo punto… sono diventata un po’ troppo per te, vero? Non riuscivi più a stare al mio passo… eri stanca, non eri più te stessa, eri depressa anche se lo nascondevi a tutti, e non sapevi più chi eri. E allora io ero troppo. Tu a un certo punto sei cambiata, Sonja. E io ormai per te rappresentavo una vita con cui volevi chiudere, e siccome ti vergognavi di essere così codarda allora non mi volevi più. E poi, » sibilò quindi con profondo disprezzo, « è arrivata quella nullità di Lenuccia, a parlare proprio a quella parte di te che si era arresa da tempo. Non si canta mai nulla sulle dee dell’abbondanza, non ti pare? »

« Tecnicamente, un proemio dedicato all’Abbondanza è l’ideale nel genere pastorale ».

Esra afferrò la bottiglia vuota da terra e la scagliò contro Sonja con una velocità inaudita, che né Noctua né Sonja stessa avevano mai potuto eguagliare. Ma non aveva mirato davvero e lei. La bottiglia si infranse sul legno, a pochi centimetri dal volto di Sonja. 

Lei non si era neanche mossa, e non aveva cambiato espressione. Sembrava morta. 

« Tu non… »

« Io non? » la sfidò Sonja, atona. 

« È vero, non hai mai nemmeno tremato, tu. Mentre eravamo sdraiate sull’ulivo tu guardavi per aria, io guardavo te. Ti guardavo cavalcare con la lancia, e tutto, i capelli, la schiena, il culo, gli addominali… era troppo. Era un tormento. Ma tu hai sempre solo pensato a quello che avevi nella testa tu, per forza — a Odino che cazzo gliene frega, lui ha cose più importanti di cui occuparsi, e nessuno è degno di lui. Tu pensavi ai tuoi pensieri, alle tue canzoni e alle tue considerazioni filosofiche. Ma lo so che tu le cose le Senti. Non potevi non sapere. Hai… sempre fatto finta di niente. Ma lo sapevi che ero innamorata di te ».

Per un attimo a Esra sembrò che un’espressione ferita attraversasse gli occhi pietrificati di Sonja. Fu così breve, però, da farle concludere immediatamente di esserselo solo immaginato. 

« Sapevo che eri attratta da me. E quel problema l’abbiamo evaso più di una volta. Del resto il tuo discorso dimostra che in fondo mi hai sempre considerata solo un’altezzosa. Ti piaceva la sfida, non me. Ti piaceva che non ero tua, e volevi avermi, non amarmi ».

« Quante cazzo di bugie sei capace di dire per non farti mettere con le spalle al muro! E non menti a te stessa, sei troppo intelligente, tu sai di dire bugie. E le dici lo stesso. A me ». 

« I patti stabiliti furono che avremmo fatto sesso solo in amicizia, lo concordammo insieme. Eri in violazione, tutto qua ».

Esra era ferita, ma soprattutto era sbigottita. Sonja era crudele ora come era capace di essere solo con un nemico, e la cosa non le faceva provare la minima emozione. 

« Non ci potevo fare niente! Come puoi essere così glaciale in un momento simile? Perché? Io ti amo! »

« Appunto per questo. Io non ti amo. Io amo Leni ».

La rabbia di Esra stava crescendo, ma il suo cosmo, come da un po’ di tempo a quella parte, restava nascosto, percettibile solo attraverso un tremito nel suolo, proprio sotto i talloni.

« Ogni parola una bugia? Lo so cosa provi per me. Lo sento! Diverse canzoni che canti ultimamente dicono chiaramente che è a un altro amore che pensi, certamente non a quello verso Leni ».

« E tu pensi che quell’altro amore sia tu ».

« Esatto ».

« Pft, » fece Sonja con gelido sdegno. « Quanto vorrei che la smetteste di psicanalizzarmi in base alle cagate che strimpello per passare il tempo ».

« Tu stai rovinando tutto… » 

O voleva piangere, o voleva ucciderla. Esra non riusciva a decidersi. Il suo fisico internamente, insieme con l’anima, era lacerato da due bestie di colore diverso. 

« Sì, è vero che sono mentalmente a pezzi, » la interruppe Sonja. Il discorso sembrava emotivo, ma il tono di voce e l’espressione erano di ghiaccio. « Perché sono qui a cercare di accettare che viaggerò su Stella Natalis per sempre, eternamente inseguita dalla bile nera, mentre voi, le mie migliori amiche, andate dove dovete andare, verso qualcosa di più alto. E tu vedendomi così non vieni sfiorata dal pensiero di capirmi, preferisci darmi tutte le istruzioni per essere un’altra, una simile all’idea che ti sei fatta di me, e inventarti la storia che sono stata sedotta con un incantesimo pur di non accettare un no. Quindi… mi dispiace. Ti voglio bene, ma non voglio questa relazione. Adesso è stato un rifiuto piuttosto letterale, quindi spero che smetterai di insistere ». 

Esra era allibita. Sonja aveva fatto sì, mesi prima, dieci passi avanti… ma poi ne aveva fatti cento indietro in breve tempo — da quando era arrivata Leni. 

Sentiva che un cancro le stava divorando le interiora, moltiplicandosi a velocità allarmante. 

« Queste paure tu le avevi superate mesi fa! Adesso ti sono tornate per colpa di Leni! »

« Comunque sei tu che rovini tutto, Esra. Il nostro gruppo, la nostra vita ».

A Esra si sbarrarono gli occhi e si chiuse un po’ la gola. 

Stava perdendo il controllo? Erano i prodromi di una crisi alla quale non ci sarebbe stato rimedio? E peggio ancora… Sonja sospettava o aveva addirittura sempre sospettato — e ora la stava provocando di proposito?

Esra non era in grado di non raccogliere. Sentiva che il cervello le stava diventando un grumo d’acido. 

« Tu… tu mi stai odiando, ora. Perché dichiarandomi ho fatto un casino. Ti ha cambiata a tal punto questa tua donnetta? A tal punto da farti diventare crudele con chi dici di voler bene? Parli come se l’avessi fatto apposta a innamorarmi di te! »

« Avresti dovuto impedirti di innamorarti di un’amica ». 

« Come puoi pensare che si possa fare una cosa del genere? »

« Con la Bruciatura. Io l’ho fatto ».

Esra non seppe cosa rispondere, e trascorse diversi attimi in silenzio, a bocca aperta. La Bruciatura era un incantesimo antico che si poteva praticare con delle rune piuttosto semplici; una cancellazione della memoria irreversibile che permetteva all’utilizzatore, a dispetto di qualsiasi fattore di rigenerazione, di eliminare dal proprio cervello ogni traccia di un pensiero specifico. Per esempio di un amore. 

Sonja fece un passo in avanti, come a volersene andare, ma il cosmo di Esra esplose per un attimo e la Pellegrina di Odino si fermò, guardando intensamente in faccia Esra come se fosse stata una nemica mortale. 

« Che cazzo dovrebbe voler dire questa cosa? La Bruciatura è una cosa da santoni mezzi mummificati che devono rinunciare alle passioni terrene! Tu non— » 

Fu allora che tutto il peso di una tragedia senza rimedio ricadde sulle spalle di Esra, piegandole la schiena e per poco annientandola. 

« Tu mi hai Bruciata ».

« Sì ».

Esra si sentiva gli occhi lucidi, le guance in fiamme e un gelo spaventoso in gola e nel petto. Si avvicinò a Sonja a grandi falcate aggressive, finché non fu a un palmo da lei, ad abbaiarle in faccia. 

« Perché? Dimmi perché, cazzo! »

« Io non sono di nessuno ».

Sonja non indietreggiò e non si scansò neanche di un millimetro. Eppure sarebbe stato semplice gonfiarla di botte, ora che aveva fatto quella promessa assurda.

« No… no, no… no! Tu— tu sei saltata su così da sola, come niente, e ci hai fottute tutte e due! » pianse amaramente Esra. « Avremmo potuto avere un futuro insieme, tu hai deciso— »

« Già, io ho deciso. Per lo stesso principio per cui se rimanessi incinta il parto o l’aborto sarebbero decisi solo da me. Perché un futuro a due non esiste se uno dei due non vuole, e io non volevo. Contesta anche questo, e saprò con certezza di che pasta sei fatta realmente ».

« Se mi amavi prima di Bruciarmi… come cazzo è possibile che tu non volessi un futuro con me!? »

« È possibilissimo. Non credo nelle relazioni, credo nell’amicizia. Tengo più a quella che ad altre cose, e in effetti la preferisco. Non volevo perderti come amica tra le fauci di quella bestia incostante e decisamente patetica che chiamano “relazione”, » spiegò Sonja, perfettamente calma. « In più ci sono anche un altro paio di fatti che mi hanno fatta decidere così ».

« Quali fatti? »

« Per prima cosa, stavo soffrendo eccessivamente ».

A Esra si mozzò quasi il respiro. Il cancro nero dentro di lei ancora cresceva, e adesso era gelido, puzzava, era marcio. « C-come? » 

« Ez… basta prendersi per il culo. Finché ti cercavo i primi tempi, quando ero innamorata di te… eri ostile, ti comportavi come se io ti facessi schifo, mostravi di considerarmi una persona odiosa, una montata. Queste cose, se ti ricordi, me le dicevi spesso. Una volta ti chiesi di andare a bere insieme e mi hai detto di sparire. Era doloroso, e volevo che finisse. La Bruciatura è stata impulsiva, è vero, ma gli amori non corrisposti tendono a fare un po’ troppo male per ragionare bene. Non ti pare? » 

Quell’ultima provocazione travolse Esra con la potenza di uno tsunami. 

« Il mio non era disprezzo, cretina! » Fu il suo grido roco e piangente. « Io ero—- tu mi intimidivi. Tutta quella roba era solo… solo… timidezza. Se tu mi avessi confessato cosa provavi prima di farti una cazzo di Bruciatura—! Tu dovresti essere quella brava a capire le persone? »

« Solo quando ragiono bene. In altre parole, quando non me ne frega un cazzo. E di te mi fregava eccessivamente. Più che di chiunque altro, » rispose Sonja con apatica schiettezza. I suoi occhi erano di nuovo molto tristi. « Ma vedo che anche tu sei una di quelli che pensano che io sia infallibile o che cazzo ne so ».

Esra ormai stava singhiozzando e aveva fatto un passo indietro da lei, mentre tutto il resto del suo corpo voleva andare avanti, stringerla anche se di colpo una parte di lei la detestava così tanto. « Io… mi spaventavi… eri più potente di me, e avevo paura che tu stessi giocando con me — te lo vedevo fare con tutti, perché io avrei dovuto essere esentata? »

« Beh è una cazzo di situazione tragica, non ti sembra? »

Esra sentì chiaramente la rottura microscopica nella voce di Sonja. Quello era dolore. Cioè, come voleva ancora credere la parte di lei che non si era ancora annerita… cioè una porta aperta. « Ma adesso ci siamo parlate, no? Possiamo riprovarci! Mandare a monte il matrimonio— »

« Non provo più quel tipo di amore per te, Esra, » la fermò subito Sonja. « La Bruciatura non può essere disfatta ».

« Va bene, decidiamo che è colpa mia, ok… al solito. Ma tu? Dopo la Bruciatura hai passato anni a sapere che ero innamorata di te, senza mai dirmi una parola in merito. Ero così importante per te come amica, dici? E ti sei divertita a essere mia “amica” mentre mi tenevi tutto nascosto o, per dirlo meglio, mi prendevi per il culo? »

« Senti chi parla ».

« Scusa? »

« Fino a prova contraria, anche tu ti sei tenuta nascosta la tua cotta per anni. L’abbiamo fatto tutte e due per lo stesso motivo: paura di perdere l’altra. Non ho intenzione di implorare il tuo perdono per un comportamento che hai tenuto anche tu, » le disse Sonja severamente. In un altro momento forse Esra avrebbe potuto percepire in lei le tracce occulte di un cuore spezzato. Ma in questo momento, invece, non capiva quasi più niente. « In più sei un po’ una specialista nel nascondere le cose. Di solito sono io quella che viene accusata di avere una serie di segreti, ma tu… »

Il cuore di Esra precipitò fino a terra. 

« Di che cazzo stai parlando? »

« Dell’ultimo e più cruciale motivo per cui ho deciso che non volevo una relazione con te. Del fatto che mi sono sempre domandata come hai ottenuto il potere della Navigazione. O di quella macchia nera sotto il mignolo del tuo piede sinistro, che non se n’è mai andata ».

Esra aveva il viso in fiamme e il cervello congelato. « Cioè mi guardi i piedi mentre dormo? »

« Tu hai la bile nera, Ez ».

Le due belve di diverso colore impazzirono dalla rabbia e il cosmo di Esra si strappò a brandelli. Poi rimase lì a pezzi, ad esplodere miseramente e in modo confuso, a nascondersi invano dentro il suo corpo, a languire come se le stelle che lo componevano stessero sanguinando; e Esra sentiva arrivare l’esplosione finale di una stella, quella che avrebbe cancellato la sua identità dalla faccia della terra; sentiva chiaramente di starsi sfuggendo, di non essere più grado di disporre di sé stessa. Aveva paura, quella poca Esra che era rimasta — ma quell’altra Esra era furiosa, e chiedeva vendetta. 

« Ed è stato Saturno a renderti un Navigatore. Solo lui potrebbe offrire questo potere a qualcun altro, nell’oniroverso chiuso. A questo punto, capisci, anche io mi incazzo un po’. È dall’inizio che ce lo tieni nascosto, che ci fai correre un rischio mortale senza pensare di informarci, per non parlare del fatto che avresti potuto contagiarmi una delle volte che abbiamo fatto sesso. Magari riesci a farlo perché hai una bassa concentrazione, o perché ti rigeneri più velocemente di quanto la bile possa spandersi, per carità. Tutto un po’ precario, però, non ti pare? Se tu un giorno lo decidessi, potresti sospendere la rigenerazione e perderti completamente ».

Esra spariva sullo sfondo, sparata nel vuoto dell’universo sottoforma di brandelli, di cadavere sbocconcellato. Qualcun’altra prendeva il suo posto. E stava sospendendo la rigenerazione. 

« Adesso c’è un’ultima cosa che devo chiederti, » disse Sonja. Le tracce del dolore precedente non erano sparite, ma le aveva soffocate con un atteggiamento sprezzante e imperioso. Ma Esra non era più capace di pensare a queste sottigliezze: l’altra Esra aveva solo voglia di ucciderla. « Sei passata dalla parte di Saturno intenzionalmente, come tanti che cercavano un potere più grande, o è stato contro la tua volontà? »

« Quindi vuoi sapere se devi avere pietà di me o odiarmi. È questo tutto ciò che posso avere da te, amica? »

« L’amicizia è finita in entrambi i casi. Sei una bomba a orologeria, e se andassi incontro alla completa Nigredo saresti un pericolo troppo grande ».

« Credi di potermi uccidere? ».

« No, ti sto esiliando ».

Forse la vecchia Esra sarebbe rimasta traumatizzata a vita da un discorso come quello e dall’essere chiamata bomba a orologeria senza possibilità di recupero, nonché da quell’ultimo anatema. Non la nuova Esra. 

« Pensi di farmi uno sgarbo? » Rise l’altra Esra. « Mi fai schifo. E mi fa schifo anche Noctua, la brava ragazza a tutti i costi, tutta lance spezzate e comprensione — o magari dovrei dire paternalismo. Rimpiango il tempo che ho perso cercando di integrarmi con voi — non potevo certo integrarmi, io sono diversa, migliore, e molto più potente di voi due! Ma vediamo se riesco a risponderti… Sono grata di avere la bile nera, e se questo comporta il tuo disprezzo significa soltanto che sono sulla strada giusta. Sì, io ho scelto tutto questo di mia iniziativa! Quando mi sono trovata Saturno in persona davanti, nel punto dove ha iniziato a infestare questo mondo, ho capito che quella era la porta aperta su un sogno molto più grande ». La vecchia Esra, mezza morta, si chiedeva con un angolo superstite di mente perché mentire su quell’argomento, perché non ammettere che era stato un incidente, perché scegliere la solitudine. Ma non poteva farci niente. « Il potere che ho ottenuto in questo modo tu non lo vedrai neanche in sogno. Pellegrina suprema… e io sono solo una povera Pellegrina superiore, certo che non mi volevi… certo, Sonja, perché è sempre e soltanto la tua altezzosità che ti fa rifiutare le relazioni — in compenso poi hai scelto un essere inutile per moglie. Quanto avremmo potuto essere grandi, il terrore di tutto l’oniroverso, se solo tu— »

« Io ho scelto di non avere quel futuro con te. Ne ho il diritto inalienabile. Che cosa avresti voluto che facessi, che mi mettessi con te anche se non volevo solo per non ferirti? Avresti preferito una cosa del genere? »

« Beh, considerando che ti sposi con quella insipida troia solo per consolarti di esserti condannata a rimanere su Stella Natalis, potevi benissimo metterti con me per non farmi star male, » si beffò di lei Esra. « Sei una bugiarda cronica, Sonja. Mi fa schifo vederti così! Lo sai benissimo qual è la verità. Tra qualche anno ti scoprirai infelice, perché ti renderai conto che in fondo, anche se tu non fossi sotto un incantesimo, l’hai fatto comunque solo per scappare. Perché sei debole. Tu, sposata? Hai paura del tuo destino e hai rinnegato te stessa scegliendo una vita che a condizioni normali non ti piacerebbe. L’hai ammesso tu stessa di essere stanca. Perciò, povera misera Leni, mi dispiace, ma tua moglie ti ha scelta soltanto perché sei riposante ».

Sonja non ebbe nessuna reazione quando Esra la afferrò per il collo. Nemmeno quando si rese conto che le mani di Esra erano diventate nere, e continuavano ad annerire fino alla spalla, e i suoi occhi avevano cambiato colore. 

« Sei debole. Di “supremo” non hai un cazzo. Non sarai mai l’Incarnazione di Odino, e tutte le stronzate sul popolo che ti aspetta di cui Noctua ti riempie la testa — beh, non devi soffrirci più, perché tanto cosa combineresti mai anche se raggiungessi Asgard? Potrai anche sentirti stocazzo, ma sei solo un piccione che si finge un corvo. Toglimi solo una curiosità prima che io me ne vada nel mio tristo esilio, » aggiunse con voce estremamente strafottente. « Quella canzone… sai benissimo quale. A chi è dedicata se non a me? Chi è la tua musa, dimmi? » 

« Non è una cosa che ti spetti sapere, » rispose Sonja, fingendosi indifferente a dispetto della mano stretta saldamente intorno al suo collo.

« Oh, adesso ho perso l’autorizzazione a conoscere i tuoi segreti? »

« Non ce l’hai mai avuta ». 

Esra lasciò andare il collo di Sonja, con la caricatura grottesca di un gesto amorevole e di un’ultima carezza sul viso. 

Era ormai diventata quasi completamente nera e benché di lei a quel punto segnalava un cambio completo di persona; la sua furia era calma, i suoi occhi erano coltelli, i suoi tempestosi ricci rosso fiamma sbattevano col vento attorno al volto macchiato di nero di una persona diversa. 

« C’è una cosa che devi considerare, » disse con voce flautata, dietro la quale si percepiva il segno metallico di una minaccia sincera. « Ora non vorrai farlo, ma prima o poi ci penserai. Vedi, tu mi hai accusata di volerti cambiare, ma poi lo vedi con chi ti stai sposando? Io ti ho sempre amata com’eri, provavo addirittura — a torto, certo, ora lo so — un misto di meraviglia e timore guardandoti. La tua Leni… ha voluto il tuo giuramento di rinunciare a te stessa in cambio della sua mano. A lei fa schifo tutto quello che sei stata finora. A lei tu fai schifo, ti ha gettato un maleficio solo per punirti di quello che le hai fatto. E gode di sposare una tua versione umiliata e diminuita, perché questo era il suo piano fin dall’inizio. Oso anche dire che si prenderà il suo tempo per distruggerti, ma alla fine lo farà, invariabilmente. O arriverò prima io, esattamente con lo stesso proposito. In entrambi i casi, senza far uso di violenza, ti ritroverai impotente. Comunque, prenderò l’ultima Regalia e prima di partire tornerò da te ».  

Sonja le rivolse uno sguardo duro. « Fammi quello che vuoi e peggiora ulteriormente la tua situazione, Esra. Ma io non ti amo più, e non ti amerò mai in futuro — anzi, in questo momento mi fai tenerezza. Confermi il destino inesorabile che avevi già addosso quando ci siamo conosciute. Bruciarti è stata una buona idea ». 

Le due donne, entrambe ferite a sangue, si scambiarono un ultimo sguardo di affetto che ormai volgeva per sempre all’odio. Poi, Esra se ne andò.

 

*


Due giorni dopo,
la sera prima del matrimonio

 

Per due giorni Esra non si era vista in nessuna delle città del Nord, così che si poteva presumere che avesse intenzione di attenersi all’esilio; ma né Noctua né Sonja ci contavano particolarmente. 

Noctua era di pessimo umore. Le cose erano andate proprio come non si era mai nemmeno azzardata a temere. Sentiva la mancanza di Esra, si sentiva il cuore spezzato per quel che era successo a entrambe, la storia della Bruciatura l’aveva demoralizzata… e in più, Sonja si sarebbe sposata il giorno dopo. Ormai Noctua aveva promesso a Sonja che avrebbe rispettato la sua decisione, ma le sue riserve in proposito si erano solo moltiplicate.

La sera prima del matrimonio, Noctua aveva convinto Sonja a mollare un attimo Leni e a bere qualcosa con lei sulla grande terrazza illuminata che dava sulla valle. La vedeva terribilmente stanca. Abbassò le luci, cosicché il cielo galattico splendeva di più e l’ambiente era più riposante per lei. Bevvero del vino — in effetti, Sonja ne bevve fin troppo — e parlarono poco. La profezia di Sonja si era avverata: era la fine del trio. Noctua si sforzava di non sentirsene arrabbiata… di concludere che era andata com’era andata, ma non ce la faceva ad accettarlo. 

Nessuna delle due si era accorta che c’era qualcosa di strano nel vino di Sonja. Da esso non emanava niente di insolito. Eppure era avvelenato. 

Due ore dopo Sonja annunciò che sarebbe andata a letto perché si sentiva ubriaca. Noctua considerò che aveva bevuto molto, ma non era mai stata in vita sua così sbronza da cadere a terra tentando di alzarsi dalla poltrona. Disse che non era niente, ma nel dir così le si incrociavano gli occhi; in più, sudava, tremava e gemeva — strano a dirsi — come se fosse stata eccitata. 

Casa di Noctua aveva una camera degli ospiti che era stata molto spesso la camera di Sonja. Noctua accompagnò l’amica fino alla camera, la sorresse mentre vomitava e la aiutò a lavarsi i denti, quindi la mise a letto; lì la vide strusciarsi un po’ come un’ossessa per poi cacciare un sospiro sofferente e addormentarsi sul colpo. Noctua la coprì, le sistemò meglio la testa sul cuscino e tornò in terrazza, a riflettere su tutte le schifezze che erano successe, sperando che avrebbe finito per farsene una ragione. 

 

Un paio d’ore dopo Noctua si alzò, sentendosi adesso un po’ alticcia anche lei. Non aveva concluso assolutamente niente — aveva solo scoperto che una parte di lei, repressa, era terribilmente arrabbiata, e che un’altra parte, soppressa con ancora maggiore violenza, voleva andarsene, solo andarsene e chiudere con Stella Natalis. I bei ricordi che aveva su quel mondo si scontravano con quell’orribile sensazione derelitta. Alla fine, dopo aver smaltito la sua promessa a Sonja, avrebbe dovuto partire da sola. E semplicemente non aveva mai creduto di doverlo fare un giorno, e ora aveva paura. 

In automatico, decise di andare a trovare Sonja, anche solo per guardarla un momento mentre dormiva — e in quel modo, in fondo, dirle addio. Un addio morale più che fisico, almeno per ora, ma uno che bruciava come acido. 

In corridoio colse, al buio, un movimento bizzarro. 

Fu solo un momento, ma era assolutamente certa di aver visto Esra che schizzava fuori dalla camera degli ospiti e poi si lanciava giù al volo dalla finestra. Le parve perfino che le avesse scoccato, al buio, uno sguardo di sfida. 

Le venne quasi un tuffo al cuore. Si precipitò verso la camera degli ospiti. 

 

Noctua dovette fare due o tre passi nella stanza per poterci credere davvero. Quando infine arrivò la realizzazione, gelida, dovette impietrirsi dove si trovava, col cuore che mandava uno stridore metallico e l’intero soffitto che le crollava addosso. 

Sonja era completamente nuda, sdraiata a pancia in su sul letto neanche troppo disfatto — così da dare l’idea di non aver opposto resistenza. I vestiti erano sparsi in giro, strappati. I polsi, incrociati, erano legati alla testa del letto tramite dei tralci di vite che sembravano fatti di ferro. Non esibiva ferite, né sangue come traccia di ferite rimarginate, ma era quasi incosciente. 

Il cosmo di Esra riempiva la stanza con una pressione oppressiva, colmando il cuore di Noctua di ansia. 

Dioniso. Era ovvio. Esra aveva drogato il vino. 

Quasi senza respirare, con le mani che tremavano, Noctua si adoperò con la magia per spezzare i legacci di vite, poi si strinse forte Sonja al petto mormorando una formula di guarigione. 

Qualsiasi cosa avesse fatto di preciso Esra a quel vino, Sonja ne aveva bevuto un sacco e il potere di Esra era di per sé molto forte, perciò ci volle quasi un’ora per guarirla. La notte proseguiva indifferente. 

Durante il tempo della guarigione, Noctua esaminò il corpo di Sonja: non c’era bile nera. Niente sulle mucose, niente fra le dita di mani e piedi, nulla da nessuna parte e dietro alcun possibile risvolto; Noctua le rasò perfino i capelli, che ricrebbero subito, per controllare anche il cranio. Certo, se non avesse avuto tutti quei tatuaggi sarebbe stato più semplice escludere la contaminazione, ma anche il suo cosmo era pulito: il che significava, con un margine ragionevole, che la bile di Esra non era fuoriuscita e non aveva toccato la pelle di Sonja… era quasi una fortuna che non si fosse difesa da Esra, perché se l’avesse fatta sanguinare non sarebbe stata così fortunata. 

Finalmente Sonja chiamò il nome di Noctua senza impastare troppo le sillabe; sembrava che l’avesse smaltita, almeno in parte. 

Noctua non riuscì a rispondere, fra le lacrime silenziose.

« Perché cazzo piangi, » gemette Sonja, di nuovo stretta nel suo abbraccio. « Come se io non avessi mai fatto sesso ubriaca ».

« Sonja… » fu il pigolio debolissimo di Noctua. « Questa è un’altra cosa… »

« Sono venuta. Quindi vuol dire che mi piaceva ». 

« Non funziona un cazzo così e non fare finta di non saperlo solo per darti addosso come al solito! » sbottò Noctua in lacrime. Poi, si accorse di colpo delle implicazioni. « Tu non— Tu….! Sonja… Non sei venuta davvero. Vero? »

« Quanto sei carina. Ti ricordi i miei giorni fertili. Esra non li sapeva ». 

« No, no, no… no, non ci credo. C’è sempre la possibilità che non sia bastato e che tu non sia— »

« Lo sono ».

« No. No, no ».

« Sono incinta, Nocti ». 

A Noctua si congelò la spina dorsale e si riempì il fegato di doloroso, freddo veleno. 

« Io… » balbettò, incapace di trovare la cosa giusta da dire. « Io posso aiutarti. Se tu… »

« Non ce n’è bisogno. Terrò questa bambina. La chiamerò Lara. Tutto stabilito giusto un attimo fa. Ora datti una cazzo di calmata ».

Da un lato Noctua provò sollievo: aiutare Sonja ad abortire l’avrebbe uccisa dentro. Ma dall’altro lato, quella era una catastrofe. 

« Sei sicura? »

« Sì ». 

« E Leni? »

« Se non sarà d’accordo, romperò la promessa e non la sposerò ».

Noctua non sapeva cosa pensare. Ovviamente quell’atteggiamento era una buona notizia: Noctua non aveva mai smesso di pensare che ci fosse uno sporco trucco alle spalle di quella relazione così assurda, ma… se Sonja era disposta a rinunciare a Leni per la bambina, voleva dire che aveva ancora il suo libero arbitrio, e che quindi, contro a ogni apparenza, non era sotto un incantesimo.

Niente di quegli ultimi giorni era stato né una buona né una cattiva notizia. Solo una notizia. Qualcosa che cadeva fra capo e collo come una ghigliottina. 

« Cosa vuoi fare ora? » chiese Noctua gentilmente mentre Sonja rompeva l’abbraccio e si alzava dal letto. « Vuoi mangiare? Uscire? Fare un bagno? Vuoi che stia qui… o che me ne vada? »

« Perché mi tratti come un’inferma? » si offese Sonja. 

« Nina… » Non sapeva come dirlo. Forse andava detto e basta. « Nina… lei ha abusato di te ».

« Noctua, non essere ridicola. Esra è semplicemente una nemica. Da quante decine e decine di anni faccio la guerra? In guerra, chiunque praticamente vuole “abusare di te” ogni cinque minuti. Sai quanta gente mi ha rotto le ossa, dato un pugno in faccia o chiamata con svariati epiteti misogini? Non sono ipersensibile su queste cagate ». 

« Ipersensibile? Cagate? » gridò Noctua, con la gola stretta. « Smettila di fare così, ti prego. Minimizzare sempre tutto così che io non mi preoccupi. Non sempre sei Odino, lo devi accettare. A volte sei una persona. Una donna. E io sono un’altra donna, una che ti vuole bene. Ma tu tieni sempre tutto dentro, adesso la tua migliore amica ti ha stuprata e tutto quello che hai da dire è “La chiamerò Lara”!? Appoggiati a me per una volta! Lo so benissimo quanto sei forte, non mi devi dimostrare niente, puttana la miseria! » 

« Noc— »

« Io voglio uccidere Esra, cazzo! » gridò Noctua. « Adesso. Andiamo. Cavalca con me, la possiamo prendere se la inseguiamo adesso! »

« Cavalca più veloce di chiunque, e ha troppo vantaggio ».

« Allora cerchiamola! »

« Non siamo all’altezza di Esra. E io comunque per giuramento non potrei fare niente. In più, se mi uccidesse morirebbe anche Lara ».

« Allora io— »

« Tu niente, Noctua. Esra è capace di ucciderti senza versare nemmeno una goccia di sudore. Non lo senti il suo cosmo qui intorno? Tu devi partire, ti stanno aspettando ». 

« Tu non puoi obbligarmi ad abbassare la testa di fronte a una cosa così atroce! »

« E tu non puoi obbligarmi a vederti morire ».

Noctua si congelò, rimanendo come scioccata. 

Sonja andò in bagno, a lavarsi il viso e i denti. Usò parecchio collutorio. Dalla porta aperta Noctua notò che guardava in basso, come se non avesse voluto guardarsi allo specchio. Di colpo Sonja le pareva rotta, a pezzi. 

« Perché sta succedendo questo… tutto questo…? » gemette Noctua, piangendo lacrime abbondanti. 

« Perché le favole finiscono; e, per lo meno quelle tradizionali, finiscono pure male, » rispose Sonja uscendo dal bagno. « Nocti, voglio che tu mi ascolti bene. Non cercare lo scontro, lascia che si muova lei per prima. Atena è la dea della guerra strategica. Quindi fatti venire un po’ di buon senso e un po’ di pazienza, e osserva il nemico prima di partire in quarta. Non vieni meno a me, se rinunci a vendicarti. In effetti, non ho bisogno che nessuno mi vendichi, e lo considero anche offensivo. Ora pensiamo ad altro. Io domani mi sposo e non so se— »

« Non sai se? »

Noctua sospese il pianto, come per ascoltare con la massima attenzione. Sonja aveva ripensamenti? Stava per decidere di non sposare più Leni?

« CAZZO! »

« Sonja!! »

Il discorso non arrivò mai alla fine: Sonja, urlando e digrignando i denti, era caduta sulle ginocchia e si era piegata in avanti finché la fronte non le aveva toccato terra. Era in preda a un dolore atroce, sudava, sputava sangue e aveva le guance rigate di lacrime. Un dolore che le donne mortali in gravidanza non conoscevano: quello del parto di un Pellegrino. 

Noctua si sentì il cuore impazzire. Le gravidanze di immortali e Pellegrini potevano durare da mezz’ora, per bambini che crescevano velocemente, a mezzo millennio per quelli che crescevano con maggiore lentezza — ti pare che a Sonja dovesse toccare proprio il primo caso?

« Porca puttana— »

« Cosa sta succedendo? »

« STO PARTORENDO! »

« Stai pa— ma— ma— no, no, io mi ammazzo ».

« Aiutami! »

« Oddioddioddioddio sì aspetta aspetta oddio— vuoi… un bicchier d’acqua? »

« Noctua! »

« Oddio oddio oddio sì sì vieni, sdraiati qui… oh mamma… oh universo, perché tormenti così i tuoi soldati più forti? »

 

*

 

Noctua ci mise un bel po’ a lavarsi dopo quella procedura; e meno male che aveva studiato per fare da ostetrica in casi del genere! Il processo era complesso, pieno di sangue, e condotto mentre la partoriente gridava come un’ossessa in preda a un dolore quasi inconcepibile.

Uscì dal bagno finalmente con le mani pulite, anche se con i vestiti un po’ sporchi di sangue, e si fermò per sorridere di cuore: Sonja era sul letto, con i cuscini tirati su a mo’ di schienale, e stringeva la bambina con una dolcezza che non aveva mai esibito con nessuno.

« Beh, emh— dal concepimento al parto sono passati tipo novanta minuti, non male. Credo che sia una di quelle figlie di Pellegrini che crescono in pochi mesi ».

« Sì… »

Sonja non rispose altro. Era stanca e dolorante ma sorrideva di un sorriso luminoso mentre guardava la bambina, che aveva già l’aspetto di una bimba  mortale di qualche mese; gli occhi di Sonja scintillavano ed erano dolci e rapiti. 

Noctua si sedette accanto a lei e Sonja subito, con la bambina in braccio, si accoccolò accanto all’amica. Noctua le accarezzò un po’ i capelli, poi sfiorò le guance di Lara. 

« È davvero una bella bimba. Ma poi che roba! È la tua fotocopia ».

Lara aveva gli occhi identici a quelli di Sonja e i capelli lisci come i suoi — ma di un intenso rosso fiamma. Anche i lineamenti del viso erano quelli di Sonja — e quant’era carina mentre si crogiolava nel cosmo della madre. I figli di Pellegrini e immortali, in effetti, non dovevano essere allattati, ma venivano alimentati col cosmo; e Sonja era molto stanca, così Noctua la aiutò bruciando il proprio, in modo che Lara potesse crescere bene. 

« Beh ne sono successe un po’ stasera, » disse Sonja.

« Ah, guarda, zitta. Se ci penso mi viene voglia di esplodere ». 

Ma Sonja sembrava felice. Noctua sapeva che le piacevano i bambini e che prima o poi ne avrebbe voluto uno. Perfino quando conquistava una città si assicurava sempre che le scuole e gli orfanotrofi fossero ben supportati, e i ragazzini di Eilawa non avevano paura di lei come l’avevano gli adulti, anzi, la adoravano. Sapeva sì tutto questo, ma ugualmente vedendo Sonja così felice Noctua si sentì sciogliere il cuore dopo tutte quelle preoccupazioni. La situazione era ugualmente dolce-amara, venata di sofferenza, ma quanto bruciava di luce calda il cosmo di Sonja. 

« Secondo te c’è il rischio che Lara abbia la bile nera? »

« Non posso dirlo con certezza, ma non credo. Nelle gravidanze fra immortali il figlio è concepito con la partecipazione dello spirito di tutti i genitori, ma il corpo che permette la nascita fisicamente è solo uno. Il tuo, che è sano… ho controllato ».

« Spero che sia così ».

« Cosa vuoi fare con Esra? »

« Le manderò Hugin e Muninn per farglielo sapere ».

« Pensi sia la cosa migliore? »

« Beh, da un momento all’altro tornerà per finire il lavoro con me. Se sa che Lara è figlia sua e non di Leni, per lo meno lei la potrebbe risparmiare ».

« Tu sei… tranquilla in merito? »

« No. Ma che devo fare, ammazzarmi? »

« Sei ancora decisa a mantenere la promessa a Leni? »

« Che stai dicendo? »

« Se Lara fosse in pericolo un giorno, tu… non vorresti combattere per lei? E se Leni non volesse riconoscerla… »

« Infrangerei qualsiasi giuramento per Lara ». 

« Mi fa piacere ».

« Ma per ora le cose restano così. E Lara ha bisogno anche di Leni ». 

« Non è vero ».

« Non ricominciamo ».

« Ok… hai ragione ».

Noctua sospirò in modo da non farsi sentire, ma doveva ammettere che, per lo meno, quel discorso era promettente. Non c’era sicuramente nessun incantesimo o veleno alle spalle dell’innamoramento di Sonja, altrimenti non avrebbero potuto essere ammesse simili eccezioni… altrimenti avrebbe voluto abortire. 

Restava il fatto che, per quanto riguardava Noctua, Sonja si fosse innamorata di una persona cattiva, che non le voleva neanche veramente bene. Ma magari… ci avrebbe sbattuto le corna, come le capitava spesso, e avrebbe capito lo sbaglio. O magari era Noctua a sbagliarsi — ormai non lo sapeva neanche più. 

Poi ce n’erano ancora molte di cose: l’esplicita minaccia di Esra, Saturno che non era affatto tramontato, quell’incognita sulla partenza… ma per ora Sonja era radiosa, come non era da molti anni, e Noctua si strinse più a lei, sentendo di volerle quasi troppo bene e di rischiare di esplodere. 

 « Beh, comunque Lara ha bisogno senz’altro di una zia. Le zie fighe single sono la base del processo educativo del fanciullo ».

« Vattene da Stella Natalis, Noct ».

« No. Prima c’è quella famosa metà anno. Considerami come se fossi i servizi sociali e comportati bene ».

Risero entrambe. Anche la piccola Lara, investita da quel cosmo gioioso, fece un buffo sorriso sdentato. Ora non era il momento di pensare ad altro. 

 

Chapter 5: Gagarin

Notes:

Camus time!

Un trigger warning: tentato suicidio

Ho fatto molta ricerca per scrivere questo capitolo, specialmente su questa etnia dei Chukchi e come vivevano durante l'epoca sovietica. Spero che sia tutto credibile. Ho dovuto fare anche ricerche sui test atomici e la cosa non è stata piacevole, ma questo capitolo è molto importante per me perché è stato scritto durante la mia tipica, pessima, granitica depressione psicotica estiva

Nel prossimo capitolo arriva Milo :3

Chapter Text

PARTE 2 - NOVA


Anni dopo, in un altro Mondo

Siberia nord-orientale, 1962

 

Accomodato al posto di guida del furgone, Rydgev buttò la sigaretta per accendersene subito un’altra. Aveva il viso violaceo per il freddo, gli occhi a mandorla scontenti e torvi, guanti di pelle di tricheco e un gran colbacco di pelliccia stecchito dal gelo. Aveva i baffoni sporchi, a furia di espettorare o giallo o rosso, a causa della malattia che, gli era stato riferito, lo stava ammazzando.

Procedeva a rilento nel clima ingiurioso dell’Artico, rientrando al villaggio su al nord, e ancora più ad est, dopo la periodica tappa di approvvigionamento ad Anadyr. Portava i rifornimenti che erano necessari al meccanico del villaggio, un bell’assortimento di cibo in scatola, parecchie stecche di sigarette, taniche di gasolio, sale e alcolici. Inoltre c’era anche una pelliccia di seconda mano in ottimo stato che si presumeva avrebbe placato la moglie, che condivideva con suo fratello minore. Ultimamente erano stati costantemente sbronzi entrambi e non avevano fatto altro che venire alle mani; il che era un fatto che Rydgev ammetteva come consolidato, non diversamente dall’inverno polare.

Flemmaticamente, ed emettendo dei grugniti davvero infernali, il furgone si faceva largo nella nevicata buia. 

Ma ad un certo punto Rydgev vide, in lontananza verso la costa, una vera e propria colonna di luce — sembrava quasi che nei nuvoloni ci fosse un buco a forma di disco, e che da questo scendessero chissà come bianchi fotoni angelici; impossibile che si trattasse del sole a quelle latitudini in quel periodo dell’anno, e in effetti appariva quasi come una luce cosmica. 

Ritenendosi completamente sbronzo e non interessandosi particolarmente al miracolo della natura a causa della lunga convivenza con la tubercolosi, Rydgev, il morto ambulante, non si scompose; però, in qualche modo si sentì come se fosse sul punto di morire, o forse di essere rapito da qualcosa a seguito di quella visione — e pensò di andare a controllare, come capita a chi soffra di una sbornia e una tristezza tali da sentirsi attratto da un’allucinazione che apre una porta fra due mondi.  

Malgrado non fosse una buona idea deviare dalla pista col rischio che la tormenta montasse e bloccasse le ruote del furgone con la neve, a Rydgev a questo punto interessava solo vedere quella porta di persona, chissà perché. Così, imboccò un sentiero appena accennato e cercò di dirigersi verso la fonte di quello strano miracolo. Dovette anche scendere, a un certo punto, e proseguire a piedi. 

Rydgev non aveva mai visto quella laguna, perché non gli era mai interessato divergere dalla strada, come al resto della sua gente negli ultimi tempi: nomadi incatenati a una bottiglia di vodka. Fu uno spettacolo davvero strano.

La laguna era un cimitero di balene, crepate o di morte naturale, o a causa delle orche, o a causa degli arpioni; stavano accasciate a decine e decine, o sulla terra ferma o sulla crosta di ghiaccio che si era già formata sul mare. Alcuni resti erano abbastanza ben conservati a causa del freddo. Siccome quello era un vero banchetto per gli animali carnivori dell’Artico, alcune balene erano ridotte al bianco dell’osso; altre, morte più recentemente, avevano ancora intatti certi enormi occhi inespressivi o tutte le budella che erano scrosciate fuori quando il loro cadavere pieno di gas era finalmente esploso — tutte schifezze gelatinose diventate vetro di un brutto marrone a -20 gradi. E faceva ancora caldo! Rydgev imprecò a questo pensiero. Ad ogni modo finì per rallegrarsi di avere con sé nel furgone la sega e l’accetta, perché, non essendoci in giro alcuno stronzo tricheco o orso polare, avrebbe potuto ricavare un bel po’ di carne di balena. 

Per l’appunto, la laguna era illuminata; nevicava anche lì, ma quel tipo particolare di luce faceva sembrare che quei fiocchi di neve grandi come fragole fossero stelle che cadevano dal cielo, e su tutto era spolverato come zucchero una specie di alone di luce argentata. Così, per Rydgev, che in fondo se ne stava lì a dire “mah”, non fu difficile localizzare un cadaverino umano proprio accanto a un gigantesco capodoglio.

Rydgev si avvicinò, tossendo un po’ di sangue direttamente per terra. Guardò un po’ storto il capodoglio, un maschio di almeno 25 metri coperto di cicatrici, che lo guardava con l’occhio morto pieno di parassiti; se non era morto da tanto e non si era tutto spappolato sotto la pelle, c’era da ricavare un bel po’ d’olio. Non appariva particolarmente gonfio, e ciò era un bene, perché Rydgev non aveva nessuna voglia di vederselo esplodere in faccia. 

Non si considerava un uomo che si stupisse per poco, perché era da tempo che non gli importava più di niente, eppure quel cadavere di mostro marino simile a un sommergibile alieno lo scombussolò un po’.

Ma mai quando il cadavere di quel bambino. 

Era un bambino forse di otto anni, vestito leggero, coi capelli rosso sangue — un rosso che non esisteva affatto; era morto in una posizione fetale, accoccolato sotto un brandello di capodoglio forse nel tentativo di conservare il calore; ciò l’aveva ricoperto di ustioni e di piccoli parassiti. Era completamente cianotico. Ma come diavolo era finito lì un bambino? Un naufragio, forse? Poteva trattarsi di un piccolo sciamano? Nè russi né eschimesi avevano mai avuto capelli così scarlatti. 

Rydgev pensò che, prima di occuparsi delle balene in buono stato, fosse meglio prendere il bambino e seppellirlo come si deve — ma in quel posto? O gli conveniva portarlo a casa? Non sapeva proprio come regolarsi, il che era davvero assurdo, perché cosa importava, in fondo? Eppure non si levava dalla testa l’impressione che quel bambino non fosse normale. E che in fondo andasse trattato un po’ come un piccolo fuoriuscito celeste — come un asteroide magari, o una cometa. 

E, quando si accinse a prenderlo in braccio, si accorse che, soprattutto, non era morto. Il bambino infatti gemette, tanto che Rydgev si spaventò; dovette metterlo giù perché gli venne un accesso di tosse e per un po’ dovette sputare sangue sulla neve, piegato in due dal dolore. Gli sembrava che gli sarebbe uscito l’intestino dalla bocca. 

A quel punto, per istinto, si aprì il giaccone, prese il bambino in braccio e se lo avvolse addosso, infagottandolo meglio possibile; era praticamente come stringersi al corpo un piccolo blocco di ghiaccio, cosa che fece soffrire ancora di più i polmoni di Rydgev. Dimenticandosi completamente delle balene e perfino di quella luce strana, corse indietro al furgone per portare al più presto il ragazzino al caldo. Concentrato sulla corsa, con gli occhi stretti per la bufera di neve, non si accorse nemmeno della cosa più assurda di quella situazione: un’enorme aquila nera, che becchettava a scappatempo i resti di una balena, guardava la scena con interesse. 

 

*

 

Il vecchio Umky, attraverso le cataratte e lo stato confusionale che gli era rimasto dal condurre tanti anni di riti sciamanici coi funghi velenosi, guardò Rydgev con stupore. 

Erano passati due giorni da quando aveva portato il bambino mezzo morto al villaggio e in tutto quel tempo, che era un record per lui, non aveva toccato una goccia di alcol né una sigaretta. Gironzolava spesso intorno alla tenda di pelli, senza avvicinarsi, come se non fosse stato sicuro se chiedere o non chiedere. Finalmente quel giorno era venuto a chiedere.

« Si è svegliato il ragazzetto? »

Umky si grattò la testa canuta di sotto il colbacco. « È sveglio, ma è stato in un posto dal quale il suo corpo e il suo spirito devono ancora tornare del tutto. Dopodiché, essi dovranno ricongiungersi l’uno all'altro. E la cosa richiederà qualche anno ». 

Rydgev sapeva che Umky tendeva a vaneggiare: era quella situazione in cui non capivi se era il saggio del villaggio o se stava iniziando ad essere demente. Tutti lo proteggevano, però: oltre a essere pazzo e disprezzato dai più giovani a causa della sua fissazione con la tradizione, era anche un po’ dissidentello a volte, una cosa del tutto innocua, ma si sapeva bene cosa succedeva in Siberia a quelli che erano un po’ buffi. O stupidi. Di alcuni Chukchi che avevano lasciato il villaggio per estrarre il tungsteno si era persa ogni traccia. 

« Ha detto qualcosa? Il bambino ».

« Non parla. E non capisce la nostra lingua. Né il russo, il che depone a suo favore ».

« Piantala, nonno. Uno di questi giorni ti portano via ». 

Umky ci accendeva il fuoco coi volantini, perché diceva che perfino le sciocchezze avevano il diritto di ritornare cenere. Anche ora lo stava facendo: Rydgev lo vide appallottolare il compagno Lenin per ravvivare il focherello nel bidone presso il quale si stava riscaldando, fuori dalla tenda di pelli. A Rydgev piacevano i volantini. Erano pieni di speranza, anche se non era gratis. 

Umky era arrivato a un’età davvero veneranda per gli standard locali. I suoi genitori erano morti tutti e due poco dopo i trent’anni; e Umky ne aveva forse anche più di ottanta, con Rydgev che era il secondo più vecchio della comunità coi suoi sessanta. 

Rydgev pensava spesso che avrebbe dovuto essere già morto. Lo pensava da quando era un ragazzino. Un pensiero di morte completamente irrazionale che lo accompagnava da una vita insieme con una bizzarra sensazione… quella di dover ancora fare qualcosa.

« Come può essere arrivato qui? » chiese Rydgev. 

« Per un motivo ». 

« Seh ».

« Magari per farti smettere di ucciderti ».

« Sono un morto che cammina, Umky. Sembro te ».

I due ridacchiarono, e Rydgev si sedette accanto al vecchiardo. Umky sembrava una specie di matassa di pelli e pellicce che tenevano a fatica in forma un insieme di rughe e di arti tremolanti. 

« Senti, Umky ».

« Sì ».

« È uno sciamano, è vero? Il piccoletto ».

Umky sembrò doverci riflettere. « Quello che discende dagli dei può essere difficile da classificare. Sciamano, non sciamano… eppure un tempo tutti sentivano la stessa voce ».

« Ma tu pensi che sia roba degli dei ».

« Decisamente ».

Umky aspettò che Rydgev finisse di tossire. Quella volta durò parecchio.

« E perché ha i capelli di quel colore? Com’è… possibile? »

« Per un disegno che ci sfugge, o, come dicono alcuni per semplicità, per caso. O magari non è uno sciamano, ma un cavaliere. Loro si riconoscevano dai capelli, » rispose il vecchio. 

« Cavaliere? Dai, Umky, siamo nel 1962 ». 

« Li chiamavano così, due secoli fa, l’ultima volta che qualcuno li ha visti ».

« Ma erano roba dello zar? »

Umky ridacchiò. « Ma che zar. Erano… »

« Non lo sai ».  

« Non fumi? »

« Non voglio fumare ». 

« Perché non vuoi fumare? »

« Perché non voglio morire ».

Umky annuì sorridendo e iniziò a parlare come in meditazione. « Dicono che sul mondo, molto lontano da qui, è stata costruita una cortina. Cioè un muro, di mattoni e filo spinato — o di pensieri foschi. Chi è dentro è dentro, e non potrà mai esser fuori. Fra te e il mondo esiste la stessa cortina. Ma non sei il solo. Abbiamo tanto viaggiato per ridurci infine così. “Circondario autonomo”, » disse con un dileggio pieno di disprezzo. « Chi è dentro è dentro. E quelli che sono fuori sono scomparsi ». 

« Umky, non riprendere a raccontarmi degli allevatori di renne, » lo ammonì Rydgev. « Non puoi incazzarti così se i tempi cambiano ».

« Cambiano, sì. E ora il compagno Krusciov ci ha insegnato ad estrarre il midollo dalla terra con la dinamite, ma penso che tutti quei soldi servano solo a stampare altri volantini, e altri libri dove sono scritte solo bugie, » borbottò Umky. « Non sentiamo più la voce di cui ti ho parlato. La vodka ci ottunde i sensi. I rubli ci parlano, al posto degli dei. I desideri della nostra gente non sono più secondo natura. Siamo corrotti come i russi, e li aiutiamo a trivellare. La nostra terra, che un tempo parlava senza sosta, ora è piena di buchi, e i buchi sono pieni di scorie nucleari. Veniamo rastrellati quando serve loro altra carne da macello da armare, e il tuo scopo a quel punto è sopravvivere abbastanza a lungo da essere abbandonato. Tu mi ascolti perché ti dispiace che io sia vecchio, o che i giovani mi lancino le bottiglie vuote. Forse anche per nostalgia… di un tempo in cui si poteva sognare. Adesso sei disposto a credere agli sciamani? Solo perché ti accorgi che siamo morti già da tempo. E perché tu stesso due giorni fa eri morto, e ora sei vivo ». 

« Umky… senza discorsi deprimenti, vorrei solo capire com’è possibile che questo bambino sia finito al cimitero delle balene. Devi pur avere qualche teoria. È chiaro che non è russo, e non è nemmeno Chukchi, e in Alaska nessuno ha i capelli rossi in quel modo ».

« L’ha portato lei, » disse Umky indicando verso un punto in alto… e seguendo quell’indicazione, Rydgev vide un’aquila nera appollaiata in cima a una capanna di lamiera, da dove poteva tener d’occhio la tenda dove si trovava il bambino. 

« Allora è un uomo-aquila ».

« Non so, » ammise Umky. « È un miracolo che non sia morto per il freddo.  Per di più la notte si scopre, come se le coperte di pelle gli facessero caldo.  Non vuole portare i guanti, ma le sue mani non sono fredde. Ma forse nessuno di questi miracoli è casuale ».

« Spiegati ».

« Te lo spiegherò. Ma ora sento che vuoi incontrare il ragazzino. Non è necessario ascoltare il vento e cercare di tradurlo per capire che te ne senti responsabile. Per questo lo affido a te. Sarai suo padre, e lui tuo figlio, e col passare del tempo morirò e tu sarai il nuovo matto del villaggio ».

« Umky, non possiamo tenere nascosto in eterno un bambino simile, » protestò Rydgev. « Lo porteranno via… forse sarà addirittura qualcuno del villaggio a denunciarlo ».

« Hai molta paura di esserne separato, » sorrise Umky.

« Ho paura che sparisca, » ammise Rydgev. 

« Come mai, dimmi? »

« Beh penso che sarebbe… un peccato ». 

« Non è questa la ragione ».

« Vorrei credere che il bambino sia un segno. La cosa che devo fare. Se non devo più farla, sono praticamente morto ».

« Entra, Rydgev. Vai a conoscerlo, » disse Umky con un sorriso sdentato, indicando l’ingresso della tenda. 

 

La yaranga dove Umky viveva con due cani da slitta e nessun’altra famiglia, malgrado tutto il villaggio fosse suo parente, era la più piccola. Le poche provviste che gli bastavano erano conservate dentro buste della spesa vecchie quanto lui. C’erano tre capannucce rettangolari ricoperte di pelle di cervo, e dentro erano accumulate altre pelli per dormire al riparo dagli spifferi. La tenda era spesso piena di fumo perché a Umky dolevano tanto le ossa e sentiva il desiderio del focolarino acceso quasi 24 ore.

Il ragazzino era seduto sulle pelli di renna che erano state preparate per lui dentro una delle capannucce. Uno dei cani, che a quanto sembrava non se n’era mai andato di lì in due giorni, dormiva con la testa in grembo al bambino, che lo accarezzava con aria assente. 

Rydgev rimase stupito. Il bambino era stato coperto di ustioni da gelo e forse poteva anche aver perso le estremità, invece le aveva ancora tutte quante e gli restavano addosso, dopo solo due giorni, poche ferite. 

Sul fatto che fosse uno straniero non c’era nessun dubbio. 

I capelli avrebbero dovuto essere una matassa dopo quello che aveva passato, invece gli ricadevano ai lati del viso come sangue che scorreva sul vetro. Rydgev notò che qualcuno li aveva rasati su una piccola area corrispondente alle tempie. 

La pelle non era olivastra ma pallida, gli occhi non erano scuri e a mandorla, ma grandi, con le ciglia lunghe e le iridi di un color ambra quasi cremisi. Stava seduto ben dritto con naturalezza, aveva i polsi sottili e le mani affusolate, e aveva negli occhi un’indescrivibile espressione ultraterrena. Rydgev i figli li aveva persi tutti da giovani, o perché erano morti o perché erano scomparsi, e non si intendeva particolarmente di bambini perché era sempre stato un vagabondo più che un padre… ma era abbastanza sicuro che quello fosse il moccioso più bello che esistesse nel creato. Tanto affetto ispirava quel viso che Rydgev finì perfino di intenerirsi, malgrado ci fosse anche qualcosa di inquietante. 

Era già abbastanza la sensazione di stranezza che emanava dal bambino, ma non era tutto lì: Rydgev guardava stupefatto l’interno della yaranga, dove fluttuavano tanti piccoli cristalli di ghiaccio che scintillavano come stelline. 

« È magia? » chiese a bassa voce. 

« Ho paura di sì ».

« Paura? »

« Paura. Per lo stesso motivo per cui avevi paura per i suoi capelli, » rispose Umky. « Il tempo della magia è finito per sempre per questa terra. È il tempo dell’atomica e del partito ».

Quello spettacolo lo aveva disarmato nel profondo. Colto da un moto d’affetto che non riusciva in nessun modo a controllare, e sentendosi come infestato dalla bizzarria di quel bambino magico, come se fosse stato già pronto a chiamarlo suo figlio e ad appartenergli per il resto della sua vita, si inginocchiò lentamente davanti a lui.

Il bambino sembrava ipersensibile ai movimenti, come se avesse avuto paura di qualcosa. Così quando Rydgev si inginocchiò vicino a lui si irrigidì, e l’uomo notò che i cristalli di ghiaccio erano diventati spine e si erano tutte girate con la punta rivolta verso di lui. 

« Rydgev, » disse indicandosi. Lo ripetè più volte, con la voce più dolce che gli consentisse la sua voce da alcolizzato. 

Il bambino lo guardava dritto negli occhi, e così facendo lo inchiodava fin nel profondo dell’anima. Sembrava che non fosse capace di decidere se Rydgev fosse una brava persona… o sembrava, in effetti, che il piccolo si aspettasse che sarebbe successo qualcosa di sgradevole. Gli adulti dovevano avergliene combinate di tutti i colori, pensò Rydgev.

A quel punto notò che il bambino aveva qualcosa al polso. Sembrava un braccialetto di plastica resistente, che Rydgev non aveva notato quando lo aveva salvato. 

Rydgev tese la mano, e il bambino cambiò espressione e si rannicchiò, come fa chi aspetta il dolore. Rydgev rimase fermo in quel modo per un po’, sforzandosi di infondere, nel proprio brutto muso cotto dal gelo, l’espressione più conciliante che gli riuscisse produrre. 

Alla fine il bambino, per chissà quale magia, si lasciò prendere delicatamente il polso. Fece una smorfia, come se gli avessero dato fastidio i calli sulla mano di Rydgev. Ma non si ribellò quando egli estrasse il coltellino a serramanico. Rydgev guardò bene il braccialetto, e concluse, chissà per quale intuizione, che questo provocava al bambino un dolore incalcolabile. Sapeva leggere un po’ i caratteri occidentali, ma non capiva cosa c’era scritto: c’erano dei numeri e dei codici, e poi la scritta “asile psychiatrique pour mineurs”. 

Rydgev tagliò il braccialetto, e il bambino emise un gemito piuttosto forte, strizzando gli occhi e rannicchiandosi ancora. Ma poi, dopo pochi minuti, sembrò stare molto meglio. 

Fu allora che Rydgev fu colto da una crisi della tubercolosi. Iniziò a tossire senza riuscire più a fermarsi, una tosse urlata, roca, soffocante, ed era sicuro che i suoi polmoni fossero del tutto infestati. 

Il bambino si alzò lentamente e, uscito dal baldacchino di pelli, si avvicinò a Rydgev. Senza parlare gli pose la mano all’altezza dello sterno. Per un attimo sembrò che la yaranga fosse illuminata da una pepita d’oro su cui si riflettesse il sole. Rydgev smise di tossire. 

L’uomo era stupefatto. Il bambino lo guardava con la massima tranquillità. Poi si portò la mano al petto e disse: « Camus ». 

Si era dunque spezzata una strana tensione morbosa. Per di più, il bambino aveva prodotto un piccolo, timido sorriso. 

Rydgev si sentiva le lacrime agli occhi. Il petto non gli faceva più male. Non si ricordava nemmeno più la sensazione. 

Ma si ricompose. Era un nomade della steppa, non un americano. 

« Bene, piccoletto, non mi resta molto da vivere, ma se in questi tre o quattro mesi rimasti ti fa voglia, ti farei vedere un po’ il posto ».

Camus non poteva aver capito. Ma forse gli piacque il tono, perché gli sorrise di nuovo. 

Umky fece un sorriso rugoso. Alla fine Rydgev aveva ricordato il valore della propria vita. 

 

*

 

Rydgev non visse pochi mesi; in realtà, influenzato e protetto da quello che non sapeva essere cosmo d’oro, visse ancora undici anni. Durante questo decennio, lui che non aveva mai avuto a cuore niente dopo la morte dei suoi figli a parte bere fino a svenire, Rydgev non aveva mai bevuto né fumato. Per un po’ ebbe tremori in tutto il corpo e vomitò spesso, diventando incapace di dormire. 

Sentiva che doveva portare quel bambino da qualche parte, e che doveva proteggerlo dai russi. Decise perciò che sarebbe morto soltanto quando Camus fosse diventato capace di badare a sé stesso. 

Così non si staccava mai dal bambino, indipendentemente da quanto scettica fosse quell’ubriacona di sua moglie. Rydgev aveva ascoltato Umky, che era una cosa che non aveva mai fatto prima, e che nessuno al villaggio faceva più. Perciò, sì, probabilmente sarebbe stato eletto come successore alla carica di scemo del villaggio. Eppure aveva sempre saputo che dovesse esserci qualcosa di più in quella vita, e aveva l’impressione di intravedere quel qualcosa quando guardava quell’esserino magro. 

Rydgev lo portava dappertutto col furgone o con la motoslitta, gli aveva presentato ogni aspetto della vita del villaggio e gli aveva mostrato fin da subito tutto il territorio che aveva imparato a conoscere girando sempre ubriaco lontano da casa. Lo aveva messo in guardia da tante cose che il ragazzino trovava curiosando in giro, specialmente nella sua tenda: per la sicurezza del bambino aveva anche venduto la vodka e le sigarette che si era tenuto perché in fondo non aveva mai creduto di poter smettere davvero. Sua moglie era quasi impazzita a seguito di questa manovra. Un giorno il marmocchio trovò il Kalashnikov che veniva dal mercatino militare abusivo, e Rydgev si era rifiutato di fargli vedere come si sparava — aveva però dovuto insegnargli a smontarlo e rimontarlo su sua incessante insistenza. A Rydgev questa procedura non riusciva proprio benissimo, mentre il moccioso aveva imparato subito meglio di lui.

Camus era veramente un bambino magico e probabilmente aveva dieci volte il cervello di Rydgev, perché imparò a parlare abbastanza bene in due anni soltanto. Durante questi due anni, se gli mancavano i vocaboli, si ingegnava per farsi capire, e in questo era quasi geniale: una volta, appena adottato, per dire la sua età quando non conosceva i numeri in lingua, raccolse otto legnetti e li mise in fila; già così piccolo era un abile disegnatore, e disegnava sgorbietti semplici ma molto efficienti coi quali riusciva sempre a far capire cosa voleva. 

Rydgev andò apposta presso una città vicina a procurarsi fogli e carboncini, e il piccoletto tutto contento passava ore a disegnare. Una volta Rydgev lo portò a vedere una colonia di foche, e il ragazzino le memorizzò e le disegnò correttamente per tutta la sera; così, insieme videro anche altre colonie di animali, i nidi degli uccelli marini, i trichechi, le renne, e via dicendo. Il bambino era curioso di tutto, voleva toccare e smontare tutto ed era spericolato con gli animali — ma questi non gli facevano mai nessun male. Rydgev lo portava ovunque: avevano visto insieme miniere in disuso o in funzione, un gulag abbandonato, baie ghiacciate, piedi di immense montagne, i treni, le cittadine, le aurore boreali, porti e navi, e via dicendo… e Camus faceva sempre decine di domande, e non si dava pace finché non aveva capito un dato argomento. 

A volte però i disegni di Camus diventavano davvero strani. Anche se era chiaro che aveva imparato l’anatomia di tanti animali o la forma di tante cose, certe volte sembrava che gli si confondesse la mente: i ritratti di qualunque cosa, animale o persona presentavano di colpo deformità sconcertanti, e i fogli erano tutti riempiti da ossessive geometrie concentriche. Quando Rydgev riuscì a procurargli dei pastelli colorati, i disegni divennero addirittura inquietanti, colorati in modo tale da ricordargli certe notti agitate dopo aver provato una delle amanite di Umky. 

Rydgev pensò che era solo un bambino, non c’era da stupirsi di qualche disegno bizzarro. Ma col tempo tutto il villaggio si rese conto, invece, che il piccolo era davvero un mago. Egli aveva infatti delle visioni, e quando imparò a esprimersi bene raccontava di certe cose che vedeva che convincevano tutti quanti che gli dei avessero ripreso a camminare sulla terra, e si esprimessero attraverso di lui. Non aveva nemmeno dieci anni che tutti già gli chiedevano di predire il futuro o interpretare il passato. 

Per giunta il piccolo diceva di sentire costantemente molte persone strane che parlavano, e tutti avevano subito concluso che egli fosse in contatto con le forze della natura. A volte però queste forze erano, per la loro natura disumana, tanto crudeli da spaventarlo, e così gli succedeva di avere un accesso di terrore per poi diventare completamente muto, anche se muoveva un po’ le labbra per conto suo senza dire niente, con la testa un po’ oscillante e un’espressione vuota. La diagnosi di Umky era che ci fosse troppa magia sulle spalle di un bambino così piccolo, e che forse egli provenisse originariamente da un luogo di prigionia dove si era cercato di mutilare i suoi poteri. 

 

Una mattina prestissimo, nel buio pesto durante l’inverno polare, Rydgev trovò Camus già sveglio seduto fuori nella neve, dove un’enorme mandibola di balena decorata e conficcata nel terreno marcava il centro del villaggio.  Lo illuminò con la torcia, e per un attimo si spaventò — c’era sempre qualcosa di sconcertante nella presenza di quel bambino. Camus guardava in alto, e a Rydgev venne in mente che fosse lo sguardo con cui un bambino guarda la madre in piedi di fronte a lui. 

« Chi c’è con te? » gli chiese, sedendosi accanto a lui. 

« Noctua ». 

Rydgev non disse nulla.

« È una ragazza, » disse il bambino in tono severo, come a dire che Rydgev non riusciva a capire nemmeno le cose più ovvie.

« Non credo che ci tenga a farsi vedere da me, » disse Rydgev, cercando di adattarsi. « Descrivimela ». 

« È bella. È vestita di bianco, » disse il bambino, concentratissimo nell’esprimere in lingua Chukchi quello strano concetto che aveva in mente. « Ha i ricci… gli occhi come… uh… »

« Dai, prova ».

« Quando c’è la striscia, » disse Camus. « La striscia… quando ci sono le nuvole e si vede la striscia chiara ». 

Rydgev era molto impressionato: aveva sbagliato un paio di casi, ma faceva progressi.

« Grigi, » disse.

« Pfffff, » sbuffò l’impertinente. 

« Chi è questa ragazza? »

Camus non riuscì a rispondere. Di colpo gli scorrevano le lacrime, ma non diceva niente. 

 

E poi c’era la questione della sua magia di ghiaccio. Camus non aveva quasi mai freddo, ma soffriva molto il caldo, come se fosse stato una foca. Durante una crisi capitava che si ricoprisse come per magia da una crosta di ghiaccio, ma anche così surgelato la sua salute non ne risentiva. Non aveva mai avuto una volta né mani né piedi freddi. Questo fece pensare a Rydgev che, il giorno in cui l’aveva trovato, per essere mezzo morto di freddo lui voleva dire che era stato lì per ore, forse per giorni. 

Sembrava che non fosse capace di accettare che le cose deperissero, così aveva una tendenza assurda a disegnare quello che non voleva dimenticarsi, tra cui la ragazza di quella volta, ma anche a congelare alcune cose che gli piacevano — come accadde quando uno dei cani di Umky con cui giocava ogni giorno morì. Iniziò presto a rendersi conto che poteva creare delle figure anche col ghiaccio, ma da piccolo faceva dei veri obbrobri, come pupazzi di neve un po’ deformi; eppure sarebbe diventato un valido scultore di ghiaccio nel corso degli anni. 

Per questi motivi gli altri bambini erano sempre incerti tra il voler giocare con lui e l’aver paura di lui. Camus non era malvoluto al villaggio, ma sembrava che non riuscisse mai a inserirsi completamente. E inoltre, preferiva di gran lunga la compagnia dei cani. Ma, curiosamente, non ne desiderava uno proprio.

Quando non voleva che qualcuno si avvicinasse, emergeva dalla terra uno spuntone di ghiaccio a fargli da protezione, e purtroppo Camus era anche abbastanza scontroso, quindi la situazione si presentava spesso. Rydgev l’aveva pregato mille volte di smetterla di fare così, perché se alla fine qualcuno al villaggio si fosse offeso o fosse rimasto addirittura ferito sarebbero stati guai. Ma il ragazzino aveva fondamentalmente paura degli altri, e guai se qualcuno a parte Rydgev lo toccava o si avvicinava troppo. 

Per calmarlo e insegnargli la pazienza, Rydgev gli regalò un coltello da incisione e via via gli portava delle zanne di tricheco, senza pensare che avrebbe mai potuto imparare da solo a fare una cosa del genere; un anno dopo, gli aveva trovato nella tenda almeno trenta zanne di tricheco tutte incise da cima a fondo. I motivi erano stranissimi, come una collezione disparata e in disordine di tutte le cose che al bambino erano rimaste in mente ultimamente. Se un altro le avesse guardate, avrebbe diagnosticato un delirio. 

La situazione, in pratica, stava diventando sempre meno comunista, e Rydgev aveva molta paura che venissero a portare via il piccoletto. Perciò, anche se questo lo faceva sentire un egoista, gli insegnò appena possibile a non usare mai la magia per guarire qualcuno: ci mancava soltanto che arrivasse al governatore della Chukotka la voce di un guaritore miracoloso! Camus obbediva, perché sembrava che il pericolo di essere giudicato male non gli fosse estraneo… però si vedeva che soffriva a proibirsi di rendersi utile agli altri. Eppure era così scostante! Sembrava che le persone proprio non gli piacessero, e al tempo stesso desiderava sempre fare qualcosa per gli altri. Rydgev non capiva quanto in profondità scorresse il veleno dei suoi primi anni di vita.

Il ragazzino non aveva controllo su tutti i suoi poteri, come non ne aveva sulle crisi. Il ghiaccio si formava e si dissipava al di là del suo volere, rispondendo, forse, soltanto ai moti della sua anima dei quali magari neanche lui era consapevole. Non decideva lui quando avere una visione, al contrario gli prendevano tutto a un tratto; quando vedeva gli dei, spesso se ne sentiva minacciato o addirittura perseguitato, e secondo Umky questo succedeva perché ancora non sapeva parlare bene la loro lingua; diventava di colpo catatonico, e Umky aveva osservato che in quei momenti si era separato dalla propria carne e aveva intrapreso un viaggio dove volavano le aquile; a volte non gli interessava più niente, nemmeno le cose che gli piacevano, e Rydgev si faceva in quattro per stimolarlo a tornare fantasioso e curioso come prima, ma in quei casi si scontrava con una solida parete di ghiaccio. Camus era in grado di diventare davvero glaciale quando non voleva essere disturbato, ed era un tratto davvero fuori posto in un bambino. Piccole tormente localizzate o formazioni acuminate di ghiaccio si formavano contro il suo volere quando sentiva invaso il suo spazio. 

Per giunta, cresceva a velocità disarmante. Secondo le stime di Rydgev, stava crescendo di 6 centimetri l’anno, e quindi lui era un po’ preoccupato perché aveva paura che sarebbe cresciuto 6 cm all’anno per sempre, e che prima o poi sarebbe diventato un gigante: a quel punto i suoi capelli non si sarebbero più potuti nascondere. Allora i sovietici avrebbero detto che era un antisociale. E sarebbe sparito. 

 

Un giorno erano seduti nel furgone di Rydgev a bere tè da un thermos. Faceva un po’ schifo, e davanti al furgone c’era la distesa piatta del mare ghiacciato in una mattina estiva, di quelle quasi del tutto senza colori. Ma rimase per Camus un ricordo vividissimo anche da adulto. 

Una renna misteriosamente isolata, insieme col suo piccolo, si aggirava nei dintorni, senza degnare il furgone di nessuna attenzione. Camus l’aveva accarezzata a lungo, e quella si era prestata di buon grado. 

« Non mi hai detto dove abitiamo, » osservò l’undicenne. 

« Sì che te l’ho detto ».

« Quando fai finta di non capire sei stupido. Cioè… con una mappa. Non capisco dove siamo di preciso… rispetto agli altri ».

« Che ti importa di dove vivono gli altri? »

Ma Camus lo guardava con uno di quei suoi bronci offesi. Allora Rydgev sorrise e aprì lo scalcinato scompartimento anteriore, il cui interno era sporco, pieno di ciarpame, e dava l’idea di non essere stato aperto da tempo. 

Lì c’era un libro di scuola illustrato. Il suo unico tentativo di andare a scuola, quando una volta aveva pensato che al villaggio non ci voleva stare, e voleva andare in Russia. Rydgev lo sfogliò fino a raggiungere l’illustrazione a due pagine di una mappa naturalistica dell’Unione Sovietica.  

Camus aveva sgranato gli occhi e si era fatto mansueto. Come previsto, l’illustrazione gli interessava. Lo bombardò di domande: quanti chilometri c’erano da un’estremità all’altra, chi abitava di qua e chi abitava di là, come si chiamava questo o quell’animale. 

« Secondo te dove siamo? » gli chiese Rydgev. 

« Qui, perché c’è il tricheco, » rispose Camus indicando, correttamente, il punto più a nord-est di tutta la mappa, proprio sopra la Kamchatka. « Ma cosa c’è dopo? »

« Niente ».

« Non è vero. Hai detto tu che la Terra è tonda, quindi se uno esce di qua, » disse, indicando il bordo della pagina, « poi riviene fuori di qua per forza ». 

« No, saputello, e sai perché? Perché non puoi uscire “di qua”. Perché se lo fai sei morto. La Terra è tonda, ma non puoi andare dove ti pare. Ai confini dei posti ci sono tantissimi soldati col fucile ».

« Non è vero niente, » insistette la peste. « Se la Terra è una palla vuol dire che puoi camminare all’infinito ».

« Ach… » gemette Rydgev. « Quanto ti sbagli, piccoletto ». 

Camus non era per niente convinto, ma decise sportivamente di dargli un’ultima chance. « Quindi… siamo alla fine del mondo? »

« Già, è così ».

« Mmh ». 

Certo che sembrava proprio così: solo ghiaccio davanti, fuori dal furgone. Era come essere affacciati sul bordo del niente. 

Camus, desideroso di capirci qualcosa, strappò il libro dalle mani di Rydgev che glielo stava mostrando e cominciò a sfogliarlo con la massima concentrazione. Era tutto scritto in russo, ma quell’assurdo scricciolo aveva imparato praticamente anche quello.

« C’è tanta roba, qui, » disse.

« Certo. È un libro di scuola elementare ».

« Cos’è la scuola elementare? » si insospettì Camus. 

« Non ti piacerebbe. Ti fanno vestire come dicono loro, ti fanno cambiare le scarpe quando entri, ti fanno pulire e… » e qui assunse un tono apocalittico, « Ti devi alzare in piedi quando entra l’insegnante e sei obbligato a fare tutto quello che dice lui. Se per caso dice una sciocchezza devi far finta che sia vera, anzi fai piangere Lenin solo a essere sfiorato da questo pensiero ».

Camus era a dir poco inorridito.

« Quando diventi un Pionjer devi fare i lavori socialmente utili e aiutare i vecchi a mettersi la pomata sulle emorroidi, » proseguì Rydgev, divertendosi un mondo. « Alle superiori entri nel Komsomol e devi fare a gara con gli altri a chi segue meglio le regole durante l’addestramento militare, dove devi obbedire ciecamente al tuo capo. Se non lo fai, non sei un bravo comunista, e i cattivi comunisti vanno al manicomio ».

« Cos’è un manicomio? »

« È un posto dove vengono rinchiuse le persone che dicono quello che pensano e che rispondono male come te. Allora queste persone vengono prese da parecchia gente robusta e ricoverate nel manicomio. Lì gli fanno dei trattamenti, per esempio gli fanno le punture nella spina dorsale con delle sostanze che danneggiano il cervello, e quelli poi col tempo diventano comunisti e obbediscono ». 

Rydgev non avrebbe voluto parlargli di quella roba, ma era praticamente impossibile evitare di parlare di qualcosa con Camus. Sapeva come tirarti fuori tutto quello che preferivi non dire, e non era la prima volta che si interessava a discorsi da adulti. Però era anche leggermente divertente spaventarlo con quei discorsi sull’obbedienza. A Rydgev non era nemmeno mai riuscito punire il bambino quando si comportava male. Sembrava troppo un piccolo adulto che sapeva cosa stava facendo. 

« E non tornano a casa? »

« A casa mai, gli viene confiscato tutto ».

« E allora dove vanno quando escono dal manicomio? »

« Da nessuna parte ».

Rydgev aveva l’orribile sensazione che il ragazzino avesse capito anche troppo quel che gli era stato spiegato. Ma non sapeva dire in che senso. 

Camus si mise a curiosare nello scompartimento: aveva intuito perfettamente che lì erano conservate tante cose che a Rydgev sembravano interessanti anche se preferiva nasconderle. Trovò un volantino, dove era raffigurato un personaggio strano con un casco, che sembrava volare sopra  degli edifici. 

« Chi è questo? »

« Gagarin. Un astronauta ».

« Che vuol dire? »

« Vuol dire che poco tempo fa è andato lassù, » disse Rydgev indicando verso l’alto con l’indice. « È partito su una specie di aereo velocissimo ed è arrivato su, parecchio dopo il cielo. Poi è tornato giù ed è diventato un eroe ».

« Dopo… il cielo? »

« Fuori dalla Terra completamente, dove si galleggia nel vuoto. Dove ci sono le stelle. Quelle che vediamo noi così piccole perché sono lontane ».

« Sì, fin qui ci ero arrivato, » sbuffò il ragazzino con aria offesa. « Ma tu hai detto ieri che sulla Terra c’è la gravità ».

Come se la ricordava quella! L’avesse mai detto: gli era toccato lasciar cadere degli oggetti sulla neve da varie altezze fin quando Camus non si era dichiarato convinto. 

« E allora? »

« E allora se lui “galleggia” dev’essere perché non c’è la gravità dopo il cielo ».

« Uh, no, » ammise Rydgev. 

« E allora Gagarin non può essere tornato, come faceva a scendere? »

« Senti— non lo so, » gettò la spugna il pover’uomo. « Ma lì vivono gli dei, ed è un grande privilegio poterci andare ».

« Ma qui c’è scritto boga njet. “Non c’è dio qui” ».

« Emh, » prese tempo Rydgev. « Lo diceva per prendere in giro i capitalisti, che dicono che il loro dio è nello spazio ».

« Ma non era il denaro il dio dei capitalisti? Se ci fossero i soldi nello spazio ci sarebbero già andati gli americani ».

Sconfitto, Rydgev pizzicò la guancia a Camus, che però protestò: non aveva ancora capito. 

« Senti, quello che dici non ha senso, » concluse il bambino, infervorato. « Tu hai detto che non si può andare dove ci pare, e poi Gagarin va oltre il cielo senza problemi. Hai sempre detto che io parlo con gli dei, però Gagarin ha detto che non c’è nessuno lassù, e io ci credo. A me sembra che tu te le inventi sul momento ».

« Certe volte ti butterei in mare. Ma tanto manco ti sembrerebbe fredda, » sospirò Rydgev.

Ci fu una pausa, durante la quale Camus si mise a rimuginare guardando fuori, come nel vuoto, con le sopracciglia aggrottate. 

Sembrava che avesse sentito qualcosa. 

Rydgev se ne accorse troppo tardi, quando prima udì il ruggito di una turbina, poi vide volare come un corvo un aereo da guerra lontano, all’orizzonte; subito coprì gli occhi al bambino, e lui li strinse più forte che poteva, chinandosi su Camus per proteggerlo mentre il cielo esplodeva di un biancore insopportabile. 

Malgrado il punto dell’esplosione fosse lontano, un’onda anomala e violentissima di polvere rossa investì il furgone e lo scosse a tal punto da ribaltarlo. Rydgev proteggeva col proprio corpo il bambino dai vetri del parabrezza infranto e dall’urto contro il tettino deformato. Non si capiva più nulla. 

 

Quando tutto si fermò, Camus sgusciò fuori dal furgone danneggiato e Rydgev, malgrado avesse decisamente qualcosa di rotto, lo seguì faticosamente fuori. 

Il piccolo, con parte degli abiti distrutti e lievemente ustionato, ma come indifferente allo stato del proprio corpo, era rimasto pietrificato di fronte a una colonna di fumo rovente simile a un fungo infernale, a parecchi chilometri da lì. 

Poi si sentì un orribile lamento. 

Rydgev cercò di trattenere Camus, ma era troppo malconcio per eguagliare in agilità quella specie di lepre. Dovette quindi sentirlo gridare, un urlo viscerale di angoscia estrema. 

La renna adulta era riversa a terra, uccisa sul colpo, con gli occhi liquefatti. Il piccolo gemeva da strappare il cuore dal petto, cercando di svegliare la madre, e intanto era malfermo sulle zampe ed era terribilmente ustionato, privato della pelliccia e in alcuni punti anche della pelle. Aveva i denti scoperti perché non aveva più le labbra, la testa sembrava quasi un cranio, e non smetteva di piangere. Infine anche lui si accasciò e iniziò ad agonizzare. 

Camus non riusciva ancora a decidere quando usare i suoi strani poteri di guarigione: essi andavano e venivano, e solo quando il bambino si trovava in un particolare stato d’animo, tranquillo e privo di paura; ma ora era pieno di angoscia e non riuscì a fare niente. Caduto sulle ginocchia, cercando di spremersi dall’anima il potere di resuscitare due morti, piangeva forte, pura e autentica fiele. Sembrava che ci fosse un limite ai suoi miracoli.

Rydgev zoppicò verso di lui. Gli si doveva essere rotto il ginocchio buono. 

Come diavolo avevano fatto a salvarsi dall’esplosione? Va bene che erano lontani — pensò guardando il fungo atomico che si arricciava e si espandeva — ma lo stato in cui era il furgone era indicativo del fatto che avrebbero dovuto essere morti tanto quanto lui. 

Camus non smetteva di piangere. Rydgev sapeva quanto voleva bene agli animali: la vista di un cucciolo di renna in agonia, che respirava in quel modo ed era coperto di piaghe liquefatte, non gli faceva bene. Così, l’uomo estrasse la TT-33 e sparò senza esitazione in testa al cucciolo.

Camus diventò muto e immobile. Rydgev sapeva bene di avergli dato un dolore. 

« Il cucciolo stava morendo. Ma avrebbe continuato a morire per ore, » disse. « Ora è con la sua mamma e non soffre più, né morirà mai più. Non mi perdonerai mai, ma l’ho fatto per te ».

Il bambino era sempre stato affascinato dalle armi, ma forse più come un meccanismo interessante che altro. Adesso aveva visto una pistola uccidere, e aveva subito una bomba. Da lì in avanti, sarebbe stato sempre estremamente intollerante nei confronti delle armi. Per ora, era chiaro che si sentiva tradito. Quel bambino così curioso dei suoi simili scopriva quello di cui i suoi simili erano capaci. 

Un po’ titubante, Rydgev abbracciò il piccolo, che si mise a piangere di nuovo quasi immediatamente, e stavolta ancora più forte. Per una strana magia, Rydgev sentiva tutto quello che provava. Rabbia, impotenza di fronte al sopruso, disgusto, orrore, e un quantitativo a fatica tollerabile di tristezza. Era arrivato il suo battesimo, ed era diventato un bambino della Guerra Fredda.

« Siamo vivi, » disse Rydgev, più a sé stesso che a qualcuno in particolare. 

« Perché ci hanno sparato? » piangeva il bambino mentre il fungo atomico iniziava ad allargarsi e intanto continuava a ruggire lontano, come l’eco di dolore che ti resta sulla guancia dopo uno schiaffo. Camus ne sembrava ipnotizzato, e però più lo guardava e più gli si congelava l’anima. 

« Non hanno sparato a noi nello specifico, » disse Rydgev con tono depresso. « Hanno fatto un test di una bomba. Li fanno spesso da queste parti, ed è raro che avvertano. Dicono che lo fanno, ma poi del nostro popolo si dimenticano spesso ».

« Perché lo fanno? Come può essere? »

« Non lo so ».

« Sì che lo sai! » urlò il ragazzino divincolandosi con violenza dal suo abbraccio. « È una di quelle cose che non mi dici perché pensi che sia un idiota! »

Adesso che era in piedi in quella posa bellicosa, Rydgev notava che dove si era carbonizzata una parte della giacca di pelle c’era un segno. Una piaga, o già una cicatrice. Pensò che sarebbe guarita facilmente, perché il bambino guariva facilmente da tutto, ma si sbagliava: una cicatrice rossa a forma di cometa gli sarebbe rimasta — un ricordo della bomba.

Rydgev sospirò tristemente. « Vedi… queste bombe, che si chiamano atomiche — e non chiedermi cosa vuol dire, non lo so — uh… servono per vincere le guerre e per far paura ai nemici. Questo era un test. Lo fanno anche gli americani, a volte si vede in lontananza. Le testano perché sono molto pericolose, e vogliono capire tutti gli effetti. Uh… ecco, purtroppo… gli animali muoiono. Sono bombe molto potenti e molto velenose ». 

« Un test? » disse Camus, inorridito da quel concetto. « Sugli animali? »

« Sì. Ma muoiono anche le persone alle volte. I boschi vengono rasi al suolo, e… senti, piccolo. Accontentati di stare bene. Non puoi… non puoi salvare nessuno dalle bombe. Fanno parte della vita ». 

Camus sembrava annientato. Smise di piangere e scese su di lui la mano di un dolore gelido. 

« Le persone fanno tutto quello che vogliono, » disse il ragazzino, pieno di odio. « Non c’è dio ».

« Purtroppo le persone hanno ucciso gli dei ».

« No, mi avete sempre detto cose stupide. Non esistono gli dei! Oppure sono deboli! Non ci voglio più stare con voi! Volete solo che io sia come voi, a te non importa niente di dirmi la verità! E non ti importa niente— »

« — di te? »

Camus si bloccò e serrò la bocca. Stava trattenendo le lacrime. 

« Lo sai che non è vero, moccioso ».

Camus gli dette le spalle. 

«  Lo sai che mi fai rincoglionire di domande tutto il giorno e ti rispondo sempre anche quando mi fai venire l’emicrania. Non voglio tenerti segreto niente, semplicemente quello che mi chiedi a volte non lo so. Per la verità, non mi sono mai sentito tanto stupido come da quando sei arrivato tu. Ero il saputo del villaggio, prima di te. Ora davanti a te, che sei una caccola che si deve ancora fare la prima seghina, sono praticamente un coglione. Tu lo sai benissimo che non ti voglio fregare, solo che… quello che ha lanciato la bomba ora non c’è, e ti manca qualcuno a cui dare la colpa, quindi immagino di esserci solo io ».

Camus ci dovette pensare solo per due o tre secondi. Il suo cervellino era sempre molto rapido. 

« Scusa… » disse infine, ma non si voltò.

Rydgev andò da lui per dargli una bella pacca sulla testa. « Ehi, stai tranquillo. Ora dobbiamo darci da fare. C’è da recuperare la roba buona dal furgone e trasportarla fino al villaggio. Se tu mi facessi una slitta col ghiaccio, si farebbe prima, » disse allegramente.

« Non so cosa fare, » gemette il bambino, quasi a caso.

« Niente devi fare, piccolo, » disse Rydgev. Sospirò. « Senti… io lo so che queste due renne non te le dimenticherai mai. Tutti abbiamo queste cose nella mente. Per me è il mio cane, quand’ero piccino, che morì davanti a me per difendermi da un orso. E poi… lo so che l’hai capito da subito che non c’è giustizia in questo mondo. Però… tu sei vivo, capisci? E… basta così ».

« Non basta ». 

Rydgev si immobilizzò. Non gli aveva mai sentito un tono più oscuro nella voce. 

« Non serve a nulla che io sia vivo! » gridò il ragazzino. Rydgev era spaventato: i capelli rossi di Camus si stavano scuotendo in un vento che sembrava spirare dapprima solo intorno a lui, poi diventò una sventagliata generale in piena regola. « Non so dove andare! »

Rydgev si tolse il cappello come se fosse stato in presenza di un dio. Il cielo estivo era diventato buio come la notte. Nel vento che Camus stava generando si era formata dapprima la neve, poi violenti chiodi di ghiaccio. Il moccioso aveva letteralmente cambiato la stagione. 

In quel momento probabilmente il piccolo si sentiva completamente orfano, e completamente privo di una casa. Aveva richiamato l’inverno e la temperatura si stava abbassando a velocità allarmante. Rydgev era costretto a stare accucciato a terra, a proteggersi la testa da quella tormenta di spine. Le due renne morte erano diventate dei blocchi di ghiaccio.

« Basta, Camus! » implorò Rydgev disperato: stava iniziando a non sentirsi più le estremità. « Ci ucciderai tutti e due! Smettila! »

Rydgev vide, incredibile a dirsi, un lampo d’oro. Tornò l’estate limpida in pochi attimi. Il ghiaccio cadde, la temperatura riprese a salire, e il bambino se ne stava lì: fino a un attimo prima era sembrato una furia, adesso aveva un’espressione apatica ed era assurdamente circonfuso di un bagliore dorato. Rydgev riuscì a prenderlo al volo mentre il piccolo sveniva. Lo prese in braccio come un cadavere, esattamente come era successo tre anni prima. 

« Ho capito, marmocchio, » disse Rydgev, anche se Camus non poteva sentirlo. « Non sei uno stronzetto, alla fine. Hai solo tanta paura. Vorrei che tu fossi con la tua mamma, più che con mia moglie. Beh… la slitta la faccio io, ho capito ». 

 

Rydgev di quel giorno non aveva parlato nemmeno con Umky, perché non voleva dire a nessuno che Camus era pericoloso. 

Ma si rese conto di essersi messo in un pasticcio, anche senza la bomba atomica, la prima volta che Camus fece un capriccio in pubblico. Si era rifiutato di farsi tagliare i capelli e si era infuriato al sentire il piano di rasargli la testa e fargli tenere il cappello perché fosse un po’ meno sospetto. Un muro di lunghe e affilatissime spine di ghiaccio era sorto a protezione fra lui e la vecchia del villaggio che si avvicinava col rasoio. Rydgev era andato a scuoterlo e tranquillizzarlo appena in tempo, perché anche il bambino stesso si stava di nuovo congelando. Il villaggio, per il momento, prese la cosa come qualcosa di divino; ma Rydgev sapeva che non tutti erano così pii, e aveva paura. Pregava che il bambino, crescendo, sarebbe stato meno sopra le righe e avrebbe dato meno nell’occhio. 

Speranza vana. Crescendo, a forza di essere trattato dal villaggio come un piccolo santo, Camus rivelò un vero caratterino. Per cominciare, si rifiutava di fare praticamente tutto quello che gli veniva detto, fosse stato anche un consiglio per il suo bene. Se Rydgev lo obbligava ad andarsene a dormire quando era tardi, lui sgattaiolava fuori quando tutti dormivano, e non si sapeva mai dove diavolo andasse, né era dato sapere quando sarebbe tornato; non prendeva mai per buono niente che gli venisse detto e discuteva qualsiasi cosa e faceva sentire la gente stupida; se aveva deciso che qualcuno gli era antipatico, iniziava a ignorarlo, fingendo totalmente che non esistesse e così offendendo un po’ di persone. Vero era che le sue erano collere brevi, ma anche quando finivano non si scusava con nessuno. Però in un paio di occasioni aveva minacciato di uccidersi perché “gli dispiaceva”, con gli occhi talmente freddi che a Rydgev si era gelato il sangue. 

Tutto quello che gli veniva detto lo faceva esattamente al contrario, e non sembrava avere nessun interesse di adeguarsi a nessuno: per Umky una creatura così era per nascita un eremita, poco adatto alla vita del villaggio. Rydgev, che si scopriva alla sua età un uomo paziente, dovette sviluppare una serie di strategie: il teppista ti dava considerazione solo se chiedevi gentilmente, e faceva quanto gli veniva detto solo se veniva pregato. Eppure Rydgev amava molto quella strana creatura, che in fondo seduceva un po’ tutti e finiva sempre per farsi perdonare.

 

Un giorno Umky si impuntò di farsi accompagnare a nord da Rydgev, senza spiegargli niente. Aveva preteso di essere portato con la slitta coi cani, ma Rydgev, che voleva levarsi questo pensiero al più presto, lo persuase a farsi portare in motoslitta. 

Il posto era piuttosto lontano dal villaggio. Raggiungere quella fantomatica cosa che Umky voleva mostrargli richiese scendere dalla motoslitta in cima a una scogliera ghiacciata a picco sul Mare Artico, e scarpinare fino alla base del precipizio. Umky diceva cose filosofiche mentre Rydgev si ingegnava con la pala a ritrovare il sentiero scomparso da parecchio tempo.

Finalmente giunsero in fondo, dove il mare si infrangeva sulla base della scogliera, e Rydgev si rese conto che c’era in realtà una piccola spiaggia ghiacciata; splendeva tutto intorno uno strano alone di luce bianca. 

Umky disse altre cose filosofiche mentre Rydgev liberava il passaggio verso una piccola caverna, lamentandosi di non essere tanto meno vecchio di lui e che avrebbero dovuto portare un paio di giovani aitanti, o magari Camus coi suoi poteri.

« Punto primo, i poteri del ragazzo non sono destinati ad alleggerire la vita a nessuno, » lo redarguì Umky, che stava con le mani in mano tutto infagottato. « Punto secondo, non è ancora pronto per venire qui, e nessun giovinastro che non c’entra niente deve vedere ». 

Rydgev non fece commenti. 

Ad ogni modo, adesso l’ingresso della caverna era libero. Rydgev sentì un verso provenire da una grande roccia verticale congelata.

« Ancora quell’aquila, » osservò con sospetto: sempre quella strana aquila nera, grande come un albatross. 

« È una rapitrice, » spiegò Umky.

« Cioè? »

« Sa benissimo che il ragazzo dovrebbe stare in un altro posto. Non si preoccuperà di chi gli è affezionato o sentirebbe la sua mancanza. Lo porterà via ».

Rydgev si sentì un po’ affondare il cuore, ma decise di protestare. « E allora perché l’avrebbe portato qui anni fa? »

« Per avvicinarlo a questo posto. Che però è solo un posto di passaggio, una tappa. Su, entra: è ciò che c’è dentro questa caverna che il ragazzo è venuto a prendere, anche se non lo sa ancora ».

Rydgev entrò con circospezione, come se all’interno fosse contenuta una trappola mortale. 

Non era pronto allo spettacolo, però: nella caverna splendeva più forte quella luce bianca, che adesso sembrava uno strano liquido cosmico che si produceva in molteplici spirali; lo spazio era piccolo e quasi tutto ingombro dal ghiaccio; all’interno della formazione ghiacciata si trovava una scatola piuttosto grande, di materiale che Rydgev non riusciva a capire, e che presentava una decorazione a sbalzo — una cosa che non aveva mai visto prima: un qualche fanciullo nudo, con un’anfora portata con eleganza sulla spalla, che ascendeva sul dorso di un’aquila. 

« Questa scatola sarebbe sua? » disse a bassa voce. Gli veniva da parlare piano lì dentro: non capiva niente di magia, ma la percepiva violentissima dentro la spina dorsale.

« Sarebbe il suo destino da quando è nato. Ma ne avrà diritto se diventerà chi ha il dovere di diventare ». 

« Ma che dici. Se ci è destinato lo diventerà per forza, non c’è “se” ».

« Giovanotto, » disse Umky a un Rydgev quasi settantenne, « hai notato come il destino muore facilmente? Hai notato cosa sta succedendo al nostro popolo? Stiamo imparando a pensare come i nostri padroni, e questa è la morte dello spirito di questa terra. Si può sempre uccidere il proprio destino abbassando la testa. Così lo tradiamo, non lo ascoltiamo, non lo incontriamo mai nella vita, condannandoci all’eterno dolore di non appartenere mai ai cieli che stanno sopra di noi. Così era successo a te, che sognavi Gagarin perché odiavi la terra, finché non hai ricevuto il ragazzo e con lui la possibilità di cambiare le cose ». 

« Ma cos’è questo coso insomma? » brontolò Rydgev, guardando la scatola decorata sotto lo strato di ghiaccio come se fosse stata una mina attiva.

« Non lo sa nessuno. Si racconta che sia un vestito ».

« Un vestito? »

« Un vestito d’oro ». 

« D’oro? E nessuno viene a portarlo via? »

« Non si può spezzare o sciogliere questo ghiaccio. Sei libero di provarci. Ma nessuno ha tanto potere. Eccetto, a quanto si dice, una sola persona una volta ogni qualche secolo. Molto tempo fa promisi a un qualche francese che, se qualcosa fosse andato male e la scatola fosse tornata qui, non avrei abbandonato i dintorni di questo luogo, per fare la guardia ».

« Che francese? »

« Il precedente proprietario. Non avevo mai visto un francese. A dirla tutta, ad oggi non sono sicuro di cosa diavolo siano i francesi ».

« E di quanto tempo fa stiamo parlando? »

« Sarà stato… anni ’50 ».

« Ma come? Negli anni ’50 non è successo niente del genere, ero già nato io da un pezzo, non ti ricordi? » Rydgev pensò che stava diventando proprio come il ragazzino: faceva polemica su tutto. 

« Fu poco dopo la fondazione di San Pietroburgo, allora capitale dell’Impero, prima che venisse chiamata Leningrado ». 

Rydgev rimase un po’ interdetto. Da un lato c’era Umky che faceva sempre pasticci con le date perché le cose preferiva ricordarle come storie sparse; da un lato Rydgev stesso non era proprio ferrato in storia; ma era piuttosto sicuro che l’Impero non esistesse affatto — o meglio, che avesse smesso di esistere da un tempo che a lui pareva quasi infinito ad opera dei bolscevichi, come aveva imparato a scuola. 

« Umky, tu quanti cazzo di anni hai? »

« Non lo so. È il vestito d’oro che me li dà in esubero. Perché quando incontrai quel francese di passaggio da ragazzino ricevetti il mio destino, e ora che ti passo le consegne, infine, mi sarà concesso di morire. Tu stesso stavi morendo ma hai visto la tua vita allungarsi da quando hai il ragazzo ». 

Rydgev non poteva credere a tutte quelle cose così a buon mercato. Eppure il suo spirito, se la tubercolosi gliene aveva lasciato un po’, ci credeva già con tutto sé stesso. Gli sembrava tutto importante, gli sembrava che la crosta di neve salata sotto i suoi piedi respirasse forte. Era come essere nello stomaco di qualche animale che dormiva.  

« E… se il ragazzo dovesse mettersi questo vestito, cosa succederebbe, Umky? »

Umky sospirò. « So che non ti piacerà quello che dico, » disse. « Figliolo, tu sai molto bene che il ragazzo non è umano. Ma a quelli della sua specie è data la condanna di sembrare umani, come al loro genitore umano è data la condanna di perderli. In realtà, come già sai, siamo di fronte a un giovane immortale ». 

« Cosa? »

« Egli deve discendere da una schiatta vecchia milioni di anni ».

« Milioni? Milioni di anni fa qui c’erano i dinosauri, non le schiatte ».

« Qui sì, impertinente. Ma non dove è stato di recente il tuo Gagarin. Lì viveva qualcosa d’altro, molto “altro”. Camus discende da queste creature di un tempo. È figlio di dei, o al limite l’ultimo loro remoto nipote ». 

« Umky dai… come fai a saperlo? » disse Rydgev con una vocina come quella di un topo. 

« Tu hai visto, figliolo. Fingi di no, hai troppa paura che il ragazzo ti venga portato via, e menti perché temi che qualcuno, perfino io, gli faccia del male, e non ammetti di aver visto, ma hai visto. Te lo leggo in faccia, e sono mezzo cieco. Hai visto la luce d’oro? »

« Sì… »

« Hai visto il potere che possiede? »

« Sì ». 

Tacquero entrambi. Rydgev guardava la scatola decorata. Forse dentro c’era un segreto cosmico, o l’opera di un dio. Forse dentro non c’era assolutamente niente, come esigeva il comunismo. 

« Il piccoletto se ne andrà, vero? » disse. Si sentiva il cuore spezzato. 

« Tu devi aiutarlo, Rydgev, » disse Umky con severità. « È la tua missione in questo tempo, in pratica ciò che ancora ti tiene in vita, e ha arrestato la tua malattia. Lo sai che non è stato un caso. Se il ragazzo impara a dominare i suoi poteri e la luce d’oro, indosserà queste vesti e sarà bene per tutti ». 

« Ma come cazzo faccio ad aiutarlo? Che ne so io dei suoi poteri? »

Umky divenne ancora più severo, forse esasperato. « Preferisci vederlo agli arresti un giorno, prima o poi, inevitabilmente? Vedere che lo portano via legato come se fosse un animale? E sapere che lo rimetteranno in un manicomio come quello dov’è stato da bambino, che non lo rivedrai mai più, e che non l’hai mai portato dove era il suo destino? Giovanotto! Se ti va bene tuo figlio sarà fucilato sul posto appena le persone sbagliate passano di qui. Se ti va male reagirà all’arresto coi suoi poteri che non controlla, lo dichiareranno un mostro e manderanno l’esercito. E se nel frattempo non avrà imparato in qualche modo a dominare tutto questo, finirà male ». 

Rydgev, annientato e infervorato al tempo stesso, non fu capace di rispondere per un bel po’. Si sedette a terra, malgrado il suolo fosse freddo e la sua schiena non fosse come quella di una volta, si prese la testa fra le mani e tacque a lungo. Intanto quella scatola continuava a infondergli strane sensazioni, di tristezza e di speranza, di sconforto e di euforia.

Forse il ragazzino doveva andare lassù come Gagarin, e lì ci sarebbe stato, magari, qualcuno che poteva rispondere alle sue domande meglio di Rydgev che era un povero ignorante. 

« Hai ragione, Umky. È meglio per lui se… trova altri come lui. Poi dovrebbe stare in un’università, non qui ». 

« Non credo che il suo destino sia l’università ». 

« È sprecato qui. Non deve pascolare renne. Chiunque può fare quello. Lui dovrebbe fare qualcosa che nessuno riesce a fare a parte lui, » proseguì Rydgev. La cosa di cui aveva più paura in assoluto era di separarsi dal ragazzo, cosa che lo avrebbe anche separato dalla vita, e dalla sensazione provata ora per la prima volta di stare facendo qualcosa che avesse un senso. Gli voleva bene. Non aveva mai avuto particolare stima di sé stesso, ma stravedeva per il ragazzino e il pensiero di lasciarlo andare lo stava massacrando. Così Rydgev piangeva in silenzio, senza singhiozzare. Doveva privarsi di Camus con le proprie mani. «Il mondo è tondo… sì… lui ce la potrebbe anche fare ».

« Come dici? »

« Dico che lo farò. Sarò il nuovo scemo del villaggio. Ma come potrò trovare il modo per avvicinarlo al suo destino? Non so niente di magia ». 

« Ascolta e basta. Fallo ora ». 

Rydgev obbedì. 

Si mise a fissare la scatola, restando seduto perché non aveva più forza di alzarsi. La fissò e la fissò mentre nessuno diceva niente, mentre il freddo polare diventava una carezza. 

Le spirali di luce cosmica iniziarono a farsi d’oro. La galassia di Gagarin venne per qualche minuto contenuta dentro la caverna vivente.

Fuori iniziò a cadere la neve. Ma dentro c’era caldo. Il tepore, mai provato, di un bagno caldo. O almeno così immaginava. 

Comparve una ragazza. La sua immagine era instabile, come se fosse stata un fantasma che faceva fatica a darsi corpo. Era una ragazza molto bella, in maniera straniera, con la pelle baciata dal sole e lunghi e soffici, ma tempestosi, ricci castani. Aveva gli occhi — ricordò subito Rydgev — come la striscia d’argento che si forma verso il Polo quando sulla Siberia si addensa un tavolato di nuvole. 

« Tu sei… Na… uh… Not… » disse Rydgev, incapace di ricordare. 

« Noctua, » rispose gentilmente la ragazza con un bel sorriso, anche se un po’ stanco. Era vestita leggera malgrado le temperature, e portava dei semplici sandali ma i suoi piedi non diventavano blu. Era lei stessa che emanava quel calore gentile e affettuoso. 

« Sei tu la mamma di Camus? »

« No ». 

« Ma lui deve venire da te, vero? È da tempo che lo chiami ». 

Noctua abbassò per un attimo gli occhi, come se fosse dispiaciuta di affrontare certi argomenti e dare un dolore a Rydgev. « Lui potrebbe salvare il mondo, buttare giù i muri, combattere per la giustizia. Non deve farlo però, se non vuole. Non sei obbligato a credermi, ma… »

« Non sono pronto a lasciarlo andare via e morire, non lo sarò mai. Sono solo un uomo, signorina. Ho paura di restare solo e anche di morire, » disse Rydgev con sincerità. « La mia vita, prima, non aveva nessun senso. Da quando c’è lui, sono contento di alzarmi la mattina. Quel marmocchio insolente è la parte migliore di me, e lo ammiro tanto, ma soffre, come un cane… » Rydgev sospirò per ricacciare indietro le lacrime. Ma non ci riuscì, e si mise a piangere come un vitello. « Non gli voglio bene davvero se voglio negargli di fare la sua strada. Te lo giuro, signorina, farò il possibile ». Si asciugò rudemente gli occhi e il naso. « Ma dove sei tu, signorina? Veramente? »

« Non lo so, » ammise Noctua tristemente. « Il mio corpo si trova in un posto molto stretto, freddo, umido e buio. Per punizione sono coperta dalla bile nera, e quasi tutte le mie forze devo dedicarle a non esserne contaminata. Solo… solo poche volte mi ricordo chi sono, per pochi minuti. Ma non sono capace di raggiungere tutte le persone che vorrei raggiungere… perché il più delle volte non ricordo niente della mia intera vita, e il mio cosmo è morto. Vorrei aiutare di più… ma ti prego, di’ a Camus che non sono morta. Che resisterò anche un secolo, aspettando i cavalieri. So che arriveranno ». 

Rydgev non ci aveva capito quasi niente. « Cos’è la “bile nera” che ti copre? »

« Un male che ha raggiunto questo mondo, e che dilagherà e lo distruggerà lentamente, se Camus e i suoi compagni non risponderanno alla chiamata. Altrimenti il mondo inizierà a farsi buio, si moltiplicheranno le guerre, le persone perderanno ogni speranza, e dimenticheranno cosa sia la felicità ».

« Ma tu sei coperta da quella sostanza! Morirai! »

« Non morirò, » sorrise Noctua. « Non morirò perché ho piena fiducia nel fatto che i cavalieri mi troveranno, devo solo aspettarli, devo resistere per dare loro il tempo necessario. E poi… secondo me… qualcuno, che purtroppo non ricordo di conoscere, mi sta aiutando a proteggere il mio corpo ». 

« Chi? Un dio? »

« Forse sì, » disse Noctua. « Accanto a me è conficcata nella roccia una piuma di corvo. È tutto ciò che so ».

« Non è molto per trovarti ».

« Lo so. Mi dispiace, » fece lei, costernata. 

Poi Rydgev la vide prendere fra le dita un singolo capello riccio della sua chioma, e staccarlo; e questo capello diventò una sorta di filo d’argento, tutto brillante di minuscole stelle, e sotto lo sguardo stupefatto di Rydgev si trasformò in un braccialetto.

Noctua lo consegnò a Rydgev. L’uomo notò che la consistenza era quasi impalpabile, come se fosse stato la luce incorporea di una stella. 

« Dallo a Camus, » sorrise Noctua. « Non lo abbandonerò mai, Rydgev. Magari non potrò sempre aiutarlo, ma i miei pensieri sono con lui per sempre ». Noctua posò una mano liscissima sul volto ispido di Rydgev. « È un’ottima cosa che abbia trovato te. Avrei voluto anch’io un padre come te ». 

Col braccialetto stellato in mano, Rydgev riprese a piangere, e la visione finì.  Umky lo lasciò piangere a lungo, e infine morì, semplicemente sdraiandosi e smettendo di respirare. 

 

*

 

A tredici anni, Camus era alto come gli adulti del villaggio ed era quasi insopportabile: dava udienza alla gente che gli chiedeva una visione solo quando gli andava, e quelle poche volte addirittura sembrava scocciato dalla cosa; aveva iniziato perfino a prendere in giro i più creduloni, inventandosi profezie per pura insofferenza nei loro confronti.

Rydgev gli aveva parlato di un po’ di cose e gli aveva dato il braccialetto da indossare, ma Camus faceva resistenza. Quando non era convinto, non c’era niente da fare: doveva arrivarci da solo.

Dopo la morte di Umky, Camus, che era sempre stato pungente e riottoso nei suoi confronti, divenne ombroso e scostante e prese a sparire spesso. Si rifiutava di confidarsi con chiunque, ma Rydgev vedeva bene come andavano i suoi disegni, le sue sculture di ghiaccio o qualsiasi altra cosa creativa amasse fare: aveva smesso completamente. Aveva detto soltanto di sentirsi bloccato. Parallelamente, era diventato un vero e proprio adolescente difficile. 

Rydgev pregava con tutto il cuore che il suo caratteraccio non lo mettesse nei guai. È vero, era diventato una bella gatta da pelare, rendeva la missione di Rydgev quasi impossibile e litigare con lui era esasperante, ma non voleva perderlo a maggior ragione adesso che doveva guidarlo — e senza sapere come fare, per giunta.

Rydgev iniziò a parlare più spesso con lui dei suoi poteri, e a portarlo in posti isolati affinché potesse fare delle prove senza far male a nessuno. Ma Camus diceva che non gli usciva niente, e Rydgev a quel punto non sapeva proprio come fare. A volte si arrabbiava per esasperazione, a volte se ne andava frustrato perché col ragazzino non si riusciva più a parlare, ma poi tornava sempre. Aveva una missione da compiere.

Le cose migliorarono un po’ quando venne l’inverno e la temperatura precipitò a -35 gradi. Rydgev sentiva di essere sul punto di tirare le cuoia, perché alla sua età il freddo in cui aveva vissuto tutta la vita stava diventando un problema; Camus, invece, sembrava rinato. Disse che la luce gli dava noia, e che stava meglio nella notte polare. 

Era diventato quasi un matto: aveva impiegato sei mesi a prepararsi con un addestramento di sua propria concezione, ma alla fine aveva iniziato a fare il bagno nudo nel Mare Artico. Non faceva altro che fare ginnastica, si faceva assegnare i lavori più pesanti e il turno di cacciare (ci andava da solo e stava via per settimane, senza nessuna paura del buio), andava a correre per ore in mezzo alla tormenta, improvvisava allenamenti e sollevamenti con qualsiasi cosa trovasse, e spesso si dedicava al pugilato con i peggiori soggetti del villaggio, anche se erano più grandi e, per ora, più grossi di lui. A volte scalava qualche altura, indipendentemente dalle condizioni meteorologiche, e una volta in cima ci rimaneva per ore, nessuno sapeva a far cosa.

Rydgev non avrebbe voluto uscire dalla tenda in quell’inverno, ma capì che era quello il momento ideale per fargli prendere confidenza coi suoi poteri. Così, iniziò ad aiutarlo ad allenarsi fisicamente, e lo incoraggiava a misurarsi con le peggiori tormente, per vedere se riusciva a piegarle al suo volere. E ci riusciva. Il ragazzo aveva un’inclinazione naturale a superare i propri limiti.

In effetti Camus, contro la volontà di Rydgev, aveva iniziato a fare esperimenti su sé stesso, andando a nascondersi dove nessuno l’avrebbe disturbato. Un giorno Rydgev lo beccò: si era congelato la mano.

« Che diavolo stai facendo? » si allarmò. 

« La parte del corpo congelata perde energia, » disse quello, imperturbabile.

« Sì, grazie al cazzo, » sbottò Rydgev, « Forza, sciogliti quel ghiaccio dalla mano prima che te la debba amputare. Subito, ragazzino! »

Camus obbedì controvoglia. 

« Sul libro che abbiamo preso in città l’altra volta c’era scritto tutto sugli atomi, » proseguì il ragazzo.

« E quindi? »

« Se per esistere hanno bisogno di muoversi, vuol dire che non esisterebbero più se fossero immobili? »

« Esatto, » disse Rydgev che non aveva capito assolutamente niente. 

« Quindi scomparirebbe la materia ».

« Uh… »

« A me sembra che il freddo faccia rallentare i movimenti delle cose. Sul libro c’è scritto che la materia non può non esistere, però in teoria, se fosse abbastanza freddo… »

A Rydgev venne quasi da ridere a vederlo così appassionato. « E hai pensato di testare la cosa su te stesso? Qual era il piano, per curiosità? Perdere la mano? »

« Ho provato con una cipolla, ma è inutile se non sento bene le cose ».

« Senti, facciamo un affare. Tu continui con le cipolle e non fai più esperimenti da scienziato pazzo su te stesso, e io ti porto a fare un viaggio di addestramento in un posto che ti piacerà tantissimo. Ok? »

« Quanto sei pesante ».

« Ragazzino, o me lo prometti o abbiamo chiuso ».

« Va bene, va bene. Prometto ».

 

Camus sembrava aver accettato relativamente di buon grado la responsabilità che Rydgev gli aveva messo sul groppone in merito al vestito d’oro — forse perché era esaltato dalla prospettiva di diventare più potente. Ma appunto non era completamente convinto, e spesso cercava di entrare in contatto col capello di Noctua che portava al polso in cerca di risposte, ma sembrava non essere mai completamente convinto. Rydgev lo vedeva concentratissimo su quel braccialetto, e dopo che si era stufato lo vedeva scontento ed estremamente scettico. 

Però era pur sempre un ragazzino magico, perciò, come c’era da aspettarsi, era stato attratto dalla prospettiva di migliorare i propri poteri, e quella strada portava direttamente alla scatola nella grotta. Nel complesso, Camus sembrava aver accettato la storia di essere destinato a grandi poteri, ma quando si parlava di divinità e di volontà superiori, da bravo adolescente, era nel rifiuto più totale. Rydgev aveva trovato un compromesso con lui, e gli aveva detto: « Senti. Almeno provaci a metterti quel vestito e così potrai risponderti da solo. Se non lo fai, sei costretto a rimanere qui dove alle tue domande non sa rispondere nessuno, men che meno io ». Così, l’aveva parzialmente convinto. 

L’addestramento improvvisato andò avanti con mezzi di fortuna per più di cinque anni. 

L’anno che Rydgev, concludendo la sua missione, morì a settantun’anni, Camus ne aveva diciannove e aveva subito una strabiliante metamorfosi. Era alto più di un metro e ottanta ed era ufficialmente diventato la primaria causa di follia di tutte le donne del villaggio e perfino dei villaggi circostanti. 

A causa del fisico che aveva sviluppato addestrandosi duramente, le donne del posto, anche le vecchie decrepite, lo seguivano ridacchiando quando andava a spogliarsi per buttarsi in acqua. Anche la sera intorno al fuoco non smettevano di guardarlo, tutto vestito leggero com’era, con certi muscoli in mostra. Il signorino piaceva perché aveva sempre qualche cerotto o fasciatura addosso o le nocche escoriate dalla lotta; inoltre aveva il viso di un angelo e nessuno di loro aveva mai visto in anima viva una simile grazia dei movimenti, o mani così belle come quelle di una donna; e aveva quegli assurdi capelli color sangue lunghi ormai fin sotto il sedere — nessuno al villaggio aveva mai avuto capelli così lunghi e morbidi. Erano come un fiume di sangue.

Piaceva, anche, perché adesso dominava la propria magia, perché quasi tutti gli animali gli volevano bene, perché ritornava dalla città sempre carico di libri che leggeva in una notte, e perché era dotato di un sarcasmo molto affascinante. Ciò che stregava tutti quanti, e soprattutto tutte quante, era che era un ribelle, come era sempre stato, ma ora emanava un certo carisma. Camus era capace di far nevicare e far smettere di nevicare, coi suoi poteri in inverno costruiva sentieri laddove c’erano 10 metri di neve durissima, creava splendide sculture di ghiaccio, erigeva addirittura muri di ghiaccio spessi tre metri e alti quindici coi quali proteggeva il villaggio dalle tormente. 

Perciò, anche dai villaggi vicini, le ragazze avevano cercato in qualsiasi modo di sedurlo e possibilmente di sposarlo, perché a tutte sembrava di vivere un romanzo in sua presenza. In un’occasione davvero straordinaria e senza precedenti nella cultura Chukchi, il fratello maggiore di una misera innamorata infelice si era detto disponibile a donare al villaggio svariati capi di renne se Camus avesse acconsentito a sposare la donna. Ma l’altezzoso, ovviamente, aveva la testa dura come un’incudine, anzi aveva talmente umiliato a parole il fratello della pretendente, reo di aver preteso di comprarlo con sole venti renne, che erano tutto ciò che possedeva, che ci era voluto parecchio impegno perché non ne nascesse una faida.  

Sembrava che non gli interessassero affatto le donne. In realtà sembrava che non gli interessasse nemmeno il sesso, a meno che non fosse semplicemente molto bravo a non farsi sentire se di notte gli prendeva un’emergenza virile. Un uomo così bello avrebbe avuto decine di occasioni di togliersi almeno lo sfizio se avesse voluto, ma niente: intratteneva con le donne dei piacevoli rapporti di amicizia che poi quelle invariabilmente interpretavano male, e finivano col cuore spezzato. Rydgev pensò che fosse perché non era umano. Non poteva esserlo, aveva ragione Umky. Fra i suoi poteri e tutto il resto, sembrava più lo spirito incarnato della Siberia che si ribellava ai russi. 

Ad ogni modo, la vita scorreva serenamente solo all’apparenza, perché Rydgev era molto consapevole di quanto tuttora soffriva Camus. Aveva sperato che si sarebbe sentito più tranquillo dopo l’addestramento, e in effetti aveva raggiunto un maggiore equilibrio di facciata, ma sotto la superficie la situazione era ben diversa. 

A volte, di colpo, la sua capacità di concentrarsi veniva meno, e Camus sembrava perso. In quei giorni non riusciva a dormire, e spesso stava sveglio tutta la notte, oppure provava a coricarsi e sembrava tormentato da un esercito di mostri. A volte le energie gli venivano meno come se gli si fosse congelata l’anima, e per carità: quando aveva dei giorni strani, in cui gli tornavano le visioni, era talmente agitato e irritabile, o addirittura paranoico, che era meglio non chiedergli nemmeno dove andava. Nei casi peggiori parlava confusamente o gemeva solamente, lui che parlava sempre così bene. Era così sensibile alla luce che durante l’estate polare i suoi episodi si moltiplicavano. Rydgev era quasi sicuro che bevesse di nascosto, ma non l’aveva mai beccato. Dopo una settimana in questo stato, a volte Rydgev trovava fra le sue cose dei disegni davvero assurdi, come quelli che faceva da bambino, che facevano stare suo padre davvero male. Spesso Camus si metteva alla prova come al solito nuotando sotto la crosta di ghiaccio che copriva il mare, ma a volte a Rydgev prendeva la paura che in realtà stesse cercando di uccidersi. Lo sentiva molto bene che la sua sofferenza stava diventando insopportabile. 

Quasi alla fine dell’anno, quello che Rydgev aveva sempre temuto si verificò: l’uomo entrò nella tenda e trovò Camus con la TT-33 in mano. 

Rydgev si buttò su di lui con tutto il proprio corpo e riuscì a deviare il colpo. Il risultato fu che lo sparo ferì Camus al collo, in maniera non fatale. 

Rydgev  gettò subito in mare sia la pistola che il Kalashnikov. Nascose qualunque tipo di coltello. Lo accudì, gli disinfettava la ferita con la vodka e gli cambiava le bende, ma Camus non rispondeva a niente che gli venisse detto: era catatonico. 

Dopo una settimana, Camus riprese a parlare, e Rydgev gli fece la domanda più cretina: « Perché volevi spararti? »

« Non so dove andare ».

« Ma certo che lo sai! »

« Non voglio essere il servo di qualche divinità, » insistette Camus con voce piatta. Una voce così priva di tono faceva gelare il cuore. « Non mi va particolarmente di stare da nessuna parte. Avete tutti deciso a cosa sono destinato. Mi fa piacere che siate convinti di quale sia la verità, ma non è così. Sono uno scherzo della natura. La vita è comunque un meccanismo di servitù dove la libertà non esiste nemmeno per i ricchi, e a me non interessa essere un lacchè vestito d’oro e andarmene in comunità insieme ad altri mostri come me. Non mi piace stare al mondo. E basta ».

Rydgev non era assolutamente equipaggiato per gestire un suicida. Avrebbe voluto spiegare al ragazzo che quella era stata anche la sua situazione prima che lui arrivasse; avrebbe voluto dirgli che lo capiva, che sapeva benissimo come ci si sente quando mettere un piede davanti all’altro non ha nessun senso — avrebbe voluto dirgli che non doveva sentirsi così, perché Camus aveva il potere di salvare delle vite, la sua di sicuro. Ma pensò che in questo modo l’avrebbe caricato soltanto di responsabilità e l’avrebbe fatto stare peggio. 

Quel giorno dello sparo, comunque, a Rydgev era caduto completamente il mondo addosso. Non era in grado di proteggere Camus nemmeno quel braccialetto che aveva fatto una dea, lui che speranza poteva avere di salvarlo?

Già… il braccialetto. A questo punto Rydgev si sentiva furioso. Tante belle parole, Umky stesso che moriva per aprire per Camus quella strada, e poi una dea avrebbe semplicemente permesso al suo protetto di spararsi? Non ci pensò nemmeno alla bile nera, al fatto che la dea stessa fosse in pericolo di vita. Pensò soltanto che non c’era dio, e se c’era era ora di dirgliene quattro. Avrebbe tirato fuori quella scatola dal ghiaccio con le sue sole forze. 

L’anziano Rydgev arrivò pertanto di fronte alla scatola congelata, armato di ogni sorta di attrezzi per dare battaglia a quel maledetto muro di ghiaccio. A questo punto era nel delirio, e non stava più ragionando. 

Spaccò tutti gli attrezzi, uno ad uno, sul ghiaccio che non si spezzava. Si ferì a sangue con tutti i pezzi di utensile che gli volavano in faccia. Poi cominciò a prendere il ghiaccio a pugni.

« Lo so che appartieni a lui! » gridava buttandosi sul ghiaccio con tutto il corpo e tirando pugni alla cieca.« Salvalo, cazzo! Cazzo! È mio figlio! È l’unica cosa buona che abbia mai fatto! » Si frantumò le nocche e le falangi, e infine si fratturò il resto della mano, il polso e le ossa dell’avambraccio. Ma lui continuava a tirare pugni e a maciullarsi ancora di più. « Perché? Perché soffre così? Non dovresti aiutarlo, cazzo? Abbiamo fatto quello che ci avevi detto di fare, adesso permetterai semplicemente che muoia? È degno di te, scatola di merda, chi cazzo credi di essere? È degno di qualsiasi cosa! È l’uomo migliore che abbia mai camminato su questo mondo, come cazzo ti viene in mente di lasciare che si ammazzi!? » Rydgev stava tossendo e sputando sangue e sentiva di stare per asfissiare. I polmoni non gli funzionavano più, la gola si chiudeva e prendeva fuoco. La tubercolosi gli viaggiava nel sangue, gli spegneva gli organi uno dopo l’altro. Se la sentiva nel cervello. 

« Prendi me… » disse piangendo sfinito, con tutte le ossa rotte, scivolando giù per la formazione di ghiaccio, addosso alla scatola, lasciandosi dietro una strisciata di sangue che gli era eruttato copiosamente dalla bocca. « Prendi me, scatola, al posto suo, non mi importa se crepo, apriti! Apriti! Salva il ragazzo. Gli voglio bene… ti prego… gli voglio bene… non ha nemmeno vent’anni… » 

Stava calando il buio. 

E proprio in quel momento, Camus apparve, come resuscitato dalla catatonia. 

Rydgev era in agonia, non si stupì nemmeno. Nessuno dei due sapeva spiegarsi quel fenomeno, e Camus avrebbe impiegato quasi due mesi per interpretarlo — ma aveva sentito Rydgev che stava morendo e aveva semplicemente corso. Alla velocità della luce. 

Camus raccolse Rydgev nelle misere condizioni in cui era. Sembrava diventato leggerissimo.  

« Moccioso, » tossì Rydgev.

« Papà… »

Era la prima volta che lo chiamava così. Rydgev gli sorrise, felice, e gli diede una debole pacca sul braccio. 

« Non lo fare mai più, » rantolò, toccandogli la benda sul collo. « Me lo devi giurare ».  

« Va bene. Lo giuro. Adesso cerco di guarirti ».

« Non puoi, » disse Rydgev. « È la mia ora. E ne è valsa la pena ».

Rydgev morì serenamente fra le braccia di Camus. 

Quest’ultimo non riusciva nemmeno a piangere. Uno shock gli aveva trafitto la gola e paralizzato il cervello. 

La scatola, nel frattempo, bagnata, attraverso il ghiaccio, dal sangue di Rydgev, sembrò esplodere. 

Ci fu una luce quasi accecante, dello stesso colore del sole, e Camus percepì con chiarezza di venire rapito al suolo terrestre, forse al pianeta in generale. Sentiva una pelle aderirgli al corpo, una pelle naturale, la pelle che gli era mancata dal giorno in cui era nato. 

Quando finì quella rapida magia, Camus si ritrovò vestito di un’armatura d’oro. 

Lo stupore durò soltanto cinque secondi: trascorsi questi, il cavaliere appena investito, iniziando a piangere di frustrazione, iniziò ad agitarsi per strapparsela di dosso, ma sembrava che questa si fosse incollata al suo corpo. 

« Quell’armatura non è tua nemica, ragazzo ».

Era la voce di Umky. 

Dopotutto, era stato sepolto proprio lì nelle vicinanze. Erano successe talmente tante cose assurde che Camus trovò del tutto normale che Umky gli facesse visita dall’oltretomba, o forse come manifestazione della Siberia stessa. 

« Ha ammazzato papà! »

« No, ragazzo, è tuo padre che si è ucciso per darti questa possibilità ».

« Non la voglio! »

« Quindi rifiuti il sacrificio di Rydgev ». 

Camus smise di cercare di togliersi l’armatura. Fissò lo sguardo sul cadavere di suo padre e iniziò a piangere. Era frustrato, impotente e perfettamente terrorizzato. 

« Rifiuti gli sforzi che ha fatto, il dono della sua vita? Non credi che abbia pensato che ne valesse la pena? Rifiuti la dea che avete visto entrambi? »

« Non mi serve a un cazzo una dea, » sibilò Camus fra le lacrime. « Se avesse avuto un briciolo di potere, tutto questo l’avrebbe fatto succedere senza sacrificio. Spero che non esista, perché se esiste è tutta una stronzata ».

« Perciò vuoi dirmi che non hai sentito la sua presenza attraverso quel capello? » fece Umky, implacabile. « Chi credi che abbia alleviato i sintomi della tua condanna fino a questo momento? Chi credi che abbia guidato Rydgev fino alla tenda, all’ultimo secondo utile per salvarti? Tu ti eri chiuso, ragazzo, le impedivi di raggiungerti. La tua dea è in pericolo mortale, non ha molte forze, e lo stesso sta cercando di aiutarti, moccioso ingrato. Era destino che Rydgev morisse il giorno che tu fossi stato pronto, la sua vita era stata già allungata oltre il limite. Tu non sei mai stato il tipo da negare qualcosa a prescindere, senza prove. Non pensi che potresti servirti dell’armatura per capire da solo tutto questo? Non puoi rifiutare il tuo destino se non lo affronti nemmeno ». 

Camus non riusciva a rispondere. Il lutto lo annientava. Continuava a piangere come una renna scannata. 

« Ragazzo, lo so che la tua sofferenza non è colpa tua, » si addolcì Umky. « Ma il troppo orgoglio sì, è colpa tua. Se gli permetti di influenzare il tuo giudizio, non sarai mai libero ».

« Dove devo andare? » chiese infine Camus, con voce atona. « Papà mi ha parlato di un posto stretto, buio… »

« Non è lì che devi andare, al momento, » rispose Umky. « E non puoi girare il mondo a caso alla sua ricerca, sarebbe impensabile. Tu ora devi concentrarti sul ruolo di insegnante ».

« Io? »

« Sì, tu. Cerca l’altra armatura che è custodita in Siberia, perché naturalmente inseparabile dalla tua. Segui il canto del cigno, sistemati e aspetta. Verrà il momento in cui un altro moccioso com’eri tu cadrà dal cielo, e sarai tu a doverlo guidare. Così, insegnando, imparerai. Nel frattempo, sforzati di comunicare con la tua dea. Solo così potrai avere degli indizi su come trovarla, quando il momento di partire arriverà, annunciato da un tuo simile ».

« Potrebbe tornare papà? Come te adesso? »

« Sei ancora quel bambino fragile, » disse Umky con simpatia. « No, Rydgev non tornerà come spirito, perché adesso vive in quell’armatura che stavi cercando di strapparti di dosso ».

Il silenzio divenne profondo, interamente riempito dal cadavere di Rydgev. Minuto e misero, un piccolo vecchio che la morte aveva ridotto a un fagotto di pelle di renna.

« Farò come dici, » disse alla fine Camus. 

« Credo sia la prima volta che ti sento pronunciare questa frase. Almeno dopo morto ho avuto l’onore ». 

« Parto subito ».

« La tua nuova vita te l’ha data Rydgev a prezzo della sua. Non devi mai più cercare di ucciderti. Hai capito? »

« Sì… siamo già rimasti d’accordo così, » rispose Camus con l’ultima lacrima incastrata fra le ciglia. 

Chapter 6: Twist in my sobriety

Notes:

Fun fact: Ho messo la coppia Milo/Camus più per provare che per altro perché in tanti anni non mi ha mai detto granché e li vedevo bene solo come amici. Quindi non ero nemmeno particolarmente gasata... invece poi ho scritto questo capitolo e ora credo di essere la world's n°1 Milo/Camus apologist, aiuto

Also Hyoga e Isaak sono davvero carini da bambini e appariranno ancora, più grandicelli, dopo un time skip insieme agli altri bronze, non ho però ancora deciso se avranno un ruolo particolare o se saranno solo dei cameo, improvviserò. Il focus rimangono comunque i gold saint

Prossimo capitolo Aiolia e Shaka adolescenti che fanno un enemies to lovers e Aiolos in veste di fratello-mammo

Chapter Text

Tiksi

Siberia settentrionale, 

cinque anni dopo

 

La cittadina di Tiksi era il porto più settentrionale della Russia e, in pratica, appariva come a fatica un grosso quartiere di casermoni scrostati su palafitte; si vedeva un po’ di verde fangoso due mesi all’anno, mentre il resto del tempo si spalava la neve. 

Occasionalmente, la cittadina era visitata da uno straniero. 

Arrivava ogni 4 o 5 settimane, nessuno sapeva come e da dove, e come prima cosa vendeva sempre dell’oro — e la cosa assurda era che in cambio accettava parecchio meno del dovuto. Non vendeva l’oro per fare la bella vita: faceva provviste, comprava dei generi di prima necessità e dei libri, e poi spariva trascinandoseli dietro in slitta. Non era nella natura siberiana fare tante domande, e, se capitava che qualcuno gliene facesse, lui, parlando benissimo russo, si limitava a glissare. 

Nessuno aveva mai visto il suo mezzo di trasporto, ma si dirigeva sempre verso il porto quando andava via. Naturalmente le autorità locali avevano provato a seguire questo strano individuo, ma una volta girato l’angolo si era come dissipato in un refolo di neve. Restavano solo le navi rompighiaccio tutte incrostate di gelo, e i moli congelati. Nell’ultimo posto dove era stato lo straniero rimanevano solo due impronte nel ghiaccio. 

Da qualche anno, lo straniero in alcune visite era accompagnato da due bambini. Inizialmente, in realtà, si era pensato che fossero bambine; proprio come il padre — perché così venne interpretata la cosa — avevano il viso bello come quello di una femmina. Erano curiosi dei dintorni ma procedevano incollati al padre e non davano confidenza. 

Le persone ragionevoli pensavano che lo straniero fosse un turista. Ma cosa ci fosse andato a fare lassù invece di starsene a Mosca o Leningrado era un vero mistero; di solito i turisti occidentali erano un gruppetto di gente vestita di tutto punto che aveva con sé tantissimi documenti di viaggio complicati e veniva pascolata dalle guide a destra e manca perché non andasse a curiosare in giro. Oppure poteva essere uno scienziato, alto però come una pertica e coi capelli tinti e, per qualche motivo, spesso in mezze maniche.

Altre persone, insieme con i più piccoli, pensavano che fosse uno spirito, forse un maschio di fata, se ne esistevano. Era sempre pieno d’oro, e se si faceva pagare poco era senz’altro perché nel suo popolo non si conosceva il prezzo dell’oro, perché alle fate le meschinità umane facevano solo male. E ci avevano fatto caso: quando veniva lo straniero, anche in pieno inverno, non nevicava mai. E anche di bambini non ne esistevano di così belli come i suoi tra gli umani. 

A volte capitava che la strana famiglia si soffermasse una mezz’ora alla sorta di localino che c’era a Tiksi vicino al porto: una via di mezzo fra una ryumochnaya e una mensa alla buona, dove gli abitanti si sedevano a chiacchierare, cantare, lagnarsi del governo o ascoltare la televisione mentre il cibo veniva servito dal banco in vaschette di alluminio. Qualcuno andava da solo, qualcuno era da solo anche se era venuto in gruppo, qualcuno era allegro, qualcun altro perfettamente depresso e quasi tutti erano ubriachi. 

 

Quella parentesi di televisione sovietica a Tiksi era un’altra finestra parziale sul mondo esterno per i tre, a parte i libri che leggevano. Un inverno del 1983, Camus era seduto al tavolo con i ragazzini e stava a sentire la trasmissione con aria critica. 

Il giornalista sovietico aveva riepilogato la situazione inaccettabile per cui al mondo esistevano ancora gruppi di integralisti religiosi che si riempivano la bocca con gli dei, la salvezza del mondo e tutto il resto e per giunta si dichiaravano capaci di compiere magie nell’indifferenza o addirittura nella compiacenza dei governi; ma in fondo non erano che comuni gruppi di mitomani sempre ai ferri corti fra di loro. Due erano i poli stabili nei secoli, Atene e Asgard, ma non era finita lì: si sentiva dire che anche altre divinità o presunte tali avessero chissà dove i loro domini. L’ubicazione esatta del posto in cui vivevano quelle persone era sconosciuta, e apparivano sempre e comunque esterni politicamente. Atene giurava di non saperne niente, e la zona artica era stata ispezionata mille volte senza che si trovasse questa Asgard.

Si definivano guardiani della pace entrambi i gruppi, ma era facile dissipare quella menzogna: a questo scopo il programma mostrò un filmato risalente alla Seconda Guerra Mondiale, dove il “celebrante di Odino” ad Asgard, come voleva esser chiamato, dichiarava senza mezzi termini guerra contro Atene, proprio in un momento in cui il pianeta era già al collasso. Volavano sempre le solite ciance che accumunavano tutti i tipi di fascisti, inclusi quelli comunisti: “Odino è con noi”, la necessità di annientare i greci abituati alla vita molle e privilegiata, e l’incoraggiamento, con fin troppa verve, a riportare la pace sulla Terra, prima sradicando il Santuario di Atene e poi prendendo in mano la situazione nel mondo esterno. 

« Di quando è questo video, maestro? » chiese a bassa voce Hyoga, il cui piatto di salsiccia, uova, formaggio e aringhe salate era intatto, tanta era l’attenzione che aveva dedicato al celebrante e al suo stupido delirio.

« Una cinquantina di fa, » rispose Camus, che mangiava con atteggiamento tanto raffinato che una donna seduta dall’altra parte della sala se lo mangiava con gli occhi. « Non ci siamo ancora arrivati a quella parte ».

« Ma Odino ha poi annientato Atene? » chiese preoccupato l’altro bambino,  Isaak, che esibiva una straordinaria chioma verde sul capo.  

« No. Finiscono sempre in un niente di fatto. Se si escludono, naturalmente, tutti i cavalieri che muoiono ogni volta che i loro capi si comportano così. Ma almeno solo in rare occasioni anche il resto del mondo ne ha pagato le conseguenze ». 

« Ma è vero che ad Asgard danno i bambini da mangiare ai lupi? » chiese Hyoga.

« E che sono guerrafondai e animali? »

« E che hanno la faida e fanno le razzie? »

« Non si devono dare giudizi affrettati, » rispose Camus tranquillamente. « Il Sacerdote di Atene di pochi secoli fa, ad esempio, era universalmente noto come una bestia. Pronunciò la frase “se tutti i cavalieri devono morire per sterminare i parassiti di Asgard, ne sarà valsa la pena”. Poi gli arrivò la guerra contro Ade a tradimento, e non aveva più nessuno per combatterla. Il Sole restò buio per quasi abbastanza tempo da causare l’estinzione di parecchie specie. Da allora gli umani sono stati in guerra senza interruzione ». 

« Ma allora… è sbagliato essere cavalieri? » chiese Hyoga, confuso. 

« È sbagliato lasciare che qualcun altro pensi al vostro posto, » rispose Camus. « Il vostro rapporto con Atena è personale. Siete voi che dovete decidere chi volete essere. L’obbedienza causa guerre, regimi, e svariati altri sgorbi ».

« Beh ma se uno di noi ottenesse l’armatura vorrebbe dire che è degno della dea, e Atena è la dea della giustizia… » obiettò Isaak. 

« Il potere di Atena è molto debole su questa Terra da molti, molti secoli ».

« Però tornerà e sistemerà tutto, » insistette il bambino. 

« Forse. Non ci sono garanzie ».

« Ma sono dei! Atena e Odino— »

« Esatto, sono dei. Non devono certo rispondere a noi. Il che significa che, se ci sono, c’è un motivo; se non ci sono, c’è un motivo; e anche se ci abbandonano c’è un motivo — e il motivo può essere semplicemente perché così gli andava ».

Isaak era piccolo, ma era molto offeso. « Atena non è una dea così, io la sento benissimo quando dormo, » protestò. Era quasi arrabbiato col suo maestro. « Tu non ci credi più! Come fa l’armatura a non lasciarti? »

« L’armatura può operare in maniera imperscrutabile, e inoltre non è un punto di arrivo ma l’inizio di un percorso che può andare in tanti modi. Indossarla e sentirsi automaticamente dalla parte della giustizia sarebbe un errore. Solitamente si ritiene che, in mancanza della dea, l’obbedienza di un cavaliere sia dovuta al suo sacerdote… ma questi è solo un umano. Non può dirvi Atena cosa dovete pensare, figuriamoci il suo segretario — spesso auto-nominato e assetato di potere ».

« È cattivo anche l’attuale sacerdote? » fece Hyoga, dubbioso. 

« Non saprei, » ammise Camus. « Non credo, non risponde alle provocazioni e per ora la pace regge. Ma sta in cima alla piramide. Non esiste un modo per stare in cima alla piramide e rimanere completamente puri ».

« Urgh, è difficile ricordarsi tutte queste cose ».

« Perché i marmocchi non sono ancora molto intelligenti e trovano più comodo obbedire oppure lamentarsi, » rispose Camus nascondendo dietro il tovagliolo un sorrisetto furbo. I bambini si offesero molto, ognuno a modo proprio. Non c’era niente che li facesse più arrabbiare che essere chiamati bambini, e Camus segretamente trovava la cosa adorabile. « Isaak. Non sto cercando di farti perdere la fede. Ma dovete decidere voi cosa è degno della vostra venerazione, e adesso è semplicemente troppo presto perché possiate già saperlo. Siete liberi di considerarvi adulti, se avete tutta questa fretta di essere pieni di problemi come gli adulti, ma di fatto non lo siete ».

« Ma Atena tornerà? » fece Hyoga con un paio di occhioni color ghiaccio. 

Camus non aveva mai parlato ai ragazzi delle visioni su quella donna che diceva di chiamarsi Noctua; non era difficile capire che, se la sua storia era vera, si trattava dell’attuale reincarnazione di Atena — quello che era difficile da credere era che fosse ancora viva. Da quella volta, infatti, Camus non aveva più sentito in alcun modo la sua presenza da nessuna parte sulla Terra — e aveva dedicato centinaia di notti insonni a questa operazione. 

« Per la pace nel mondo ci vorrà un po’ di sforzo, » rispose enigmaticamente. « Io posso prepararvi, non posso dirvi che dovete farlo ».

I bambini rimasero in silenzio. Erano in crisi. Camus a volte si diceva che sarebbe stato meglio non essere tanto trasparente con due orfani, ma non voleva che credessero che al mondo gli restasse soltanto l’armatura. Non voleva crescerli come santi, com’era stato per lui. Voleva che sapessero che c’erano tante altre vite possibili da vivere, anche senza genitori. 

Camus si accese una Cosmos; a questo punto la donna che lo fissava era diventata davvero sfacciata, perché non aveva mai visto in vita sua un uomo  così bello fumare come un’attrice americana. 

I bambini conoscevano le abitudini di fumo del loro maestro, che erano l’unica cosa che faceva uguale tutti i giorni: la mattina metteva a bollire l’acqua e faceva un caffè fortissimo che beveva senza filtrarlo, e fumava una Cosmos; la notte si sedeva fuori rivolto verso il mare e fumava una Cosmos — a volte Hyoga e Isaak, quando avevano troppo dolore in tutto il corpo per dormire, si sedevano con lui ma non gli chiedevano niente mentre fumava; e, nei giorni liberi a Tiksi come quello, fumava prima una sigaretta, poi prendeva uno shot di vodka, poi ne fumava un’altra. Erano sempre due al giorno. Tranne quando era nervoso, o quando si sentiva male. 

Hyoga e Isaak non erano troppo curiosi del fumo, perché puzzava da far paura. La vodka, al contrario…

Fu come se i bambini si fossero parlati telepaticamente. Ma fu Isaak a parlare, perché Hyoga esitava spesso in quei casi. 

« Maestro, possiamo bere la vodka? » 

« No, » rispose Camus con tranquillità. 

« Oggi è il giorno libero! Perché no? »

« Perché ha 50 gradi e voi siete due lattanti ». 

« Non siamo per niente lattanti! »

« Maestro, veniamo solo una volta ogni due mesi… » fece Hyoga per dare manforte a Isaak. 

« Per la cronaca, fra altri due mesi sarete ancora lattanti, » osservò Camus, serenamente implacabile.  

« Ma se poi muoio prima di aver assaggiato la vodka? » obiettò drammaticamente Isaak. 

« Maestro, insomma, abbiamo già 8 anni! » protestò Hyoga. 

« Scusatemi, non mi ero accorto di essere in presenza della vetustà, » ironizzò pacatamente il loro maestro. 

I bambini lo vedevano bene che stava reprimendo un sorriso. Era anche per questo che amavano i giorni di festa, o i giorni dove si sedevano tutti e tre fuori la notte. Il maestro, che in addestramento era sempre durissimo ed estremamente austero, in quei momenti era un’altra persona. 

« Beh, sì ok tu sei più grande di noi. Per forza! Mica tutti possono arrivare alla tua età, » sbottò Hyoga.

Camus emise un grugnito piuttosto sonoro mentre, fumando, cercava di sopprimere una risata sincera. Hyoga arrossì un po’, perché non sapeva se aveva esagerato, ma gli faceva piacere averlo divertito. La signora all’altro tavolo, invece, era ormai innamorata persa, tanto era stato aggraziato il gesto con cui lo straniero aveva controllato la risata. Comunque, i bambini si misero a ridere, e anche la donna finì per sorridere come una sciocca. 

« Maestro, quanti anni hai? » chiese Isaak. 

« Non 180 come mi vedete voi, » rispose Camus, fingendosi offeso. « 27. Sono in età da marito ».

I bambini adoravano quando si metteva a fare lo stupido. Erano abituati a vederlo quasi sempre impassibile e severo, ma quando si mettevano a chiacchierare faceva delle battute che li facevano spesso morire da ridere.  

« Tu non puoi sposarti! » protestò Isaak. 

« Davvero? »

« No! Perché poi ci abbandoni, » disse il ragazzino con passione. « E poi te la tiri troppo per trovare marito ».

Hyoga arrossì di nuovo — e perfino Isaak lo fece, un pochino. Camus si divertì molto a fingere per qualche secondo di congelare con lo sguardo i piccoli provocatori. Dopodiché sorrise e si mise la sigaretta in bocca, facendo per alzarsi dal tavolo. 

« Beh, mi siete piaciuti. Vi vado a prendere— »

« La vodka?? »

« — un tè ». 

« Ugh ».

« Di quelli schifosi che sanno di terriccio, e pure freddo ».

« Daiii! »

Camus si alzò con un sorriso pestifero; poi tornò dal banco con dell’altro pesce salato e tre ryumky di vodka. 

« Temo di essere un degenerato, » ammise, mettendo due shot davanti ai ragazzini. 

« Ma noi non lo diciamo a nessuno, » garantì Hyoga con fare cospiratorio. 

« E poi certo che sei un degenerato. Ieri ci hai fatto fare gli esercizi di respirazione nella tormenta, » osservò Isaak. 

« Dopotutto, avete ben otto anni. Non posso addestrarvi come se foste bambini, » ironizzò Camus. « Infatti ho grandi progetti per domani ».

« Cattivo, » borbottò Isaak. 

« Beh, za zdarovje ».

I ragazzi fecero del loro meglio per imitare il maestro passo per passo nel brindisi, così tennero il bicchiere nello stesso modo, lo sollevarono nello stesso modo e poi, ahimè, bevvero lo shot alla goccia. 

 

Non molto tempo dopo, la strana famigliola era di ritorno a casa, in quel luogo dove nessuno sapeva che abitavano. Solo che i bambini erano completamente sbronzi e girava loro terribilmente la testa, così erano entrambi praticamente svenuti e Camus li portava in braccio, uno a destra e uno a sinistra come altre mille volte. 

Quelle erano le Anzhu, disabitate enormi isole poco più a nord del Circolo Polare Artico. 

In realtà, Camus era aiutato dai poteri dell’aquila nei suoi spostamenti, e limitava alla stretta necessità le visite al mondo abitato. I tre vivevano a quasi seicento chilometri di distanza da Tiksi. Camus aveva infatti scelto di vegliare sull’armatura del Cigno, che si trovava custodita in uno dei luoghi più inospitali del pianeta: la Terra di Bunge.

Si trattava di un istmo sabbioso al centro delle isole. Si estendeva per chilometri ed era uno spettacolo davvero incredibile, in pratica una piccola anomalia geologica lasciata indietro dalle glaciazioni: un deserto di dune di sabbia sopra il Circolo Polare. Nessun animale vi si avventurava, gli umani non sentivano il bisogno di esplorarla, e Camus era in effetti l’unico vivente sulla faccia della Terra ad averla percorsa tutta a piedi. 

D’estate qualche volta il deserto era allagato, così che le acque dell’artico, nere e gelide, circondavano in modo straordinario il deserto, mentre d’inverno, con sopra uno strato di ghiaccio duro come cemento, sembrava la superficie della Luna. Quando ci si trovava in mezzo a quel deserto le possibilità di perdersi e morire assiderati erano molto alte, e Camus non aveva mai permesso ai ragazzi di avventurarsi lì in inverno. D’estate le temperature si discostavano di poco dallo zero, e d’inverno scendevano anche più in basso che in Chukotka; l’anno dell’arrivo dei bambini era stato durissimo per loro, perché si era registrato un record di -68°C. Perfino Camus indossava una felpa sulle isole Anzhu, mentre a Tiksi, duecento chilometri più a sud, aveva di solito un po’ più caldo. 

Sulle isole, all’insaputa della gente di Tiksi e del resto del mondo, Camus aveva  a disposizione una terra enorme senza nessun umano a cui rispondere. 

Se qualcuno lo avesse seguito, avrebbe dovuto convincersi della tesi che egli appartenesse alla razza delle fate del ghiaccio: vicino a una sorgente di acqua termale si trovava un complesso fatto interamente di ghiaccio, arredato nel corso del tempo in maniera eclettica, col ghiaccio modellato ora in scultura ora nell’architettura di una cattedrale gotica. Cornici a vetro di ghiaccio incorporavano ai muri disegni o qualsiasi stampa che gli fosse parsa interessante, e il salone centrale era una fontana termale con al centro un enorme complesso scultoreo di neve eterna raffigurante delle renne in corsa — un suo piccolo esperimento, perché era molto interessato a creare un ghiaccio che non potesse mai sciogliersi. 

Una zona del complesso era l’abitazione dei due ragazzini. Attorno allo spazio per fare il fuoco erano disposti soffici giacigli di pellicce e coperte di lana, ognuno dentro un baldacchino di pelli. 

Non si riempivano mai i locali di fumo quando si accendeva il fuoco in qualche parte dedicata del palazzo: Camus aveva osservato le tipiche difficoltà incontrate dai Chukchi e aveva migliorato tutto, pensando anche ai comignoli per il fumo. Per quanto riguardava tenere a bada la neve fuori dal palazzo, procurare la legna o andare a pescare o cacciare, era tutto fra i compiti dei ragazzini. 

Hyoga era un ragazzo russo, ragionevole per la sua età ma forse irrecuperabilmente scioccato dal passato. Era piombato sul mare congelato che circondava le isole il giorno che la nave che lo doveva portare in Giappone era naufragata a causa del ghiaccio. L’incidente gli aveva ucciso la madre, e questo a sua volta gli aveva bloccato la testa, come quando un urto rompe un orologio e lo congela sull’ora dell’incidente. Ciò non gli precludeva buoni risultati nell’addestramento, ma Hyoga non era necessariamente interessato all’armatura e a diventare un cavaliere — sembrava che avesse i suoi motivi. Camus aveva simpatia segreta per quello che altri avrebbero considerato una forma di egoismo, ma era preoccupato di un castello costruito su fondamenta così fragili. 

Isaak, di un mese più giovane, era arrivato quasi sicuramente dalla Finlandia. Era completamente orfano e non sapeva spiegare come fosse arrivato lì — anche per Camus era un mistero, perché sembrava che, di fatto, il bambino, che ricordava sagome misteriose e ombre mostruose, fosse arrivato dal mare, semplicemente. Camus l’aveva trovato praticamente per caso, nuotando nel mare artico; ci era mancato un soffio a che il bambino morisse, e per diversi giorni era stato in bilico fra la vita e la morte. Era un bambino audace e dalla testa dura, e sarebbe stato anche di spirito se se lo fosse permesso: in realtà, prendeva tutta quella storia con una serietà mortale, e, forse perché si sentiva in dovere di proteggere Hyoga che era più emotivo, non si rassegnava quasi mai a mostrarsi debole. 

La vita era stata difficile per i due ragazzini venuti dall’acqua, perché così doveva essere. Hyoga soprattutto aveva fatto fatica ad abituarsi a vivere su isole disabitate, senza nessun tipo di comfort. Camus li sottoponeva a un addestramento davvero senza sconti, e così aveva fatto dall’inizio malgrado fossero stati talmente piccoli da non parlare neanche tanto bene. Erano passati tre anni, ma in questi tre anni Camus si era reso conto di amarli come figli suoi. 

Quella notte, quindi, Camus li depositò entrambi nello stesso letto per conservare il calore, dopo aver acceso loro il piccolo focolare. Isaak era crollato sul colpo, in un sonno profondo. Hyoga era cosciente, ma sembrava un po’ spaventato dall’effetto che gli stava facendo la vodka. Era stato un buon esempio pratico di “conseguenze delle proprie decisioni”. 

Camus gli fece compagnia per un po’, seduto sul bordo delle coltri. 

« Ho paura, » mugolò alla fine il ragazzino, tutto sepolto sotto le coperte ad eccezione di qualche ricciolo biondo che spuntava fuori. Isaak gli dormiva  attaccato, come morto. 

« Di cosa? » chiese Camus tranquillo, a bassa voce, quasi per non disturbare il crepitio del fuoco. 

« Di essere una delusione ».

« Perché hai paura di questo? » 

« Isaak è molto più forte di me. Se fallisco l’addestramento, o mollo prima… tu saresti deluso ».

Camus appariva impassibile, ma Hyoga guardava il suo profilo da sotto le coperte. C’erano due versioni del maestro quando era serio: una austera e spietata, e una dolce e sensibile. 

« Supponiamo che sarei deluso, se davvero ne sei convinto. E una volta che mi avrai deluso, cosa pensi che succederà? »

Il bambino non seppe rispondere.

« Non succederà niente. Tu non sei qui per dimostrare qualcosa a me ». 

« Ma dopo che ci hai dedicato tanto tempo… »

« Vi ho presi con me sapendo bene quello che facevo. Non dovete ripagarmi il tempo che vi dedico… quello è un regalo, non un prestito, » rispose Camus. « Se proprio ti senti in debito con me, non morire come un idiota per un motivo idiota. Per il resto, non vi considero in funzione di quell’armatura ». 

Hyoga faceva quasi ridere con quelle guance rosse e gli occhi ancora un po’ sbronzi. Il piccolo fece scivolare la mano fuori dalle coperte e si aggrappò, un po’ incerto, alla mano di Camus. 

« Di cosa vuoi parlarmi in realtà? »

Improvvisamente il bambino si era alzato, era scivolato in avanti ed era ricaduto fra le braccia di Camus, dove si mise di colpo a piangere. Quanta ruvida, secca, abrasiva disperazione di un’orfano era contenuta in quel pianto un po’ disarticolato, un’ulcera di dolore insopportabile su un cuore così piccolo. 

« Hyoga, » disse Camus. « Lo so che ti manca tua madre. Non te ne devi vergognare ».

« Lo sai? » chiese quello con una vocina debolissima. 

« Non c’è niente di strano. A me manca mio padre. Tutti i giorni, in effetti. Sono passati anni… fa ancora male ».

Hyoga si mise a piangere più piano, come per non perdersi una sillaba di quel segreto. Il maestro non aveva mai parlato di quell’argomento. « Però hai detto che non si devono portare i sentimenti in battaglia, o in allenamento ».

« Non si deve esserne schiavi, » lo corresse Camus. « Ma il dolore è inevitabile, e non può essere fermato da nessuno. Però dopo il dolore arriva la sofferenza nella tua testa. Quella sei tu a scegliere quanto dura, se quando arriva sei abbastanza forte. A volte ti serve, a volte la devi dominare. È questo che significa diventare un guerriero, non vestirsi di metallo e chiamarsi cavaliere. Altrimenti potrebbe farlo chiunque ».

« E se non ci riesco? »

« Beh, sono qui per aiutarti… che ti piaccia o no ». 

Hyoga lo strinse fortissimo, come per impedirgli di evaporare. Camus gli teneva dolcemente una mano sul capo. 

« Il piano è questo, » disse infine Camus. Sempre il suo tono misurato, ma con una nota conciliante che emanava calore. « Aspetta di essere grande prima di decidere se restare o meno. Il mondo non ha nessuna simpatia per i bambini soli. In effetti, mi rifiuto di riportarti a terra adesso e condannarti ad un orfanotrofio. Quando sarai un uomo andrai dove ti pare ». 

« Ma io non ti voglio mai lasciare, » pigolò il marmocchio.  

« Oh, prima o poi mi maledirai ».

« Non è vero ».  

Hyoga finì di piangere e si fece tranquillo, ancora abbarbicato al suo maestro come un koala. 

« Anch’io sto ancora cercando, sai, » gli disse Camus. « Lei. Il posto dove voglio andare… dopo di questo, se c’è un dopo. Se ci fosse stato qui il nonno avrebbe detto qualche sciocchezza sul fatto che tutto, incluse le persone che sono morte, è servito per arrivare a questo punto. Poi, però, a cosa servisse arrivare a questo punto non lo sapeva mai dire ». 

Hyoga si staccò per guardarlo in faccia. Col bianco arrossato, i suoi occhi sembravano ancora più chiari. Nel frattempo, Isaak si era messo a russare come una segheria a pieno regime, con un timbro impressionante per qualcuno così piccolo.  

« Io pensavo che non indossavi mai l’armatura perché non si poteva… Invece tu… non lo sai se la vuoi mettere ».

« L’armatura è ancora qui per un motivo, forse perché devo addestrare voi, » disse Camus. « Dopo… non so. Magari avrò fatto il mio corso. O dovrò inventarmi qualcosa da fare dopo ».

« Non sei arrabbiato? Se potessi andartene… insomma… sei in età da marito ».

Camus si sforzò di non ridere. « Sono qui per scelta mia. E sono morte delle persone perché voi veniste affidati a me. Quindi siamo tutti qui per fare le cose sul serio, non per darci alla vita sociale ».

« A noi che succede… se ti sposi? »

Camus fece una smorfia per non ridere. Sembrava che la questione allarmasse moltissimo Hyoga. « Niente. O prende anche voi, o se ne va al diavolo ».

« Perché tu gli farai lo sguardo della morte e lui dovrà fare come dici, » disse Hyoga. 

« Certamente ».

Hyoga si mise seduto, staccandosi dall’abbraccio, e si concentrò molto. « È che in città… non mi convince ».

« Certo che no. Li hai visti? Non ci penso nemmeno ».

« Perché sono brutti ».

« Molto ».

« Bassi ».

« Come un francobollo ».

« E stupidi ».

« Disastrosi ».

« Comunque adesso ce l’ho un’idea. Ci penso io a trovartene uno, » disse Hyoga con convinzione. 

Camus fece un sorriso conciliante, e di nuovo cercò di non ridere. « Va bene, affido la cosa a te. Ma non prenderla troppo sul serio ». 

« A me piacciono i maschi o le femmine? » chiese improvvisamente Hyoga. 

« Non lo so ». 

« Eh, ma nemmeno io lo so ».

« Perché sei piccolo e unicellulare. Lo saprai ». 

« Come? »

« Ci saranno segni, » rispose. E guai, probabilmente, pensò. « Bene, ora goditi la nottata sbronzo. Anticipazione: sarà un incubo. Domattina, quando striscerete dalla nausea e dal mal di testa, potrete pentirvi e giurarmi che non toccherete mai più la vodka. Buonanotte, » disse con un sorriso diabolico.

Camus lo invitò a sdraiarsi, dopodiché lo coprì. Hyoga a quel punto era praticamente già mezzo addormentato e stava cercando di dire un’ultima cosa, ma di fatto gli stava uscendo un borbottio confuso. Si distinsero solo due parole: « ‘Notte, papà ».

Camus rimase bloccato un momento, cercando di capire come sentirsi. Poi sorrise e li baciò entrambi sulla fronte. 

 

L’armatura dell’Aquario era conservata in bella vista, perché non c’era bisogno di farle altra guardia di quella che già le facevano le isole stesse, inospitali e inespugnabili. Così, su un lato del palazzo di ghiaccio, se ne stava lì mezza sepolta dalla neve, incastonata in una nicchia. 

Camus di solito non andava a trovarla. Di cose da dire ne avrebbe avute parecchie, ma quello era l’unico caso in cui non sapeva come esprimersi. Seduto sulla neve compatta, guardava la scatola. 

Fumava — sigarette extra rispetto alle due al giorno. 

« Nemmeno tu avevi idea di cosa fare con me, vero, Rydgev? » disse Camus.

L’armatura non dava segno di vita.

« Già. Ce l’ho ancora con te, » disse il cavaliere. « Sei morto per colpa mia. Mi piacerebbe sapere come cazzo ti sei permesso di prendere una decisione simile. Io però ce l’ho del buon senso: nel tormento non ce li lascio come hai fatto tu con me ».

Camus si portò istintivamente una mano al collo, dove c’era la cicatrice lasciata dal proiettile. 

« Mi dispiace, vecchio. Per tutto, » disse. « Mi manchi ». 

Quella notte Camus si tuffò in mare, nell’acqua completamente buia. Nera come la pece, preda di tormentosi vortici. In passato, quando aveva nuotato così per mezza nottata, spesso aveva rischiato di affogare, con la sua fissazione per vedere sempre fin quanto gli poteva reggere il corpo lì sotto. Ma ora c’erano i ragazzini. Non li poteva lasciare, sarebbero stati nei guai. Era diventato un uomo prudente. Ma forse gli mancava fare qualche cazzata ogni tanto. 

 

*

 

Un visitatore giunse al palazzo di ghiaccio nel settembre di tre anni dopo. Se non altro, bisognava rendergli merito che aveva affrontato il mare da solo per arrivare fino alle Anzhu… ma questo non lo rendeva comunque il benvenuto. Portava sulle spalle, assicurata da cinghie, una scatola molto simile a quella che aveva Camus. 

I ragazzi, ora undicenni, aspettavano sulla soglia del palazzo di ghiaccio. Il maestro stava ben eretto in cima alla scalinata d’accesso e bastava guardarlo per capire che non era affatto entusiasta di ricevere visite. 

« Lo sguardo della morte, » sussurrò Hyoga a Isaak.

« Vedrai che se ne va subito ».

Il visitatore arrivò tutto imbacuccato come un esploratore. I ragazzi gli fecero subito le lastre: sembrava alto, aveva dei bei capelli blu notte, lunghissimi e ondulati, raccolti con un certo studiato disordine; la pelle liscia e gli occhi color cielo. Però purtroppo non andava comunque bene perché doveva per forza essere stupido: al maestro dava molto fastidio che si camminasse verso di lui, non se ne accorgeva? I ragazzini quindi aspettavano con una certa tensione che il maestro si arrabbiasse sul serio. 

« Non ho invitato nessun cavaliere a casa mia, » osservò Camus, con una voce abbastanza tonante per farsi sentire da distanza. Gli allievi avevano già il fiato sospeso: il maestro era gelido come quell’inverno che Isaak ci aveva quasi reso l’anima, faceva paura.

« Davvero? Peccato. Perché da qui o mi mandi via con la forza o sei bloccato con me, » rispose il visitatore. Era sicuramente pazzo. 

« Bene, accomodati ». 

Il visitatore fece quindi il gesto di avvicinarsi ancora e incamminarsi per le scale, e a questo punto i ragazzi dovettero ripararsi il viso con le braccia perché il cosmo del maestro esplose improvvisamente formando un muro di vento: lo straniero dovette fermarsi dov’era e l’intera facciata del palazzo si era coperta di spine di ghiaccio così acuminate da fischiare come spade. 

« Hai detto “accomodati”, » fece presente lo sconosciuto. 

« Certamente non vicino a me, » si offese il maestro. 

« Siamo a quindici metri ».

« Troppo vicino. Accomodati lì, per esempio, » fece il maestro con un cenno altezzoso del capo, a indicare un punto del piazzale piuttosto lontano dall’ingresso, dove c’era una panchina di ghiaccio che immediatamente si ricoprì a sua volta di spine. 

I ragazzi erano in estasi. Il maestro era in forma, lo straniero era irritato, e con un po’ di fortuna avrebbero fatto a botte. 

« Tu testi la mia pazienza, cavaliere, » lo avvisò il visitatore, che sorrideva come se avesse apprezzato la battuta della panchina con le spine, ma in realtà stava iniziando ad emanare un’aura piuttosto pericolosa e stranamente pungente. 

« È assente, senza bisogno di testarla. Sei già lì tutto infiammato col cosmo di fuori come un ragazzino. Le armature le regalano, mi sembra ». 

« Buffo, stavo per dire la stessa cosa riguardo a te ». 

I ragazzi non batterono nemmeno le palpebre, eppure non riuscirono a capire cosa fosse successo, perché era successo a velocità troppo elevata. Percepirono solo uno spostamento d’aria così violento che un pezzo di facciata del palazzo se ne venne giù in ritardo, come a rallentatore. L’intero suolo di quella zona dell’isola si era ribellato all’intruso sollevandosi in una foresta di spine, una parte delle quali aveva formato una corona a un millimetro dalla gola dello sconosciuto; per quanto riguardava il maestro, qualsiasi cosa fosse accaduta in una frazione di secondo, era ferito alla gamba e sanguinava, il che era assurdo. 

Hyoga intervenne, allarmato: « Maestro non gli fare del male! È lui! »

« Che— »

« Avevo detto che te l’avrei detto. Te lo sto dicendo! »

Camus si voltò verso Hyoga per scoccargli l’inequivocabile sguardo del “taci”. Eppure non sembrava davvero arrabbiato. 

Toccò allo sconosciuto parlare.

« Senti. Vuoi stare qui i famosi mille giorni? O ce la vogliamo vedere a parole da bambini grandi, che dici? » Camus non rispondeva e le spine non smettevano di puntare alla gola dell’avversario. « È veramente stupido che tu rischi di morire e così abbandonare i tuoi ragazzi senza neanche aver sentito cosa devo dirti. Sì, sì… lo vedo che ti incazzi, come mi permetto di affermare di essere capace di ucciderti, ma… che ne sai? Lo vuoi questo rischio? Così, per niente? Ti prendo per un essere razionale. Mostrami dignità, cavaliere ». 

Hyoga e Isaak dovettero davvero trattenersi dallo spalancare la bocca, completamente esterrefatti: le spine di ghiaccio si ritirarono e tutto tornò normale. 

I ragazzi si guardarono con gli occhi sbarrati. 

« Hai mai visto una cosa del genere? » bisbigliò Isaak a Hyoga. 

« Io l’ho detto che è lui, » bisbigliò Hyoga di rimando.

« Vi sento là dietro, » sillabò Camus senza voltarsi, e i ragazzi si ammutolirono. 

Ricompostosi, il cavaliere sconosciuto rivolse a Camus uno sguardo attento e leggermente strafottente. « Posso? » Camus annuì e il cavaliere venne avanti. « Ok, adesso non mi lanci contro tutta la furia del Polo? »

« Adesso hai chiesto il permesso prima… razza di animale ». 

Eppure il visitatore non sembrava per niente spaventato dal maestro. Sembrava perfino che si divertisse. 

« A proposito, dalle nostre parti non si lanciano tecniche mortali per farsi i cazzi propri, ma per un valido motivo ».

« Non riesco a immaginare motivo più valido che farti andare via ». 

« Maestro! Sii carino! » bisbigliò Hyoga. 

« Mi avresti ucciso se avessi potuto? » chiese il cavaliere. 

« Non lo so. Forse, » fece Camus alzando appena una spalla. 

I ragazzi si scambiarono un’occhiata preoccupata come a dire “sta rovinando tutto”. Non ci si poteva proprio fidare del maestro per quel genere di cose. Isaak prese subito la situazione in pugno ed esclamò all’indirizzo del visitatore: « Ehi, straniero! Non farci caso se fa così, insisti! »

Camus dovette veramente ricorrere a tutte le sue forze per non reagire a quella scenetta, e si limitò a irrigidirsi come chi abbia messo i piedi scalzi in una tinozza di lumache. Lo sconosciuto represse una risata mentre finiva di salire le scale. 

« Pfftt. Ok, ok… rifacciamo, » sorrise, tendendo amichevolmente la mano. « Milo dello Scorpione ». 

Il maestro ovviamente fece un po’ il sostenuto, ma alla fine rispose, un po’ altezzoso, alla stretta di mano. « Camus ». 

« Dell’Aquario, » completò Hyoga, sollecito.

Milo gli sorrise. « Grazie, caro. Credo che il vostro maestro sia un ragazzo molto timido, » disse con un sorriso pestifero. « Beh, entriamo? Fa un freddo cane ». 

 

Si era levato di colpo un gran vento, che ululava come un branco cosmico di lupi. All’interno, il muggito del vento era in qualche modo attutito dall’acustica particolare di quel palazzo, ma era comunque abbastanza perché si dovesse alzare un po’ la voce per parlare. 

Milo non aveva mai visitato un palazzo di ghiaccio e doveva ammettere di essere piuttosto colpito di trovare una struttura simile, addirittura arredata, in mezzo al nulla più completo. Stava iniziando a pensare che il cavaliere dell’Aquario l’avesse tirato su tutto da solo, compresi certi punti rivestiti di legno e certi archi incrociati sulle altissime volte, e che fosse fatto di ghiaccio eterno: un po’ mago, un po’ architetto, un po’ ingegnere e un po’ scultore. Inoltre, si era beccato il suo cosmo in faccia, e non aveva notizia di nessun misterioso eremita autodidatta così potente, escludendo  certamente il ragazzino della Vergine. Non era sorpreso che quel Camus fosse così urgentemente desiderato al Santuario. 

« I tuoi ragazzi parlano bene l’inglese per essere così giovani, » disse Milo. 

Si erano accomodati in una specie di incredibile salotto alla turca, ed era stato acceso il fuoco con una certa implicazione beffarda, come se il nuovo arrivato fosse una mezza sega che non sopportava nemmeno quel gradevole clima settembrino a -10, che loro probabilmente consideravano estivo.

« Parlano russo, inglese e greco moderno, » rispose Camus con indifferenza, e i ragazzi si fecero tutti impettiti.

« Anche tu? »

Camus arricciò leggermente il naso. « Oltre al tedesco, al greco antico e al luorawetlan ».

« Mh. E, dimmi… con chi parli in tutte queste lingue? Non contano quasi tutte come lingue morte, se non c’è un umano con cui parlarle? »

« Senti, lo so che sei venuto a invitarmi a partire. Il problema è che non ho tanto desiderio di perfezionare le lingue da venire con te, mi spiace ».

Milo represse una smorfia mentre considerava un fatto divertente: il Sacerdote era stato sul punto di inviare Shura prima di optare per lui. Meno male che aveva cambiato idea per i suoi motivi imperscrutabili: l’incontro del Capricorno con quell’altezzoso sarebbe finito in un disastro. Milo invece stava iniziando a sentirsi piuttosto intrigato. 

« Ad ogni modo… ti scoccia se parliamo in greco? In madrelingua sono più simpatico, » disse Milo.

« Davvero un’occasione da non lasciarsi sfuggire, » rispose Camus in greco. 

« … Cazzo, » esclamò Milo. « Lo parli benissimo. A parte l’accento da eremita dei trichechi. E senza aver mai incontrato un greco in vita tua? »

« Perdonami se non arrossisco, » disse Camus freddamente.

« Mica volevo farti piacere. Penso solo che… σιχτίρ, sei tutto cervello, tu, vero? »

« Com’è che hai detto? »

« Uh… σιχτίρ ».

« Cosa sarebbe in inglese? »

« Fucking hell, credo. Me lo dici in russo? »

« Чёрт ». 

« Chjort. Mi piace come lo dici ».

« Hmpf ».

I ragazzi, seduti lì da una parte, erano intenti a seguire la conversazione con la massima attenzione. Erano davvero poche le persone a scambiare parole col maestro, e sicuramente non così a lungo… e addirittura in casa sua? Non avevano nemmeno mai conosciuto un altro cavaliere, e pensarono che il fatto che non battesse ciglio di fronte al maestro fosse una cosa davvero straordinaria, che lo qualificava come un guerriero sopraffino, di quelli che non hanno paura di niente. 

« Cosa stanno facendo? » bisbigliò pianissimo Hyoga a Isaak. I loro mormorii erano protetti dal rumore del vento, stavolta. 

« Si piacciono, » sussurrò Isaak senza staccare gli occhi dalla scena. 

« Beh, comunque… » riprese il cavaliere dello Scorpione, « hai ritenuto il greco importante da insegnare, quindi… »

« Sì, certo, » disse Camus freddamente. « Nel caso in cui un ciarlatano dalla Grecia venisse qui a dire sciocchezze. È molto importante conoscere la lingua di chi si definisce tuo padrone. Senza, potresti essere ingannato ».  

« Quanto sei drammatico ».

Camus non rispose, rimase liscio e piatto come il fianco di un ghiacciaio. Milo si voltò verso i ragazzini: si era accorto che erano come figli suoi, il che gli aveva fatto tenerezza pensando ad altri maestri che c’erano in circolazione, e aveva anche notato che erano stati ammessi all’incontro come due pari senza nemmeno discuterne, cosa che indicava che il cavaliere dell’Aquario non solo non era ossessionato dalle gerarchie come altri colleghi, ma doveva addirittura trovarle ridicole. 

« Competete per l’armatura del Cigno? » chiese Milo.

« Esatto! » rispose prontamente il ragazzino dai capelli verdi, che sembrava il più carico dei due. « Ma siamo convinti che saremo i primi casi a ottenerla insieme ».

Milo sorrise. « Beh, perché no? Non è un caso senza precedenti. È piuttosto ricorrente con l’armatura dei Gemelli ». 

Milo vedeva con la coda dell’occhio che Camus lo guardava con un sopracciglio alzato. I ragazzini erano completamente avvinti: la loro curiosità era stata risvegliata. 

« Beh, sicuramente avete sentito tante storie. Però in Grecia, al Santuario, dov’è il posto del vostro maestro e vostro, ci sono parecchie cose impossibili che succedono di continuo. Voglio dire, a parte il piccolo miracolo dell’elettricità e dell’acqua corrente ». 

I ragazzi fecero tanto d’occhi.

« Scorpio… » disse Camus con la freddezza del suolo di Urano. « Stai usando i ragazzi per raggiungere me? »

« Sì, » sorrise Milo. 

« Sei un sempliciotto ».

La conformazione del salottino, che molto probabilmente non era casuale ma studiata appositamente, fece sì che il fuoco, malgrado piccolo, avesse creato un bel tepore in breve tempo. Uno dei ragazzi aveva messo anche a fare il caffè sul fuoco. Milo si tolse la giacca e si rese conto che il ragazzo biondo lo stava guardando attentamente anche se di sottecchi, probabilmente cercando di capire se era all’altezza del suo maestro. 

« Hai mai visto uno come me? » chiese rivolto a Camus. 

Quello, che era intento a mettere il caffè macinato nel pentolino, si fermò un attimo col mestolo in mano con quell’aria assurda di eleganza completamente casuale. Poi dovette concludere che Milo era un cretino e tornò a mescolare senza neanche rispondergli.  

« Voglio dire, a parte la mia bellezza, i miei occhi da sogno, il mio fascino pericoloso… »

Sembrava che il bambino biondo non si potesse più trattenere. « Maestro, se ci pensi non è basso, non è eccessivamente scemo e vabbè, è vecchio, ma non è per niente brutto ». 

« O fate le persone serie che fanno interventi seri, o andate a letto in questo istante. È chiaro? »

Milo vide che i ragazzi abbassavano la testa, ma non ci erano rimasti male, perché non erano stati criticati: si fidavano completamente di lui, ma erano anche stati educati a tenergli testa. Stava iniziando a pensare che quella ghiacciaia umana fosse una persona piuttosto interessante. Senza tenere in considerazione, naturalmente, che non c’era alcun motivo logico per cui al circolo polare si dovesse nascondere un tipo tanto attraente con dei capelli scarlatti lisci come il piombo fuso e gli occhi come due fiamme. 

« No, non hai mai visto uno come me, » riprese Milo. « Perché non hai mai visto uno come te, a parte te. Ora siamo due cavalieri d’oro uno di fronte all’altro. E ce ne sono degli altri da dove sono venuto. Gente con cui hai qualcosa da spartire ».

« Questo rimane da vedere, » disse Camus. « Inoltre, se sei tanto preoccupato che io mi senta un alieno da queste parti, sappi che non ho particolari problemi a fare quello che voglio. Qui ho massima libertà di espressione ».

« Mh… sì. Sei proprio contento di stare qui, eh? Solo, completamente, a vivere senza… cazzo, senza niente. Dev’essere per questo che i tuoi ragazzi hanno captato che hai voglia d— »

« La vuoi piantare? » lo fulminò Camus. 

« Guarda che io non sono contrario, eh ».

Sicuramente qualcuno avrebbe anche potuto uccidere per un simile broncio. Milo però non era un novellino, e sapeva benissimo come gli ricadevano i capelli in disordine sulle spalle e l’effetto che la cosa faceva di solito. 

« Uh, ok, ok, ti stai incazzando di nuovo, » sorrise. « Senti, l’ho buttata lì, puoi farmene una colpa? Proposta di riserva: vieni fuori. Facciamoci male, senza armatura. Perché io è da prima che sento il bisogno di prenderti a schiaffi, e tu non mi ascolterai mai se prima non sono alla tua altezza, giusto? Allora? Vieni? »

« Stavamo per bere il caffè, » disse Camus indifferente. I ragazzi stavano praticamente per esplodere, perché a quel punto desideravano vedere il duello. 

Milo nascose un altro sorriso, stavolta un po’ più sfacciato. Un vero osso duro. 

 

Milo doveva ammettere che in fondo si era creata una situazione carina. In primo luogo non aveva mai bevuto un caffè tanto forte e bollente mentre sulla pelle sentiva il bruciore di un tale freddo. In secondo luogo, fare la lotta con Camus nella neve l’aveva rimesso al mondo. 

Il cavaliere dell’Aquario non aveva la benché minima idea di essere in grado di raggiungere col corpo una velocità inaudita. In altre parole, l’aveva scoperta da solo e, per come lo stava iniziando a conoscere, probabilmente non la considerava nemmeno niente di che. Forse non gli era mai nemmeno venuto in mente che avrebbe potuto letteralmente attraversare la Russia di corsa se gli fosse venuta la curiosità di visitare un altro luogo: in pratica, era sempre rimasto al suo posto, in quell’isola sperduta, e questo dimostrava che, anche se era irrispettoso dell’autorità, aveva in compenso una totale devozione ai doveri che si imponeva da solo. Era molto strano: qualcosa lo legava profondamente all’armatura dell’Aquario e probabilmente anche a quel luogo, eppure era in crisi di fede e questo era piuttosto evidente. 

Tanto per fare un po’ di spettacolo per i ragazzi che facevano fatica a seguire, Milo aveva invitato Camus a muoversi più lentamente. La merdina surgelata era autodidatta anche nel corpo a corpo e, manco a dirlo, non sfigurava nemmeno in quello — se era poi capace di sfigurare in qualcosa, in generale. Il combattimento fu condotto con i ragazzini che facevano il tifo a volte con un po’ troppa passione sanguinaria per dei bambini di undici anni. 

La fine del duello li trovò un po’ doloranti entrambi, con qualche osso incrinato e qualche livido. Roba che sarebbe passata subito su corpi come i loro, anche se Camus probabilmente non era consapevole neanche di questo. Comunque anche Aquarius era stato piuttosto cavalleresco malgrado fosse un eremita, e, come Milo, aveva evitato il viso e tutti gli altri punti vietati dalla cortesia. Avevano un po’ di fiatone. 

Milo rimase un po’ troppi secondi di troppo a guardare Camus che si tergeva con la punta del dito una goccia di sangue dalle labbra. Però, andiamoci piano: andava bene tutto, ma non il ribaltamento dei ruoli. Lasciarsi sedurre da un eremita dei ghiacci che non vedeva anima viva dagli anni ’60 sarebbe stato vergognoso. 

« Ok, senti, ora basta convenevoli, » disse Milo, massaggiandosi un po’ una costola malridotta. « Dimmelo, Aquarius, come mai da anni ignori le chiamate del Sacerdote? »

I bambini smisero di respirare. 

« Non ho ancora finito, qui. Se il Sacerdote ha un attimo di pazienza, rispondo quando posso ».

Dare del bambino impaziente a Shion. Era davvero un fatto positivo che non fosse venuto Shura. Il Sacerdote era stato particolarmente saggio a scegliere un negoziatore più flessibile. 

« Sì… come no. Il punto è che dovrai finire l’addestramento dei ragazzi in Grecia. La convocazione significa che presto saremo tutti necessari. E infatti, ci siamo già tutti, tranne gli ultimi giovanissimi che stanno finendo adesso, » disse, strizzando l’occhio ai ragazzini. 

« Per cosa, per Asgard? »

« Scusami? »

« Se è per Ade o qualche altro pazzo apocalittico, ci vengo. Asgard… guerre  stupide, di conquista, ego e testosterone. Temo che non me ne importi niente ». 

« Non puoi scegliere tu le guerre, è Atena che le sceglie, e le sceglie per il meglio ».

« Atena non c’è — o quantomeno, io ho sentito un uomo chiamarmi, non una dea. La guerra contro Asgard è ridicola, stupida. Tutti i sacerdoti che l’hanno promossa sono idioti e miopi ». 

« Shion non l’ha promossa, mai, ha sempre risposto quando gliela portavano in casa, » si offese Milo.

« E ora gli serve il mio aiuto perché i negoziati stanno fallendo? Peccato, non lo so se me la sento ». 

« Il tuo aiuto? Chi pensi di essere, regina del Polo? Questi sono ordini. Il tuo compito è servire ». 

« Io sto servendo, » sibilò Camus seccamente. « Addestro questi ragazzi. Lavoriamo per costruire il futuro dei giovani, eccetera. Lasceresti l’armatura del Cigno non reclamata da nessuno? E poi come fa il Santuario con un cavaliere di meno? » 

« Camus, tu sei un cavaliere d’oro ».

« E quindi? Anche le armature di bronzo sono importanti. Sei così snob? »

« Che cazz— »

Milo dovette fare uno sforzo disumano per ricomporsi. Non aveva mai sperimentato livelli di impertinenza così estremi. 

« Cavaliere, » disse severamente. « Tu sei il custode dell’undicesima Casa, una delle ultime difese al Palladio che è l’anima stessa della dea. Esegui l’ordine, o rinuncia al tuo status ». 

« Va bene ».

Milo batté le palpebre. « … Come? »

« Il tuo ego fa tanto rumore da assordirti, che devo sempre ripetere le cose? Rinuncio al mio status. Firmiamo col sangue? »

« Ma non hai appena detto che stai servendo Atena addestrando questi ragazzi? »

« Non ho certo bisogno di un titolo e di un Sacerdote che pensi al posto mio per farlo ». 

« Sì? Beh, se hai rinunciato dovresti restituire l’armatura ».

« Non credo proprio ».

Milo notò un cambio di atteggiamento. Ci voleva occhio per notarlo, perché Camus sembrava avere sempre la stessa espressione e lo stesso tono: ma lo sdegno che aveva avuto fino a quel momento, tutto sommato, era divertito — quell’ultima frase, invece? Pura, impenetrabile difensiva russa. L’armatura era un argomento scottante. 

« Beh, non puoi fare come ti pare e semplicemente licenziarti e portarti pure via la stampante ».

« Perché no? »

« Perché quelli come te non nascono 250 volte al minuto come gli altri, ma  molto più raramente, » sbottò Milo. « Nessuno ha tempo per aspettare un tuo successore — col rischio che poi ti somigli ». 

« Senti, Scorpio, sono vecchio. Ho 30 anni. Eccedo di parecchio la durata media della vita di un cavaliere, dato che tre quarti dei cavalieri dell’ultima guerra contro Asgard sono morti assai prima di quest’età, » si lagnò Camus, pungente. « Lasciami ai miei cateteri, ti prego ». 

« Paura di morire giovane? »

« Tu no? »

« No, io no ». 

« Beh, possono esserci due spiegazioni. O pensi di essere invincibile, oppure sei un fanatico. Solo chi aderisce a una religione in modo fanatico è così pronto a buttare via la propria vita. La quale, del resto, non è mai stata sua ».

« Infatti è di Atena ». 

Camus era completamente impermeabile a quel fervore. Forse lo trovava addirittura ridicolo. O forse quella era la traccia di una brutta ferita. 

« Ti prendevo (tutto sommato) per un uomo, invece sei una marionetta. Dovrei seguirti al teatro dei burattini? Mi spiace, in Grecia fa troppo caldo per i miei gusti ».

« Rovente, » confermò Milo. « È normale che tu abbia paura ». 

Doveva ammettere che era stata una provocazione abbastanza scontata, ma ci rimase comunque male che Camus non solo non la raccogliesse, ma non la degnasse nemmeno di considerazione.

« L’armatura per la quale si allenano i ragazzi si trova qui. Non andiamo da nessuna parte. È ora che tu te ne vada ».

Il bastardo era serio. Aveva intenzione di disobbedire all’ordine della chiamata, che era forse il più solenne che potesse venir impartito. Neanche il cavaliere della Bilancia si era presentato, ma lui era stato esentato. Camus  invece aveva deciso di tradire. E l’onore imponeva a Milo, che lo vedeva succedere sotto i propri occhi, di prendere provvedimenti. 

Però, sfortunatamente per la propria pace mentale, Milo era per natura uno scettico; e aveva già avuto modo in altre occasioni di assistere alla profanazione del sacro. Perciò, naturalmente, il traditore, col suo greco in accento russo, era diventato molto interessante. 

« Puoi ospitarmi? » disse con indifferenza. « Ora come ora tornare sulla terraferma è impossibile ». 

« Fino a domattina. E non cambierò idea nottetempo… Milo. L’armatura dell’Aquario è costata ».

« Quanto? »

« Tutto. E se pensi che intenda andarmene in giro a metterla al servizio del primo patriarca che me lo chiede sei completamente fuori strada. Io parlo solo con Atena, ammesso che ci sia. Le parole di chiunque altro di voi sono solo aria. Verrò quando mi sembrerà giusto venire. Vattene domattina, e non tornare mai più ». 

Indisponente, intransigente, intollerante, presuntuoso e piuttosto esasperante. Milo si sentiva addosso la cotta più strana che avesse mai avuto in vita sua. 

 

*

 

Il vento continuò ad ululare come una bomba atomica quella notte. In mezzo a quel rumore sembrava quasi di sentire il grido di un uccello marino, o no, forse di un rapace — un’aquila. 

Milo non dormiva, malgrado quella stanza degli ospiti, che sicuramente non era mai stata usata prima, fosse sorprendentemente comoda. Col fuoco accesso e il maglione addosso il freddo non era poi proibitivo, ma come si faceva a dormire nel frastuono di quel vento?

Attraverso il ghiaccio gli parve di veder baluginare l’atmosfera, e pensò che dovesse trattarsi delle famose aurore boreali. Probabilmente non ci sarebbe stato verso di dormire, fra una cosa e l’altra. A contrasto con il cielo diventato violetto si scorgeva ogni tanto, fugace, l’ombra di un paio di vaste ali. 

Milo stava pensando di uscire per guardare il cielo quando si accorse che, in un lampeggiamento particolarmente subdolo della volta celeste, il cavaliere dell’Aquario era entrato nella sua stanza. 

« Hai freddo? » gli disse beffardo, vedendo Milo intento a ravvivare il fuoco. 

« Tu in felpa leggera, » osservò Milo, facendo l’indifferente. Gli costò una certa fatica tenere in piedi la recita, perché in realtà si sentiva molto compiaciuto. Per ora non voleva dire “felice”. « È possibile che al Santuario moriresti davvero per il caldo. Non credo che questo sia stato considerato. Forse dovrei lasciarti qui per davvero ». 

Camus sorrise senza rispondere e si sedette fra le pelli e la lana che facevano da coperte. Gli mise in mano un bicchiere da shot, il quale si era formato sul momento, dal ghiaccio. Dopodiché lo riempì con della vodka; il gesto elegantissimo era degno di Ganimede, il coppiere degli dei che proteggeva la sua costellazione. E che Zeus stesso aveva voluto rapire tramite un’aquila, dopo avergli dato una bella occhiata. 

« Questa scalda, » disse. 

« Mi stai facendo ubriacare? » si stupì Milo. 

« Dipende. Funzioni meglio o peggio da ubriaco? »

« Sai… non ti facevo così sfacciato ». 

Milo buttò giù un sorso di vodka e trattenne una smorfia: era praticamente fuoco servito dentro il ghiaccio. Il vento continuava a rombare, mentre Camus se ne stava lì seduto a farsi il suo turno di shot.

« Devo ancora andarmene domani? »

« Certamente ».

« Sai, nel mondo esterno quello che sei venuto a fare proprio adesso si chiama usare una persona ».

« Lo sospettavo. Mi spiace ».

« Nah, va bene, » fece Milo prima di buttare giù un altro bicchierino che gli venne prontamente servito. « Ma non me ne vado domani. A parte che dubito che fra un po’ vorrai ancora che io fili via all’alba, ma poi… »

« Poi cosa? »

« Non sono venuto con tutte le cattive intenzioni che credi. E che credevo anch’io, lo ammetto. Parliamo solo qualche volta senza ringhiarci addosso e senza partire da nessun presupposto e vediamo come va. Non interferirò con l’addestramento ».

Milo si arrischiò a smettere di tirarsela e guardare Camus. Beh, fra quei capelli, quel profilo e quelle clavicole che spuntavano dal collo della felpa, davvero niente da dire; in più, la situazione era esaltante — non c’erano molti posti abitabili più a nord dove farlo, il che costituiva un’ottima storia da raccontare. 

Ma gli pareva che la questione fosse meno lineare di quel semplice “nah”. A questo punto aveva in testa solo di cogliere l’occasione, operazione che, doveva ammetterlo, gli trasmetteva quasi struggimento. Ma l’occasione, d’altra parte, veniva offerta in completa indifferenza. Non che fosse nuovo alla pratica del sesso occasionale. Solo, gli veniva l’impressione che stavolta sarebbe stato doloroso. 

Finalmente Camus, sentendosi osservato, si voltò con uno sguardo fra l’infastidito e il vagamente impacciato e gli piantò in faccia due iridi color brace. Milo non aveva mai visto occhi in quel modo. Di certo stavano succedendo un sacco di cose lì sotto, dietro la patina lucente del riverbero del fuoco. Era indifferente? Era sospettoso, tipo “orso polare va in città”? O era solo Milo che avrebbe preferito che quella di Camus fosse in fondo solo paura, perché l’impassibilità avrebbe fatto troppo male — al suo ego, principalmente, o forse a qualche altro settore più nascosto?

« Non puoi darmi una possibilità? Te lo sto chiedendo con questa faccia, » disse Milo. « E non mi dire che non ti fa effetto, perché non sei venuto qui stasera perché stai bene con te stesso. Probabilmente nessuno ti ha mai potuto tenere testa in vita tua, sbaglio? E lo trovavi terribilmente noioso ».

Camus non rispose subito. Attizzò distrattamente il fuoco, poi si toccò le mani come per pulirsele, facendo in questo modo, di nuovo, un gesto davvero magnetico che gli uscì in maniera completamente indifferente. Sul fatto che avesse un’alta opinione di sé stesso intellettualmente non c’erano dubbi, ma doveva essere completamente ignaro dell’effetto che faceva fisicamente. Beh, se ci era cascato Zeus con Ganimede, Milo che speranze poteva avere?

« A me non dispiacerebbe necessariamente se tu avessi una parte di ragione su tutta la faccenda, » ammise Camus.  

Beh, era qualcosa. 

« Ma non ti mettere in testa cose strane riguardo al resto, » aggiunse. 

« Amore, credimi, non sono esattamente nuovo della partita ».

Beh, era stato impulsivo. Non era la prima volta. A quel punto pensava solo che lo voleva da morire, e la cosa in quel momento sembrava valere qualsiasi cosa, figurarsi qualche piccola bugia. 

« Bravo ».

Milo non vide il motivo di continuare a giocare a chi aveva meno voglia. 

Protese leggermente la mano per poggiargliela sulla guancia. Un po’ si era aspettato che fosse fredda come neve, invece era piacevolmente tiepida. Col polpastrello del pollice gli toccò le labbra; poi fece un gesto come a scansargli i capelli dal viso, e lo sentì rabbrividire quando con l’indice gli sfiorò l’orecchio. Camus stava reagendo già con entusiasmo, che era in qualche modo involontario; e stava usando solo gli occhi per mettere Milo in guardia. Ma alla fine sembrò decidere di accettare l’accordo, con tutti i rischi che comportava — soprattutto quello che Milo, che in teoria dei due era quello che sapeva cosa stava facendo, si prendesse cura di lui. 

« Dimmi solo una cosa, è la prima volta che lo fai? »

« Non vedo cosa cambi ».

« Ok, è la prima volta ». 

Camus fece per scansare la testa in un moto che voleva essere di sdegno, ma sembrava più imbarazzo, e lo rendeva quasi irresistibile. Milo gli trattenne il viso delicatamente con entrambe le mani. 

Si baciarono lentamente. La bocca di Camus sapeva di vodka ed era fresca come se avesse appena bevuto acqua fredda; Milo sentiva, trattenuto con eccitazione guardinga, un respiro di ghiaccio che gli diede un brivido alle vertebre. Ma il suo collo era caldo, le sue mani erano calde. Il suo cosmo, che un po’ era immenso e rigido come quell’isola e un po’ ricordava le pestifere fate delle fiabe del Nord, iniziava a bruciare nell’eccitazione mentre il suo corpo iniziava a flettersi, arcuarsi verso di lui. 

Come se fosse stato troppo curioso per aspettare, Camus gli infilò le mani sotto il maglione e glielo tirò via. Subito il morso del freddo fece rabbrividire Milo fino alla punta delle dita. Camus gli diede una bella occhiata, in un modo che a Milo diede la scossa al ventre. Poi si lasciò sdraiare, e si lasciò baciare molto più profondamente. 

Inizialmente furono solo sospiri, espirazioni mozze e affannose, quasi impossibili da udire nel rumore della bora. Ma Milo stava aderendo così strettamente al torace di Camus da poter percepire il respiro pesante dal suo diaframma; e il modo in cui Camus gli fece spazio aprendo le gambe; o il  suo modo, quasi assurdo, di essere magnifico sdraiato in quel modo sulla pelle di renna, come uscito direttamente da una fantasia… gli venne il dubbio di stare dormendo e di essere in procinto di sporcare le lenzuola. 

La prima volta che un gemito uscì ad alto volume dalla gola di Camus, Milo pensò con una scossa di piacere che suonasse irresistibilmente sporco. Gemette ancora mentre Milo gli baciava il polso e il palmo della mano. Farsi spogliare gli piaceva completamente e in modo del tutto naturale, cosicché il suo cosmo ora bruciava liberamente. Gli piacevano le labbra di Milo dietro l’orecchio, lungo le costole, o dove iniziava l’inguine. 

Quando Milo gli sfiorò appena il cazzo, il rumoroso singhiozzo che uscì di bocca a Camus fu tanto soddisfacente che l’altro decise che sarebbe stato un peccato non tormentarlo nemmeno un po’. 

Si mise a tergiversare, perfino a guardarlo e sorridergli senza fare niente, e ci mise di proposito un’eternità a chinarsi, dopo essersi buttato i capelli dietro le spalle. Ascoltando quei deliziosi lamenti, lo percorse lentamente prima solo con le labbra, si dedicò con una certa flemma alle sue palle fingendosi indeciso, ne baciò appena la sommità tanto per vedere se riusciva a strappargli una supplica. Il ventre di Camus ebbe uno scossone flessuoso, come la spira di un pitone, mentre gli si inarcava la schiena come per ingiungere all’aguzzino di darsi una mossa. 

Invece lui continuò a fare come voleva, con lentezza. In effetti, avrebbe voluto sentirlo gemere per sempre. Ma ora come ora non riusciva a prendersi in giro… voleva cacciare un sospiro profondo e stringerlo come un disperato, e si accorse a quel punto che Camus non gli piaceva “tanto”, né gli piaceva “troppo”: Milo era messo molto peggio di così. 

Il cosmo di Camus sembrava uno spazio limpido e austero, quasi infinito, uno spazio dove si sarebbe potuto camminare per sempre in pace senza incontrare nessuno per tutta la vita; sotto una banchisa di ghiaccio spessa cinque metri, però, un abisso di correnti vorticava con un vero marasma di idee disparate e un terribile buio. Neanche morire avrebbe avuto un brutto aspetto in un posto come quello. Così gli diceva il suo cosmo — in miraggi di neve che promettevano una morte dolce e piena di bellezza. 

 

Milo, dal canto suo, sfruttando sfacciatamente la scusa che Camus era vergine, decise di centellinare il sesso; Camus obiettava che lo faceva solamente perché gli fosse permesso di restare più giorni, ma in fondo doveva trovare lo scherzo divertente, perché ci stava. 

Per qualche giorno si ripeté quindi un gioco di poteri relativamente innocente, per cui era Milo a decidere la conclusione ma era Camus a decidere di andarsene, e di non restare mai a dormire; e la notte successiva tornava quando gli pareva, mai alla stessa ora. Ma tornava, con quell’espressione irresistibile di chi stia dissimulando di ingoiare l’orgoglio. Spesso il suo arrivo era anticipato dal vento forte e da un altro stridio dell’aquila.  

Notte dopo notte Camus faceva quei versi meravigliosi mentre Milo lo masturbava o gli faceva un pompino. A volte c’era un punto in cui diventava molto silenzioso, trattenendo il respiro mentre stava in doloroso equilibrio fra il venire e il perdere l’orgasmo. E, a quanto pareva, voleva essere lasciato lì. Anche dopo qualche notte, si rifiutava comunque di essere il primo a lasciar andare. 

Certe notti Milo sedeva sul letto mordendosi assente il labbro inferiore, mentre Camus si inginocchiava sul pavimento e intanto, con quell’aria pratica che lo faceva sembrare ancora più porco, si legava i capelli. Da lì in poi per Milo era quasi una tortura. Le mani di Camus erano davvero belle, specialmente col suo cazzo fra le dita, e anche la maniera in cui notte dopo notte si ingegnava a ingannare il suo riflesso di gola da principiante — e migliorava a vista d’occhio. Dava l’idea di stare assaporando. Ma non parlava mai. 

Ne erano passate sei, di notti, quando Camus finalmente lo rimproverò di allungare il brodo. Non dovette insistere nemmeno troppo; Milo aveva deciso che era il momento giusto per scoparlo, o forse era lui stesso a non farcela più. Si erano organizzati con un olio che normalmente Camus usava sui capelli. 

Nel momento in cui Camus strinse le palpebre, serrò i denti e lasciò andare un lamento acuto nel momento in cui Milo entrava, Milo sentì la sua piccola cotta azzardata diventare un problema enorme. 

Camus aveva iniziato a sudare per il dolore e a gemere a pieni polmoni per il piacere, e Milo strinse di più le mani attorno ai suoi fianchi come se si fosse aggrappato a un precipizio per non cadere e morire. Spingendo in quel modo dentro il suo corpo si sentiva quasi lui stesso come l’ultimo arrivato della partita. Dovette concentrarsi parecchio per non venire subito come un novellino eccitato.

La “piccola cotta azzardata” era ormai famelica come un branco di lupi. Mordeva specialmente quando alla fine Camus se ne andava a dormire in camera sua, e quando la mattina dopo faceva finta di niente o addirittura lo ignorava mentre addestrava i ragazzini. 

Una notte, al decimo giorno, Camus non si presentò per niente. Non c’era vento, il cielo era nero e spento, e faceva un freddo cane. Quella notte Milo seppe di esserci completamente cascato, e di essersi fatto un gran male esattamente come aveva sospettato una settimana prima. Osava dire che gli venisse perfino da piangere.

 

Milo riemerse dalla notte che aveva trascorso in gran parte in bianco nel tentativo, largamente infruttuoso, di prendere la cosa come una persona adulta. 

Si rese conto che qualcosa non era esattamente a posto, ma non capì subito cosa. La routine mattutina che aveva imparato a conoscere sembrava svolgersi normalmente, all’infuori di qualche piccolo dettaglio. 

Camus non era stato il primo di tutti a svegliarsi e Milo non l’aveva trovato già intento a preparare il caffè — era stato così le ultime mattine, e si erano sempre scambiati un assonnato sorriso complice, che era stato per giorni l’unica concessione, l’unica traccia di quel che era successo la notte prima. Quella mattina c’era il ragazzino biondo, Hyoga, a fare il caffè. Questo fu pronto proprio al momento giusto quando Camus decise di fare la sua comparsa. 

Il suo cosmo era sigillato così strettamente che, se Milo non l’avesse visto coi suoi occhi, avrebbe potuto pensare che fosse morto. Non incontrò lo sguardo di nessuno, e i ragazzi intorno a lui sembravano discreti e pieni di riguardi — affettuosi, anche, nel modo specifico di quella particolare famiglia. Quel giorno non si tenne alcuna lezione teorica e i ragazzi quasi si addestrarono da soli, e intorno a Camus parlavano a voce più bassa, come si fa con chi ha mal di testa. Milo notò che ogni tanto, gentilmente, con qualche scenetta, si impegnavano a farlo ridere. 

All’inizio fu solo questo, poi nel pomeriggio Camus iniziò a diventare pallido, quasi verdastro, e sembrava che anche solo pensare gli desse la nausea. Non lamentò niente e si comportò quasi normalmente, ma dall’espressione in viso sembrava che avesse i denti stretti, e spesso teneva gli occhi chiusi con un’espressione molto sofferente; all’ora di cena, Milo fu toccato nel vedere i bambini insistere perché Camus mangiasse, e nel vedere lui che, malgrado avesse evidentemente lo stomaco chiuso, lo faceva più per loro che perché volesse davvero mangiare. Qualsiasi cosa stesse succedendo non era la prima volta, pensò Milo. 

Milo si era tenuto abbastanza in disparte e aveva pensato lui stesso ad allenarsi tanto per fare qualcosa, non volendo intromettersi; in parte si sentiva un idiota, perché a questo punto era evidente che Camus si sentiva poco bene — mentre lui non aveva pensato che alle proprie paranoie a causa della sua assenza della notte prima. Invece che aspettarlo con tutto quel misto di ansia e di rabbia, avrebbe dovuto andare da lui, magari, e invece era stato di nuovo orgoglioso, addirittura vanitoso. Anche se di questo adesso si vergognava, pensò di dovergli dire qualcosa. Era tutto molto strano perché era vero che lo conosceva appena, ma ora si sentiva molto apprensivo. 

Però Camus era sparito dopo cena. 

 

Isaak era fuori a sistemare la legna che aveva spaccato col suo piccolo collega. Nel buio si udiva gridare l’aquila. 

« Sai dov’è andato il tuo maestro? » gli chiese Milo.

Isaak gli diede un bello sguardo approfondito, come se stesse studiando le sue intenzioni, e volesse decidere se era il caso di rispondergli. A Milo venne da sorridere: i ragazzini si prendevano cura del loro maestro sotto ogni aspetto, senza fare smancerie e senza farglielo pesare. 

Il bambino dovette decidere in favore di Milo al termine di una certa riflessione, perché gli rispose in ottimo greco. « A volte il maestro si comporta in modo diverso dal solito e la notte va via per conto suo ».

« Sai dove va? »

Isaak era sospettoso, ma sembrava proprio un adulto: scrutava Milo nel profondo. Voleva chiedergli una mano, ma prima doveva decidere se era la persona giusta. 

« Non vuole che lo seguiamo. Una volta ci abbiamo provato… non ci abbiamo provato più ».

« Davvero? Eppure sembrate due tipi che fanno un po’ come gli pare ».

« Non quando è arrabbiato davvero ».

« Arrabbiato davvero? »

« Il maestro non è mai arrabbiato davvero. Può sembrare, ma non lo è mai veramente, » spiegò Isaak. « Però è successo quando siamo andati a nord dietro a lui. Abbiamo pensato che non si sentisse bene e abbiamo pensato di seguirlo ma… lassù dove c’è la balena le cose sono strane. Ci ha salvati ma era… davvero incazzato che avessimo rischiato. Non ha detto né fatto niente ma… faceva paura. Non ci abbiamo più provato ». Isaak abbassò per un attimo lo sguardo, cosa che non era sua abitudine. « Penso che il maestro vada a nord quando c’è qualcosa che non va ».

« Succede spesso? »

« A volte. Ma il maestro ha l’aria stanca quando torna e non parla bene. La mattina dopo fa come se niente fosse, ma ha la faccia distrutta e sente freddo anche se fa finta di no. Penso che lassù viva un mostro, e lui ci va per nutrirlo così che non si arrabbi ».

« Andrò a controllare io, non ti preoccupare, » disse Milo, indovinando quello che Isaak era troppo orgoglioso per chiedergli. 

« Per portarlo in Grecia? »

« Per portarlo a casa ».

Il ragazzino gli sorrise un po’ impacciato. 

« Beh… convincilo ad andare in Grecia, per favore ».

Milo era un po’ stupito. « Come mai dici così? Non ti piace stare qui? »

« A me piace qui. Ma ti ho detto una bugia, » ammise il bambino. « Non c’è nessun mostro. Il maestro sta male. Sono sicuro che è così, anche se non lo dice. Deve parlare con un dottore. Sta veramente male ». 

 

Inizialmente Milo era stato una persona razionale che si poneva domande razionali: per quanti chilometri si estendeva l’isola a nord, e quanti ne doveva percorrere prima di trovare Camus? Doveva aspettarsi problemi malgrado l’isola fosse disabitata? Come avrebbe fatto a trovarlo di preciso, dato che si era messo a nevicare e non c’era modo di seguire delle tracce?

Ma davanti a lui continuava a manifestarsi, per pochi secondi alla volta, un’aquila nera. E alla fine le coordinate, insieme con qualunque concetto di ancoraggio alla realtà, si confusero. 

A Milo sembrò di saltare da un teletrasporto all’altro, ogni volta con un certo disagio fisico, mentre all’immensa tundra si sostituivano pendici rocciose brulle coperte di ghiaccio, e ghiacciai tutti grotte, pinnacoli contorti e risvolti mortali. La cosa straordinaria era che il cielo era quasi completamente coperto dallo scheletro, fatto di ghiaccio trasparentissimo, di una balena gigantesca. 

Andando avanti, sempre dietro all’aquila che era come un miraggio o forse come una trappola, gli parve che la natura fosse diventata senziente, e che la magia del gelo che animava completamente quel paesaggio si fosse fatta intenzionalmente crudele — e che, per giunta, soffrisse molto. 

Il ghiaccio infatti si plasmava sotto i suoi occhi, e cercava attivamente di respingerlo; Milo doveva restare in movimento e non perdere mai il senso né dei dintorni né di dove metteva i piedi, mentre evitava di cadere in un crepaccio di chiodi che prima non c’era, schivava il fianco stesso di un ghiacciaio che gli si abbatteva addosso, resisteva a una valanga o scivolava come un’anguilla mentre il ghiaccio formava un tubo vorticante attorno a lui per rinchiuderlo. 

A quel punto, per giunta, il freddo era proibitivo. Milo doveva bruciare attivamente gran parte del proprio cosmo per non congelarsi, e lo stesso l’energia delle sue stelle sembrava un soffio patetico in mezzo a quella natura schiacciante. 

Era chiaro come mai Camus non desiderasse essere seguito dai bambini. Ma perché se ne andava in un posto simile quando stava poco bene?

Solo dopo aver attraversato, dal fondo, un precipizio di cui non si vedeva la cima, Milo cominciò a capire come stavano le cose. 

Il ghiaccio che ricopriva le pareti del precipizio, rendendo impossibile un’ipotetica scalata e mettendo a ogni momento a mortale repentaglio la spedizione di Milo, era rosso; probabilmente era sangue congelato. Assumeva forme per lo più astratte, che cambiavano rapidamente come se fosse stato una sostanza fluida. A tratti si indovinavano corpi e volti, qualcuno che si teneva la testa, qualcuno che si copriva gli occhi, qualcuno che si chiudeva su sé stesso prima di finire in briciole, e si udivano pianti e lamenti, voci aggressive, sussurri, come se ci fosse stata una gran folla di gente e ognuno di loro fosse stato completamente pazzo. Il percorso sul fondo di quella gola, che era come un orrendo caleidoscopio di pensieri dolorosi, trasmetteva a Milo un senso di paura e di solitudine così reali che gli sembrò di essere lui a provare quei sentimenti. Per poco non si arrese e non si lasciò ammazzare. 

Ma l’aquila a tratti continuava ad apparire, più avanti… e il sentiero sul fondo del precipizio iniziava a piegare in una scivolosa discesa. Spine, fauci, e mani di ghiaccio scarlatto cercavano di afferrare Milo o di spingerlo via; la terra tremava e sgroppava, e la roccia continuava a piangere. 

Ma Milo si era accorto che quello non era altro che l’interno di una testa… quasi sicuramente quella di Camus. 

Da lì in poi la discesa finiva, la strada era spaccata e restava il precipizio senza fine di un cratere. Milo sentiva l’aquila che lo chiamava dal fondo. 

Il ghiaccio davanti a lui formava la gigantesca statua animata di una figura umanoide — che però aveva tratti mostruosi e la testa spaccata in due parti come da un colpo di accetta. Singhiozzando, l’enorme statua vivente si copriva pateticamente gli occhi con le mani mentre dagli occhi grondavano due cascate di sangue. Le cascate di lacrime finivano sul fondo del cratere, che da lì non si vedeva. Però sicuramente Camus era lì in basso. 

« Io non lo so che cazzo sto facendo, » ammise Milo a sé stesso, tanto per darsi la carica. Era arrivato fin lì accumulando dal tragitto non solo un freddo che lo stava uccidendo, ma anche un senso troppo, troppo lacerante di paura e di disperazione. 

Comunque era sempre suo fratello quello che si trovava sul fondo del cratere, prima di qualsiasi altra cosa e prima di qualunque paranoia stupida  da innamorato delle ultime ventiquattr’ore. Così, Milo saltò giù e basta. 

 

In un secondo la sua testa le aveva pensate tutte, e aveva valutato ogni maniera in cui sarebbe morto toccando il fondo; invece non successe. 

Sul fondo del cratere Milo atterrò leggero come una piuma, e c’era silenzio, completo silenzio. 

Era un cimitero di balene. Ce n’erano a decine, a tutti i livelli di decomposizione, e la puzza di pesce e di marcio era quasi da dare di stomaco. 

Camus era lì per davvero, sdraiato in maniera scomposta sotto lo sguardo ormai fisso di un capodoglio morto; e, per quanto sembrasse assurdo, tremava di freddo. 

Milo pensò che stava probabilmente rivivendo qualcosa, e che fosse meglio non strapparlo bruscamente di lì, anche se voleva veramente riportarlo indietro più velocemente possibile. Così si avvicinò a lui levandosi la giacca e buttandogliela addosso, prima di raccoglierlo tra le braccia, leggero e quasi esanime com’era, e cercare di scaldarlo col proprio cosmo. 

Nelle notti precedenti Milo si era accorto, naturalmente, che Camus aveva due cicatrici. La prima era quella sul collo, che sembrava il bruciapelo di un’arma da fuoco. In quel momento stava sanguinando parecchio, così che Milo tenne la ferita ben schiacciata con la mano per fermare il flusso in attesa che il cosmo di Camus tornasse normale e potesse rigenerarla. 

La seconda cicatrice era quella più curiosa, una specie di stella cometa sul suo torace. Era coperta dai vestiti, ma Milo sentiva, con la mente, che stava bruciando. 

« Vattene, » disse Camus nel suo abbraccio strettissimo con voce arrochita. « Sta per esplodere ».

Il paesaggio del fondo di quel cratere stava cambiando. I cadaveri delle balene stavano iniziando a sfrigolare; l’atmosfera si stava facendo bianca per gradi, mentre cadeva qualcosa dal cielo con una lunga scia di morte; c’erano, inesplicabilmente, una renna col suo piccolo che correvano sul posto, come nei sogni peggiori, quando si cerca di fuggire ma non ci si muove di un millimetro. 

Poi, effettivamente, qualcosa esplose. 

Milo vide i cadaveri delle balene friggere e poi liquefarsi, la renna col cucciolo prendere fuoco e i loro scheletri squagliarsi, e sentì che gli stava scoppiando il cervello e che il suo corpo stava venendo distrutto, che le componenti stesse del sangue venivano scisse. 

Ma non lasciò andare Camus. 

L’ultima cosa che vide, senza capirne il motivo, fu il baluginare di mezzo secondo del viso di una ragazza dai capelli ricci, alla quale poi si sostituì, nel silenzio assoluto, il volo di un aereo bombardiere nel cielo, come ripreso in un vecchio documentario.

 

In qualche modo, finì. 

Era tutto scomparso, intorno a loro c’erano soltanto roccia e neve. E addosso a entrambi c’erano le armature d’oro. Milo seppe subito che erano state chiamate da qualcuno, e che erano state loro a tirarli fuori da quella trappola. 

Camus non sanguinava più ed era anche lui cosciente. Sembrava completamente stravolto, stanco, ma agitato dal terrore. 

« Che cazzo pensavi di fare a venirmi dietro? »

« Stavi male, » rispose Milo semplicemente.

« Avresti potuto morire! »

In un altro momento, magari, Milo si sarebbe anche rallegrato di quel tono: era vera paura. Camus aveva gli occhi lucidi. 

Milo era sicuro che tutta quella storia, l’esplosione, il cielo bianco, perfino le renne significasse qualcosa di molto grave; e gli venne in mente quell’immagine che in fondo popolava le paure di tutti i bambini nati in piena corsa agli armamenti — quell’aereo, quel fungo, quei cadaveri come tizzoni. 

« Torniamo a casa, i ragazzi sono preoccupati a morte, » disse Milo, senza chiedergli niente. Poi fece un cenno verso di lui, tutto bardato d’oro. « Lo sai che ti sta davvero bene? »

Camus, sfinito, non si mise nemmeno a discutere. 

 

*

 

Era di nuovo notte. Ma stavolta, anche se era tornata la tranquillità, erano tutti un po’ fusi. 

Camus sedeva in disparte fuori e fumava, al buio rischiarato soltanto dal cono di una torcia poggiata a terra. I bambini si erano separati da lui solo da poco, e solo dopo aver scoccato entrambi un’occhiata significativa a Milo: era il loro modo per raccomandarsi che il maestro non venisse lasciato solo. 

Milo non aveva intenzione di farlo. Si sentiva ancora molto disturbato da quello che aveva visto nel corso della giornata — e forse, in parte, era lui stesso che non voleva rimanere solo dopo quello spettacolo. Non tanto perché fosse stato spaventoso… più che altro perché era stato molto triste.  

« Hai voglia di parlare? » chiese Milo, sedendosi accanto a Camus. Gli mise in mano una lattina di birra, e l’altra se la stappò per sé. 

Il viso di Camus si tese per un attimo, si mosse, oscillò — voleva dire di sì o forse di no, ma di fatto sembrava che non riuscisse a parlare. 

Così Milo aspettò pazientemente. Si sedette e subito gli prese la mano e la stritolò leggermente, senza aggiungere altro. Era ancora fredda. Ma la pelle era davvero perfetta.

« Qual è il tuo segreto? » disse allegramente. « A me le mani si sono seccate da far schifo con questo freddo becco ». 

Camus sorrise stancamente, ma con sincerità. Tenendogli la mano, Milo gliela accarezzava col pollice. Alla fine Camus, spenta la sigaretta, si rassegnò a poggiargli la testa sulla spalla. 

« Hai una sigaretta? » chiese Milo. 

« Non sapevo fumassi ».

« Socialmente ».

« Che cazzata ».

Risero a bassa voce. Milo iniziò a fumare sputando il fumo di lato, perché non cadesse sui capelli di Camus. 

« Non è strano starsene tutti in piedi sopra questo pianeta… sul dorso del nostro peggior nemico? » disse Camus di colpo. 

« Non so, » disse Milo, continuando a stringergli la mano. « A me sembra più che sia il genere umano il nemico numero uno del genere umano ». 

« E se il genere umano avesse inventato l’atomica perché è malato? »

« Malato di cosa? »

Milo lo stette a sentire mentre gli raccontava della bile nera, come fosse stata una fiaba macabra. Era la prima volta che ne sentiva parlare, se si escludeva qualche nozione di cultura generale su Ippocrate e la teoria degli umori. Camus gli parlò di questa strana sostanza che veniva dal cosmo profondo; gli parlò di gente che iniziava a procedere incurvata, che cominciava a mettersi in testa idee contorte e meste; di un mondo intero che si chiudeva e soffriva accessi di rabbia, di popoli che si massacravano in preda all’isteria, fino a deprimersi un giorno e non rialzarsi più in piedi. 

« Come sai dell’esistenza di questa sostanza? »

« Me ne parlò una donna una volta. Una donna che forse ora è morta per colpa di essa ».

Per ora, Milo non indagò: la cosa faceva a Camus davvero del male, e pensò che fosse meglio che uscisse con naturalezza nel discorso. 

« E senti che ne subiscono tutti l’effetto ».

« Non è necessario che fingi di credermi ».

« Non fingo. Ammetto che potrebbe essere possibile. Tutto qua. Intanto non ho dubbi sul fatto che alcune persone sentano l’arrivo del male come i gatti sentono nell’atmosfera e nell’elettricità che arriverà una tempesta. Per non dire che… beh, fossimo malati, sarebbe una bella notizia. Almeno Hiroshima non sarebbe nemmeno colpa nostra, se il pianeta avesse la bile ».

Camus sospirò leggermente e rimase lì, con la testa sulla sua spalla. Milo gli lasciò andare la mano per circondargli le spalle col braccio e stringerlo un po’ di più. 

Poi improvvisamente Camus si discostò.

« Ho fatto qualcosa di sbagliato? »

« Non voglio che sembri una cosa che forse non è. E hai aiutato anche troppo ».

« Sai, non credo che esista una cosa come aiutare “troppo”, » osservò Milo. « A meno che uno non sia andato in paranoia, certo. Se la tua preoccupazione numero uno è continuare a sottolineare che tra noi non c’è niente… »

« Piantala ».

« No, allora piantiamola tutti e due. È meglio non farlo più se— »

« Eccolo lì ».

« Eccolo lì cosa? »

« Il ricatto morale, » disse Camus con freddezza. « O ti do delle garanzie, o non rischi l’investimento ».

« L’hai detto in maniera orribile, ma lo capisci che in realtà non è che sia un concetto sbagliato? »

« Non lo è se stai comprando una casa, » rispose quello, implacabile. Era diventato di nuovo un ghiacciolo. « Per me ti sei fatto le paranoie quando non mi sono presentato ieri, ma dopo ti sei sentito una merda per aver pensato che la cosa girasse intorno a te, e mi sei venuto a cercare perché te lo ordinava la coscienza. Adesso vuoi sapere cosa siamo dopo una settimana che ci conosciamo, e tutto questo è francamente appiccicoso. Lasciami perdere ».

Milo sorrise senza farsi vedere. In parte perché non era mai andato a letto con qualcuno che fosse così ostinatamente resistente al suo fascino. In parte perché in fondo era stato dentro la sua testa — e ora lo vedeva bene quanto sanguinava. 

« Allora, in questo punto normalmente mi incazzerei, ma sei ridotto a uno straccio e non ti strapazzerò. Punto primo: i ragazzini sono preoccupati. E secondo me per questo sei tu quello che si sente in colpa, o non scapperesti in fondo a un cratere ogni volta che hai veramente bisogno di aiuto, » disse. Forse, dopotutto, lo stava strapazzando un po’. « Secondo… in effetti, sono piuttosto appiccicoso. Credimi, l’ho sempre saputo. E ti dirò anche un’altra cosa che a te risulterà terrificante: sono consapevole che a volte divento possessivo o addirittura geloso ».

« Ugh ».

« Già. Non ne vado fiero, » ammise Milo, facendo per scherzo il modesto. « Così, in genere, taglio la testa al toro non lasciandomi coinvolgere. Ma… sì, non mi vergogno di dirtelo: stavolta sono stato maldestro e ci ho preso la fiammata. Capita. Non è colpa di nessuno se non siamo compatibili. Ma sei ancora il custode dell’undicesima casa e io dell’ottava. Siamo legati da qualcosa di molto più importante… da un’eufonia cosmica. Perciò riguardo al tuo invito di prima di lasciarti perdere… ti lascio stare, se vuoi. Ti lascio in pace. Smetto di provarci con te, smetto di chiederti cos’hai, smetto anche di farmi illusioni, tutto quello che vuoi tu, ma non ti “lascio perdere”. Fattene una ragione. È una cosa a vita. Pure di generazione in generazione, secondo alcuni. Non ti lascerei morire sul campo di battaglia. Men che meno ti lascio qui fuori stasera a deprimerti da solo ».

Camus non rispose. Al buio non ci sarebbe stato verso di capire la sua reazione a quel discorso — ma non serviva guardarlo, perché aveva mosso leggermente la gamba in modo che toccasse appena quella di Milo. Quest’ultimo rispettò le distanze e non si mosse. 

Poi il cielo gradualmente baluginò di un bagliore verdastro. Creste di luce color smeraldo apparvero nel buio. Schioccavano, vibravano e danzavano lentamente, come un incendio al rallentatore.

Milo aveva il naso incollato per aria. 

« Prima volta? »

« Sì, » ammise lo Scorpione. « Sì… non sapevo neanche come immaginarla. Sai… ho fatto il ganzo, ma è la prima volta che lascio la Grecia. E le notti precedenti che c’è stata l’aurora, diciamo… ero concentrato su uno spettacolo migliore ».

« Pf ». Camus girò la testa dall’altra parte, imbarazzato. 

« Sei arrossito ».

« Non vedo come faresti a dirlo, al buio ».

« Lo percepisco. Inoltre, ti trema la voce ».

« Cretino ».

Dopo pochi minuti di spettacolo silenzioso, l’aurora stava già iniziando a spegnersi.

« Già finita ».

« Tornerà dopo, » disse Camus. 

« Come fai a dirlo? Lo senti nei reumatismi? »

« Lo percepisco ».

Risero. Era da un pezzo che era finita la birra, e che il cielo era tornato nero.  La gamba di Camus toccava ancora quella di Milo. E a lui batteva il cuore come a un’idiota delle superiori. 

« Conosci qualche favola siberiana? » chiese Milo. 

« Sì, perché? »

« Mi piacerebbe sentire quella dalla quale sei uscito tu ».

Camus mosse appena un dito e a Milo si coprì l’orecchio di una dolorosa crosta di ghiaccio. Stavolta sentì ridacchiare Camus quasi come un ragazzino. 

« Avevi detto che avresti smesso di provarci, » lo rimproverò poi l’Aquario. 

« Ho cambiato idea. Lo faccio un sacco di volte. Specie negli ultimi giorni ».

Di nuovo Camus non disse niente. Milo lo sentiva piuttosto rilassato, che era una buona notizia dopo quello che aveva passato — ma indovinava anche una tensione, lo sforzo che stava facendo per ascoltare l’istinto e fidarsi di lui. Conoscendo il tipo, non doveva essere molto contento che un’altra persona avesse testimoniato di quel che c’era dentro il cratere. 

« Dai, raccontamene una. Sul serio, » rise Milo.

« Pf. Va bene. Vuoi sentire di una strega inacidita e vendicativa? »

« Ah, la mia ex ».

« La tua ex volava su un mortaio e viveva su una casa costruita su zampe di gallina, aveva i denti di pietra e il naso di metallo? »

« Certo che no. Non l’avrei mica lasciata in quel caso, » protestò lo Scorpione.

« Cos’ha fatto perché tu le dia della Baba Yaga? »

« Si fa così quando ci si lascia. Suppongo lei stia raccontando agli amici che ce l’ho moscio ». 

« Beh, allora meglio non mettersi neanche insieme ». 

« Allora meglio non mangiare la melopita, perché dopo la devi cagare ». 

Risero. Poi Milo ebbe un brivido di freddo, malgrado non si stesse troppo male, e con questa scusa si avvicinò a Camus di un paio di centimetri. 

« Com’è fatta la melopita? » chiese lui. 

« Uh… partendo dal presupposto che il mio apice come cuoco è il sandwich al tonno, è… tipo una torta di ricotta e miele ».

« Sembra buona. Sarebbe bello provarla ».

Voleva davvero venire in Grecia, probabilmente. E voleva davvero confessare il motivo per cui sentiva di non poterlo fare, ma stava probabilmente combattendo contro un blocco mentale durato una vita. 

« Che poi ti sei presentato qui senza portare nemmeno niente di tipico dalla Grecia ».

« Scusa? A parte, che cazzo ne sa un orso polare delle regole del venire in visita, e poi sono venuto a prelevarti militarmente, non a portarti il cheesecake ».

« Non ho veramente voglia di combattere contro di te, Milo. Mi hai salvato la vita ».

« Ti puoi sempre arrendere. Io ho giurato di non farlo, ma tu sei libero, giusto? Libero di fidarti di me ».

« Una volta qualcuno mi disse che sarebbe arrivato un indizio su cosa cercare, quando fosse venuto il momento di partire, » disse Camus. « Annunciato da un mio simile ».

« Inizi a pensare che possa essere arrivato quel momento? »

Camus inspirò, ma non lasciò andare il respiro; lo trattenne nel petto per qualche secondo, e Milo, con i corpi che ormai si toccavano, lo sentì irrigidirsi. 

« Non ho la bile nera, » disse Camus. « Ho la schizofrenia ». 

« La schizofrenia? Sei sicuro? »

« Mh-m ».

Dal greco antico, pensò Milo, “scissione della mente”. Questo dava un po’ di contesto a tante cose, soprattutto al labirinto di incubi di neve della giornata appena trascorsa. Ripensò all’enorme figura umana di ghiaccio col cranio diviso in due. 

« Mi dispiace, » disse sinceramente. « Non credo sia bello tenerla sempre sotto controllo come fai tu ».

« Io sono nato in Normandia ».

« Devi per forza parlarmi in francese, » disse Milo per sdrammatizzare. 

« Lo parlavo anni fa, e male, comunque… non sono mai andato a scuola. Poi non l’ho più voluto nemmeno ricordare. Non lo voglio più parlare. Non penso più in francese da parecchi anni. A volte qualche incubo in francese ».

« Posso chiederti perché? Non hai mai pensato di rivedere la Francia? »

« Per niente. E poi non l’ho comunque mai vista, da bambino. Ho sempre visto solo la stanza del manicomio dove stavo, » ammise Camus. Milo istintivamente gli mise la mano sulla coscia e strinse in una piccola morsa affettuosa. « Poi, dopo ogni elettroshock… mi dimenticavo anche che era lì fuori, la Francia. La gente. Sapevo che non li avrei mai visti di persona e così ho iniziato a odiarli ».

« Come sei scappato? »

« Mi ha portato via quell’aquila. Non so dirti niente di più preciso, » rispose Camus. « Mi sono risvegliato nella tenda di Umky. Dopo due secondi in cui ero… morto, mi è sembrato. Ho sempre avuto l’impressione di essere morto con l’ultimo elettroshock. E a volte adesso mi sento come se fosse l’armatura che mi tiene in vita. Ma in realtà sono morto ».

« Adesso li hanno chiusi quei posti di merda, credo, » disse Milo dolcemente.

« Meglio così. Comunque la faccenda dell’essere morto è il genere di merda che direbbe uno schizofrenico, » disse Camus freddamente. « Non contraddirmi e non farmi agitare, e non avrai nessun problema ».

« Senti… diciamo che hai la schizofrenia. No, non ti incazzare, aspetta, » disse Milo. « Diciamo che ce l’hai. Vedi… gli umani normali diventano schizofrenici. Termine tecnico. Coniato da gente che schizofrenica non è, per definire i pazienti, ovvero gli alieni. Gli altri, gli stranieri. In fondo anche gli inferiori, perché in genere i medici vedono così i pazienti. E quelli che sono gli “altri” devono al più presto tornare normali in seno alla società, è la regola. Ma vale solo per loro. Il fatto è che tu non sei un umano normale. Il fatto è che lei è con te da quando sei nato. E forse quello che hai nella testa è un regalo. Ovviamente, al Santuario, che gode di una cultura molto più avanzata rispetto a entrambi i lati della cortina di ferro, potresti comunque vedere un medico, per smussare gli aspetti che ti fanno star male e stare un po’ più tranquillo. E inoltre… lì non saresti “l’altro”, o nemmeno lo straniero che sei sempre stato. Saresti uno di noi ».

« Non soffro affatto la solitudine come credi tu, » replicò Camus, orgoglioso. 

« E io penso che questa fosse una cazzata, » obiettò Milo. « Non credo che tu senta il bisogno di feste e barbecue aziendali, vero… ma che non ti piacerebbe essere te stesso in mezzo a persone con cui ti senti al sicuro, mi dispiace, ma è una balla ».

Il fiume sulla cui sponda bianca era costruito il palazzo di ghiaccio ebbe un piccolo singulto, forse perché qualche invisibile animale era emerso per un momento. 

« Tu avevi già i tuoi poteri da bambino, vero? Magari da infante ». 

« Cosa te lo fa dire? »

« Perché mi dai l’impressione di essere uno di quelli che chiamiamo “naturali”. Come Aiolia, Aphrodite, Shaka o Mu. Tutta gente che ha manifestato poteri immediatamente, prima del primo dente da latte, in alcuni casi direttamente dall’utero, e ha fatto una vita piuttosto singolare per questo motivo. Solo che non sempre un “naturale” nasce in un luogo dove le sue doti sono considerate un fatto ammirevole ».

Ben poco era visibile del mondo circostante nel cono della torcia, al di sotto di quel cielo stellato con la Via Lattea chiara e nitida come una pennellata bianca. Loro stessi non erano quasi visibili l’uno all’altro. I loro corpi si toccavano, però, e il cosmo di Milo era come l’acqua che scorreva accanto alla riva ghiacciata, e veniva lambita dal vento polare. 

« Comunque grazie per avermelo detto ».

« Non devi ringraziarmi perché mi sono aperto, non sono un impedito, » si offese Camus. Naturalmente. « Mi serviva solo tempo per capire se volevo dirlo a te ».

« Appunto, grazie. Significa che ti sei fidato di me ». 

Camus sospirò, stringendosi un po’ nelle spalle. « Ti devo fare una domanda, in quanto cavaliere d’oro e non in quanto spasimante insistente e insopportabile ». 

« Va bene. Tu sei pronto a prendere quello che dico com’è, invece di partire dal presupposto che voglio fregarti? »

« Non significa che lo accetterò ».

« È giusto. Ma ascoltami con serietà. Sennò sto zitto ».

« Ok. Ti ascolterò ». 

« Bene. Chiedi ». 

« In Grecia… è meglio per i ragazzini? »

Milo sorrise, di nuovo senza farsi scoprire. Camus era naturalmente una persona curiosa, perciò era normale che gli fosse venuta la voglia di vedere il Santuario coi propri occhi — ma continuava a esserne sospettoso. Però non pensava ad altro che a cosa fosse meglio per i bambini.  

« Beh… capisco il senso dell’addestramento qui. E ci sono parecchi cavalieri che si addestrano in isolamento — e neanche hanno la fortuna di avere come maestro l’autodidatta più cervellone del continente, quindi sì, i tuoi cuccioli di foca parlano le lingue e sanno fare le equazioni ma altri giovani cavalieri sono stati addestrati da un energumeno forse sociopatico e sono quasi analfabeti. A me sembra che tu li abbia tirati su bene. Però certo… per loro ci sei solo tu. Potrebbero sempre conoscere gente, amici. Poi è molto multiculturale come posto. Vedrebbero un sacco di persone diverse. Ovviamente a quel punto ragionerebbero diversamente. E magari è giusto così ». 

« Immagino di sì ».

« Potresti continuare ad addestrarli in Grecia e poi riportarli qui quando sarà il momento, giustamente, per una prova finale al cospetto dell’armatura del Cigno ».

« Sì, certo. È solo che uscire di qui… »

« Hai paura di non saper controllare i tuoi poteri e di non saperti integrare perché ti credi matto, giusto? »

Camus non rispose. 

« Beh, allora non mi hai ascoltato. Ma lascia che chiarisca subito un punto:  se pensi che essere completamente pazzi sia un problema per un cavaliere, ti prego lascia che ti presenti tre o quattro nostri colleghi, e ti renderai conto subito che ti sbagli. Inoltre tu sarai anche matto, ma sei una persona gentile — e ti garantisco che non è una cosa scontata, nemmeno fra i seguaci di Atena ».

« Questa sembrava una cosa personale, » osservò Camus.

Ma Milo finse di non averlo sentito. 

« Secondo… Atena ti protegge. No, non farmi quella faccia come il culo e apri gli occhi, cazzo. Quante volte sei andato a infilarti in quel cratere in tutti questi anni? Chi credi che ti abbia sostenuto per tutto questo tempo mentre la tua testa stessa cercava attivamente di ucciderti? »

Ancora una volta Camus non seppe rispondere. Riguardo a quell’argomento, doveva esserci un pozzo profondo dentro di lui, pieno di dubbi che Milo non riusciva ancora a immaginare. Del resto, l’aveva capito subito che l’undicesimo cavaliere d’oro era in crisi di fede fatta e finita. Anche in quello non era solo come credeva: Atena non si vedeva da nessuna parte, e da una cosa del genere ci erano passati un po’ tutti, anche i più entusiasti.

« Stai per caso iniziando a considerare di seguirmi? Eppure mi consideri uno spasimante scassacazzo e odi presentarti come cavaliere d’oro ».

« Senti, se il sacerdote avesse bisogno di me per risolvere il sudoku, non ci sarebbero problemi, » si spazientì Camus. « Invece ha bisogno di me per uccidere della gente ».

« Capisco cosa vuoi dire, » ammise Milo. « Ma non lo conosci nemmeno, e si vede. Altrimenti non ti verrebbe il dubbio che possa darti un ordine disonorevole. Tra l’altro non è nemmeno il genere di persona che non ammette repliche. Si consulta. Gli interessa sapere cosa pensi. Dagli una possibilità, e che cazzo ». 

« Fff, ok ».

« Lo so benissimo cosa vuol dire avere disgusto di uccidere ».

Camus tacque per ascoltarlo. Milo, al buio, lo percepiva attento. 

« Vedi… i miei poteri sono finalizzati alla sofferenza con scopo di uccisione. La mia infanzia è stata una full immersion nel concetto della crudeltà e in tutte le possibili sfumature del fare del male, » spiegò Milo a voce più bassa e più seria. « Devo ammetterlo… non mi piace usare le mie tecniche. Alla fin fine, sono piuttosto orribili. Quando sei fortunato il nemico che hai davanti si arrende, ma non succede tutte le volte. Credo che si possa morire di una bella morte con te, ma con me… faccenda piuttosto sgradevole alla vista. Non vorrei affatto essere costretto a uccidere. Nemmeno per giusta causa, a essere sincero. Perciò siamo tutti e due delle efficienti macchine della morte che preferirebbero farsi i cazzi propri ».

« E se dovessi farlo? »

« Dovessi. È quella la parola. Se devi farlo devi farlo, non ci sono cazzi che tengano. Abbiamo qualcosa da difendere. Lo sai bene cosa vuol dire, visto che difendi i tuoi ragazzi. Uccideresti per loro, se ce ne fosse bisogno. Io ucciderei per il bene di tutti questi imbecilli di nome esseri umani. Sono chiamate. C’è poco da fare ».

« Tu, lei… Atena… l’hai mai vista? » chiese improvvisamente Camus. 

« No. Percepita… credo. Mai vista. Se si esclude una ragazza che ho visto nel cratere, ma… è stato solo un attimo, e non sono nemmeno sicuro se sia successo davvero, o se era la tua mente che mi giocava degli scherzi. Tu? L’hai mai vista? »

« Forse. Forse mi ha salvato lei da quella bomba. Forse non voglio più vederla… per quello che ha preteso in cambio, che non mi sembra giusto, » ammise Camus. Aveva un tono di voce diverso da tutti gli altri toni che Milo aveva sentito — tutto ciò che andava dal freddo e lo sdegnoso al sarcastico, invece adesso sembrava davvero mogio. Triste. « In quel momento sembrava molto reale, quasi ovvio, ora… non lo so. Per un po’ ho pensato che lei fosse in pericolo. Sentivo che aveva bisogno di me… che qualcuno che amavo aveva bisogno di me. Era una bella sensazione. Ma non importa quanto abbia riflettuto e quanto abbia cercato di leggere il cielo, non sono mai riuscito a vederla di nuovo. Il cosmo che sentii quella volta è— non c’è più ».

« Camus… tu stai dicendo che Atena è morta ».

Quanto era fredda adesso la via Lattea lì sopra. 

« Sì, » disse Camus. « Sempre ammesso che l’abbia mai vista davvero, certo. Soffro di allucinazioni e deliri, ricordi? »

« Capisco, » rispose Milo. Abbassò il mento. « Mi dispiace. Non sapevo che covavi la sofferenza di questo lutto ».

« Ma tu non soffri ».

« No. Perché non è morta. Di sicuro, » rispose Milo con sicurezza. « Prima di tutto, è stata lei a mandarci le armature, nel cratere. In secondo luogo, non ci abbandonerebbe certo adesso ».

« “Adesso”? Che vuoi dire? »

« Shion ha avvertito la presenza di un corvo, » rispose Milo gravemente. « Un corvo imperiale. In cerca di qualcosa. Shion afferma di aver nettamente percepito la disperazione della sua ricerca. E, beh… più o meno tutti siamo d’accordo sul fatto che questo abbia qualcosa a che fare con Odino. A lui tradizionalmente sono propri due corvi imperiali… »

« Hugin e Muninn, lo so. Pensiero e Memoria ». 

I due corvi, secondo la leggenda, erano gli informatori di Odino e uno dei motivi per cui egli rasentava l’onniscienza: al mattino partivano e alla sera tornavano da lui, collocandosi sulle spalle del dio per sussurrargli nelle orecchie tutto quello che avevano scoperto volando in giro per l’universo. Ad Asgard i corvi erano sacri tanto quanto i lupi, e gli sciamani del culto di Odino, si diceva, erano in grado di comunicare con loro in qualche misura. Ma Hugin e Muninn in persona nessuno li aveva mai visti — per tanti, tanti secoli. Nessuno su quel mondo lo sapeva, ma il motivo era che tanti Pellegrini di Odino erano stati addestrati da Mimir nel regno dei morti su Stella Natalis… ma nessuno, prima di Sonja, era sopravvissuto al tentativo di scalata dell’albero. 

« Odino sta tornando? »

« Non si sa. Le nostre spie dicono che ad Asgard il celebrante ha avuto la visione di una donna con un occhio in fiamme che stringeva al petto un piccolo cadavere. Qualsiasi cosa significhi, loro hanno deciso che era un segno… e hanno ripreso ad addestrare i loro cavalieri. Si sono risvegliati praticamente tutti, perché l’hanno sentito. Possiamo escludere una guerra? No. Per questo siamo chiamati a raccolta ». 

« Potremmo ragionarne con loro ».

Milo notò che Camus aveva parlato al “noi” — ma, per evitare che si impermalisse, evitò di rimarcarlo. Si limitò a sorriderne. 

« Dopo tutta questa morte? E andiamo, non vuoi ragionare tu con me che sono il tuo compagno d’armi e il tuo primo amore, come fa a ragionare Atene con Asgard? Venerano Odino, non un dio di trattati, ma di guerra e morte ».

« E di magia e poesia ». 

« Ok, sei preparato anche su questa materia. Ma lo sono anch’io. Un dio dell’inganno ».

« E della saggezza. Come Atena. E se Odino stesse tornando per mettere a posto le cose? »

« Non lo so… sarebbe bello ». 

« Lei parlò a mio padre di una piuma di corvo ».

« Cosa? »

« Il suo nome era Noctua ». 

Milo restò in completo silenzio mentre Camus raccontava della visione di quella ragazza; del mistero della sua condizione, a contatto con la bile nera e senza più memoria; e della piuma di corvo che, a detta sua, era conficcata nel terreno vicino a lei e teneva alla larga l’oscurità.

Camus poteva davvero essere uno dei pochi che aveva “visto” Atena per davvero. 

« Una piuma di corvo la proteggeva? » ripeté Milo. « Non dire cazzate, Camus. Odino proteggerebbe Atena? Sono nemici! »

« Chi te l’ha detto? Le guerre che ci sono state? » Insistette Camus. « Tutte condotte in assenza sia di Atena che di Odino, da sacerdoti umanissimi, interpreti che potevano sbagliarsi, o addirittura che potevano mentire sapendo di mentire — in questo mondo dove siamo fin troppo specializzati in guerre sante. Non è per niente abbastanza per concludere che i due dei siano nemici fra di loro, nel mondo dal quale provengono ».

« Camus… va bene. La tua tesi mi piace e mi piace come ragioni. In parole povere non sei ateo, sei semplicemente eretico. E la cosa mi piace anche se non dovrebbe, » ammise Milo. « Ma il rischio è alto. Se Odino scende in guerra, Odino quello vero, quello che può sguinzagliare gli Einherjar… non lo so se sarebbe per sistemare le cose. Forse per sistemarle con un genocidio. Avrebbe il potere di distruggere questo pianeta. Lo capisci che non si può rischiare ».

« Quindi, guerra preventiva contro Asgard? Processo alle intenzioni? »

« Solo prepararsi ». 

« La grande scusa della Guerra Fredda. E, così facendo, non finirà mai ». 

Milo non poteva dargli torto. A volte era stancante vivere su un pianeta dove così tante influenze di dei incarnati causavano così tante lacerazioni e così tante distorsioni nel fragile mondo degli umani. 

« Hai detto che Shion stesso ha percepito nel corvo la disperazione, » proseguì Camus. « Sembra un fattore importante, eppure lo trascuri. Forse Odino vorrebbe trovare Atena per unirsi a lei contro un nemico comune che non conosciamo ancora, ma che arriverà ». 

« Visto? Ci serve uno come te, tesoro. Perché almeno non dai un’occhiata prima di decidere? Quelli come te sono in via d’estinzione, e sono nati secondo me per cambiare le cose dall’interno… sono sprecati come eremiti ».

« Va bene ».

« Vuol dire che verrai? »

« Verremo. Ma non per quest’ultima fregnaccia che hai detto sul cambiare le cose, » aggiunse Camus con un certo disprezzo. I sentimentalismi gli facevano davvero schifo — o tale era l’impressione che voleva dare per quel suo particolare tipo un po’ infantile di orgoglio. « Inoltre, farò domande, e non mi obbliga nessuno a farmi piacere le risposte. Se mi gira, ce ne andiamo. È chiaro? »

« Fiù ».

« Cosa? »

« Beh, ci ho messo solo dieci notti di servizio assiduo ma alla fine ti ho convinto. Non fraintendermi, amo il tuo sederino fresco, ma mi sento un po’ stanco ».

« Capisco perché ti abbiano mandato. A causa dei tuoi specifici talenti, » ironizzò Camus. 

« Mi stai dando dell’escort? »

« Sì ». 

« Ok, ok ». 

Come Camus aveva previsto, l’aurora boreale tornò. 

Il cielo si accese di nuovo come all’improvviso, e le creste di luce ripresero a danzare lentamente, stavolta nei colori vivaci delle fiamme e dell’oro del tramonto. 

Milo guardò Camus fare un gesto in direzione del cielo, come il gesto di chi sollevi la mano per staccare dal tralcio un chicco d’uva; e fra le sue dita si raccolsero nastri che sembravano fatti della stessa materia dell’aurora boreale, e si attorcigliarono e si plasmarono, finché dal suo palmo aperto non volò via un uccello del paradiso fatto di luce elettromagnetica. 

Milo non disse niente. Sarebbe stato stupido dire che era bello. L’unica reazione plausibile a quello spettacolo era quel senso che Milo sperimentò di colpo — del petto che si sollevava e del cuore che diventava aria e smetteva, finalmente, dopo trent’anni, di pesare. 

« Senti, ho l’impressione che sia sbagliato non dire niente sul tricheco nella stanza, » disse Camus, del tutto ignaro dell’effetto che il suo piccolo trucco soprappensiero aveva fatto su Milo. « Sono innamorato di te ».

« C— davvero? »

Instupidito, Milo smise di guardare il volo dell’uccello di luce. Aveva la testa piena di vento, e le gambe molli. 

« Già. Ma non c’entra niente col mio venire in Grecia ».

« Certo, certo. Manco a parlarne, » ironizzò lo Scorpione. « Beh, se escludiamo il tuo spazio personale di settecento chilometri di diametro, la tua completa assenza di romanticismo e il tuo snobismo, c’è da dire che fai sempre polemica, ti atteggi, rispondi male e non si sa mai se ci sei o sei su un altro pianeta. In parole povere, mi hai rubato il cuore dal giorno uno, quando mi hai sparato il cosmo in faccia ».

Si voltarono per guardarsi sotto il riverbero d’oro dell’aurora boreale. Davvero un viso per cui il padre degli dei avrebbe potuto fare una sciocchezza. 

« Il che significa che mi hai mentito, » puntualizzò Camus. 

« Come? »

« Quando venivo da te la notte. Avevo detto chiaramente che la premessa era che farlo non avrebbe significato niente. Hai fatto finta di non essere innamorato di me per venire a letto con me ».

« Mmh, sì… perché tu non facevi per niente finta che per te non significasse nulla così da venire a letto con me senza prenderti nessuna responsabilità, vero? »

Risero a bassa voce. 

« È che non so cosa devo fare, » ammise Camus, passandosi distrattamente una mano fra i capelli per buttarseli indietro. Milo glieli rimise dov’erano, un po’ in disordine sopra la spalla. 

« Beh, niente. Si fa alla giornata, in questi casi, » disse, passandogli amorevolmente le dita fra i capelli. « Perché hai tutta questa paura di fare passi falsi? O forse dovrei dire paura di diventare importante per qualcuno? »

Il momento successivo fu sconcertante perché raro, bellissimo e triste, e non ci fu quasi transizione. Tutto d’un tratto, a Camus erano venuti gli occhi lucidi. Non si voltò, però, dall’altra parte come aveva fatto in precedenza. Si lasciò tenere di nuovo la mano, e nel guardare in giù abbassò le ciglia, permettendo che da sotto quella cortina scappasse una rapidissima lacrima. 

Gli parlò per un po’ di Rydgev.

Mentre gli parlava delle cose che avevano fatto insieme, di tutte quelle attività quotidiane che gli aveva insegnato, Camus stringeva a sua volta la mano di Milo e aveva la voce bassa e cadenzata, come quando in teatro viene recitato un monologo malinconico. 

Gli parlò di tutte le preoccupazioni che aveva dato a suo padre, gli parlò del giorno della bomba, e infine gli parlò del giorno in cui era morto. Versando un’altra lacrima incontrollabile, gli raccontò di aver smesso di cercare Atena, di aver fallito la missione e disonorato la morte di Rydgev su tutta la linea. 

« Non hai smesso di cercarla. Lei ha smesso di manifestarti a te per non  darti angoscia e non disturbarti nel tuo nuovo compito, » disse Milo, convinto. 

« Cosa stai dicendo? »

« Hai detto tu stesso che Hyoga e Isaak sono spuntati quasi dal nulla, per un caso sfacciato. Proprio dove eri tu, per essere affidati a te quando non avevano nessuno. Da lei. Bisogna che tu ti fidi di lei, Camus. Atena sa benissimo cosa sta facendo. Tu sii umile e ammetti che potresti semplicemente non essere in grado di interpretare il suo disegno ».

Camus guardava di nuovo in basso e piangeva in silenzio, senza nemmeno sussultare; perfino quello lo faceva con eleganza; perfino quando tirava su col naso sembrava più una regina dei ghiacci in lacrime che un uomo pieno di rimorsi. 

« Mi dispiace per tuo padre. Io non ho mai conosciuto i miei, quindi non ti posso capire, ma mi dispiace ».

« È colpa mia se è morto ».

« Ma non è vero… »

« Ho cercato di uccidermi… di spararmi in testa. E lui ci è uscito matto, » insistette Camus. « È colpa mia se si è messo in testa che mi serviva una ragione di vita per salvarmi. Se non fossi stato debole, non si sarebbe sentito obbligato a occuparsi di me a suo discapito. Se fossi stato capace di cavarmela da solo, se avessi ottenuto l’armatura da solo, non sarebbe morto. Sono io che l’ho ammazzato, con la mia mancanza di coglioni ». 

« Sei assurdo, lo sai? »

Camus guardò su, per incontrare gli occhi di Milo. Aveva lo sguardo appannato e le lacrime incastrate fra le ciglia. 

« Tu hai tentato il suicidio. Una persona, per tentare il suicidio, deve essere arrivata a un punto di sofferenza così grave da riscrivere completamente la programmazione della sua stessa specie, quella programmazione che ti impone di sopravvivere a qualsiasi costo. È una delle cose peggiori che possano capitare a una persona. Era fuori dal tuo controllo, » disse Milo. « E tu… riesci comunque a darti la colpa se in quel momento non eri… facile da gestire? Per questo ora stai bene solo qui in mezzo al nulla? Cos’è che ti spaventa davvero? Che gli altri ti creino problemi, o che tu crei problemi agli altri? Tuo padre che risveglia l’armatura, o i tuoi ragazzi che cercano di seguirti al cratere per aiutarti… tu hai paura di queste cose, vero? Hai paura di non meritarti che la gente rischi il culo per te ».

Camus non rispose. Forse non voleva scoppiare a piangere troppo forte. 

« Tuo padre, da come mi racconti, ha vissuto per te… letteralmente. E non si vive per cose che non valgono, » proseguì Milo. « È morto perché sentiva che la tua vita valeva la pena… non ha chiesto garanzie, non ha fatto domande e non ha certo pensato ai problemi che pensi di avergli dato. Ti voleva bene più che a sé stesso, e pensava che non ci fosse niente di più importante che darti un’altra possibilità. Io onoro il suo sacrificio. Perché è meglio per tutti, forse per l’intera umanità, che abbia ragionato così. E non è giusto che tu te ne senta in colpa ».

Milo si alzò in piedi e tese la mano a Camus per invitarlo a fare lo stesso; e finalmente, Camus con un ultimo singhiozzo sommesso si lasciò abbracciare. 

A questo punto Milo sentì che il suo corpo scaricava tutte le schifezze che erano successe in una giornata, e si scioglieva come il nodo di Gordio dopo un colpo di spada. 

« Beh, almeno si spiega come mai l’amore ti fa tutta questa paura. Pensavo fosse solo l’Aquario che usciva ». 

Camus schioccò le labbra, offeso, col viso sepolto fra i capelli di Milo. « Scusami la poca esperienza. Tu ti sei scopato chicchessia… »

« Via, ora, chicchessia. Una cosa decorosa… E poi avrai sicuramente letto un sacco di romanzi con una storia d’amore, no? »

« Russi. Seicento pagine di stenti al termine delle quali muoiono sotto un treno entrambi ». 

« Ottimo ». 

Milo si scostò leggermente dall’abbraccio, per poterlo guardare in faccia; gli prese il viso tra le mani con tutta la delicatezza possibile, accarezzandogli gli zigomi coi pollici. Camus gli teneva le mani sul petto, ma poi le fece scivolare in su fino al collo, e quindi con una gli afferrò con dolcezza la nuca mentre spingeva il viso avanti per baciarlo sulle labbra.

« Ti batte il cuore come a un idiota, » osservò fra un bacio delicato e l’altro.

« Ma stai zitto, » lo rimproverò Milo prima di tappargli la bocca con la lingua. 

 

*

 

Milo, Camus e i due allievi arrivarono ad Atene la mattina dopo, molto presto. 

Il viaggio, una linea d’aria di settemila chilometri, era durato pochi secondi, perché era stata l’aquila nera a portarli e a depositarli sul tetto di un palazzo, ad una velocità molto simile a quella del suono. 

Hyoga e Isaak si sentirono male dopo quel viaggio, perché erano abituati a tragitti più brevi a dorso d’aquila, e così per un po’ dovettero ricomporsi, perché veniva loro da vomitare a causa di uno sbalzo di pressione. 

Dopodiché, ripresero subito l’entusiasmo: non riuscivano a capire dove si trovasse il Santuario in una città come Atene. 

« Per il Santuario si entra da Atene, » spiegò Milo divertendosi a fare il misterioso. « Ma poi, è un territorio vastissimo che si trova in tutt’altro posto. Fuori da questo mondo, come Asgard ». 

I bambini a Milo diedero molta soddisfazione, perché erano curiosi da impazzire; Camus era sicuramente altrettanto curioso, ma figuriamoci se l’avrebbe ammesso pubblicamente. 

Si fecero quindi guidare per certi vicoletti scassati nei pressi dell’Acropoli, superato un blocco compatto di ristoranti per turisti, facendosi largo fra una folla di visitatori, camerieri e gatti. 

Infine, Milo spinse un cancellino di ferro malmesso e i quattro giunsero in un cortile isolato, tutto invaso di erbacce, graffiti e adesivi disparati appiccicati ovunque. 

« To’, guarda chi c’è, » disse Milo allegramente. 

Si chinò per salutare la creatura che aveva attirato la sua attenzione: una gatta tricolore dagli occhi verdi come smeraldi, che subito si avvicinò per strusciarsi contro la sua mano e fece anche un sacco di feste ai tre nuovi arrivati. 

« È Callisto, una dei gatti della quinta Casa. State solo attenti a non— »

Callisto improvvisamente si mise a soffiare ad Isaak, e a rigirarsi con tale violenza che per poco non riuscì a saltargli in faccia e a ridurgliela a striscioline.

« — a non toccarle la coda ».

« Scusa… » disse Isaak alla gatta, sinceramente dispiaciuto. « Non avevo mai visto un gatto ».

Lei fece un po’ la sostenuta, girandosi perfino col muso dall’altra parte, ma alla fine si strusciò contro la caviglia del ragazzo, pur facendo la vaga, come a dire che era tutto perdonato. 

« Sono i gatti che hanno insegnato a noialtri il trapasso dimensionale nei tempi antichi, » spiegò Milo. « Loro sono in grado di andare di qua e di là come vogliono, e di percepire i punti in cui può essere aperto un passaggio stabile. Tipo questo, » aggiunse, aprendo la porta scassata della casupola in rovina che si trovava al centro del giardinetto, fra un graffito sconcio e l’altro. 

Eppure sembrava una porta perfettamente normale. 

Camus la attraversò per primo, seguito da Hyoga e Isaak e per ultimi da Milo e Callisto. I ragazzini, appena ebbero aperto gli occhi sul mondo al di là della porta, cacciarono un grido di ammirazione. 

Davanti ai loro occhi si estendeva a perdita d’occhio un paesaggio collinare, dove al verde più straordinario che avessero mai visto, prodotto da folti boschi e prati lussureggianti, si alternavano i colori di campi di grano, distese di fiori, agrumeti, oliveti e vigneti; il paesaggio era attraversato da un fiume incredibile su cui transitavano placidamente un paio di barche di pescatori, e la cui acqua rifletteva, esattamente come uno specchio, un cielo al tramonto che brillava come un incendio di pietre preziose, con nuvole simili a panna. 

Qua e là si vedevano piccoli villaggi o fattorie; c’erano alberi di ogni tipo che sembravano tutti vecchi di mille anni e facevano da appoggio a meravigliose cortine di edera; e tutto sembrava costruito in modo da adattarsi alla natura, come se lì dentro nessuno avesse mai abbattuto un singolo albero — si vedevano perfino certi edifici costruiti intorno a ulivi o querce che dovevano essere vecchi quanto l’intero pianeta. 

Sullo sfondo, contro i colori di quel tramonto impossibile da credere, si vedeva un sistema di alture; su quelle alture erano costruiti templi variopinti come quelli che si vedevano sui libri illustrati sull’antica Grecia. 

Ma la cosa più straordinaria era ancora più oltre: su una gigantesca rupe scoscesa, dalla quale precipitava una magnifica cascata a scalini, era costruita una cittadina che già da quella distanza sembrava magnifica — e ancora più oltre si innalzavano picchi montani quasi incredibili, con delle scalinate scavate nella roccia diversamente impossibile da scalare. E quello, stando a quanto disse Milo, era il Santuario vero e proprio. Il resto della regione, in genere, veniva chiamato Arcadia… o semplicemente, “casa”. 

Chapter 7: E avrà i tuoi occhi, 1

Notes:

Ho deciso di tornare ai capitoli corti perché mi sono resa conto che gli ultimi due erano interminabili e non erano molto pratici da pubblicare tutti interi. Un petit peu di note:
- diversamente da come è nell'anime, in questa storia l'esistenza di Kanon non è un segreto. Inoltre i due gemelli sono molto più identici che in originale
- per scrivere tutti i gold, ho cercato una soluzione che mi sembrava accettabile fra la loro personalità mostrata in originale e le caratteristiche del loro segno
- per questo motivo Aiolia è irriconoscibile in questi capitoli: ha 15 anni e l'ho fatto super carico con le caratteristiche del Leone, dopodiché la sfida consiste nel farlo arrivare gradualmente alla personalità che ci viene mostrata nell'anime, anche se comunque nel presente della fan fic a cui arriveremo ha solo 21 anni contro i 35 e rotti degli altri e quindi cercherò di scriverlo lo stesso in modo più "giovanile"
- rassicuro l'uditorio che, anche se la coppia Aiolia/Shaka è presente nella storia, al momento hanno 15 anni tutti e due e non ho intenzione di scivolare nel cattivo gusto, in compenso mi sbizzarrisco quando sono grandi szodcvsvsv

Note for those reading in translation: the title of these 2/3 chapters is a quote from a poem by Cesare Pavese, "Death will come and will bear your eyes". Not really fitting for the concept here if you read the whole poem, but taking only the title in consideration I've always associated it with Shaka.

Chapter Text

L’interno della sesta Casa era silenzioso, eccezion fatta per un bizzarro suono prolungato, che si ripeteva a cadenza regolare sempre esattamente sulla stessa nota. 

Nessuno gli venne incontro, ma d’altra parte nessuno venne nemmeno a dirgli di andarsene. Lo interpretò subito come un segnale a proseguire. 

Quella serenità però non lo ingannò. Pareva, sì, la pace di un vasto giardino ogni cui aspetto era esattamente nel posto dove doveva stare; la pace di arcate concentriche di nuvole d’oro formatesi dopo una tempesta; la pace di una stagione mite, una brezza perfetta, esattamente come l’anima la desiderava; ma non era una pace naturale. Sembrava essere stata raggiunta a prezzo di uno sforzo sovrumano, così che si percepiva in sottofondo una nota molto dura. E sopra quella pace spirava un inaspettato riscontro di morte. 

Fuori era un pomeriggio di ottobre particolarmente luminoso, uno di quelli che gli erano sempre piaciuti, col sole, ma freschi da portare la felpa; si era allenato per ore, si era fatto la doccia, e si era vestito sportivo, casual ma non casuale, ovviamente — vestiti morbidi, piacevoli da portare sui muscoli indolenziti, ma che intorno a certi punti cadevano quasi ad arte, andava pur ammesso. In altre parole, si sentiva preso bene. 

Il nuovo arrivato, in teoria, aveva solo un mese più di lui, il che era una cosa positiva, visto che alle Dodici Case, che in quel periodo iniziavano lentamente a popolarsi dopo la chiamata, il più giovane aveva venticinque anni suonati — in parole povere, era un reperto archeologico; era una situazione piuttosto noiosa per un quindicenne. Non che gli mancassero i coetanei con cui passare il tempo, ma questo era un cavaliere d’oro come lui. Già si immaginava che sarebbero stati simili sotto ogni aspetto. 

Ma tutto il suo ottimismo non poteva ignorare la particolare pressione che quel cosmo faceva sulla pelle. Un cosmo trattenuto, messo in riga con la frusta — una perfezione in qualche modo aggressiva. Ed era come completamente e perfettamente concentrato su un unico punto della creazione, in modo tale che questo punto diventava come un buco nero che risucchiava ogni cosa. Ogni filo d’erba di quel giardino era disegnato con severità eccessiva; ogni nuvola dipinta per un motivo; non c’era niente di casuale, e con la casualità era bandita qualunque libertà. Quel cosmo, che aveva l’aspetto della più bella delle illusioni, era in realtà una prigione. 

Nell’aria si sentiva l’odore distante di un qualche incenso, e fra le colonne c’era una penombra tiepida. Continuava anche quel rumore. Alla strana illusione di essere finito in un’utopia disabitata si sostituì alla fine un baluginare dorato — che segnalava, finalmente, l’entrata in scena della persona che Aiolia era venuto a vedere.

Il custode della sesta Casa apparve alla vista come se fosse emerso dal fumo. Se ne stava a gambe incrociate a mezz’aria, senza toccare terra. Teneva gli occhi chiusi e non si muoveva per niente — non si vedeva nemmeno il respiro, e, in effetti, sembrava finto. Aiolia si rese conto che il rumore veniva da lui: era un suono che faceva con la gola. Una volta l’aveva sentito fare anche a Mu durante la meditazione. Ma lui non l’aveva mai visto levitare. 

Aiolia aveva saputo che il custode della sesta era nato e vissuto in India. Magari era stato un po’ ignorante, ma si era immaginato un’altra cosa. Davanti a lui, vestito con estrema semplicità, c’era il ragazzo più chiaro e più biondo che avesse mai visto, con una lunga chioma liscia di tanti, tanti capelli, dorati come il grano, che, fini com’erano, sembravano impalpabili come la seta. Aiolia aveva sempre segretamente ammirato i capelli di Saga e Kanon e li aveva sempre considerati i più belli esistenti, ma adesso si ritrovava quasi sgomento.

Aiolia si riscosse in un attimo. Pensò che la cosa migliore da fare fosse andarsene: era entrato tutto convinto, ma ora all’improvviso non si sentiva in vena di interrompere quella meditazione.

« Vediamo se ho capito, » disse la voce del custode della sesta non appena Aiolia si fu voltato per tornare indietro. « Entri, non saluti, mi dai una bella occhiata, dopodiché giri i tacchi e te ne vai. Un campione di buona creanza ».

Nessuna alterazione in quel cosmo. Esso non si era nemmeno distolto dal punto su cui stava concentrato — un punto come al centro della fronte di quel ragazzo assurdo. Che per giunta non lo stava nemmeno guardando, perché non aveva aperto gli occhi, eppure Aiolia sentiva il suo sguardo toccargli la pelle, ed era uno sguardo acuto e pungente. 

Ad ogni modo c’era da dire che la conversazione non iniziava nel migliore dei modi. 

« Oook, » fece Aiolia alzando le mani e voltandosi di nuovo verso di lui. « Scusa, non è così, ok? Non volevo interromperti salutando, tutto qui ».

« Ma certo. Perché non ti avevo certo già percepito entrare in questa Casa. Sono così distratto ».

« Non pensavo di farti arrabbiare così, » lo provocò Aiolia.

« Non puoi farmi arrabbiare. Arrabbiarsi con te sarebbe triviale ».

Aiolia avvertì la familiare sensazione del sangue che gli affluiva al viso e al collo, insieme con una fiammata di irritazione. Comunque, se il tipo aveva deciso di rifilargli quel caratterino, era determinato a mantenere la calma e rispondergli a tono.

« Ok, ok, ho capito: è arrivato stocazzo, » disse, di nuovo alzando le mani in sarcastico ossequio. « Sono Aiolia, del Leone ».

« Perché hai pensato che dovessi saperlo? » chiese il ragazzo della Vergine, senza rispondere alla presentazione, e la sua voce divenne inequivocabilmente strafottente. « Ah… perché pensi che questo cambi le cose ».

« Quali cose? » chiese Aiolia col mento alzato, in tono di sfida. 

« Che non mi piace il tuo tono. E il cavaliere del Leone non può permettersi di non piacermi, » disse il cavaliere della Vergine. « Tale è la nostra differenza. E non so cosa significhi “stocazzo” ».

« Senti… a proposito di buona creanza… sono tipo appena entrato, e stai già parlando della tua superiorità. Mi sono presentato e non ti presenti, e in due minuti hai già deciso di litigare, » osservò Aiolia con un sorriso teso — quello di chi, dei due, voleva litigare maggiormente. « Comunque, la superiorità in questione può essere verificata. Sono più per i fatti che per le parole, sai ».

« Pf, » fu l’unica risposta di Virgo.

Continuava a stare immobile nella sua postura da meditazione, senza degnare di alzarsi né tanto meno di aprire gli occhi. Neanche col cosmo gli dava soddisfazione, perché questo era ancora intento alla contemplazione, non si espandeva né si tendeva in alcun modo, ma in compenso riempiva tutta la Casa — col chiaro scopo di intimidire mentre continuava a far finta di no. 

Fu la prima volta che Aiolia ebbe la sensazione che Virgo si trovasse davanti a un pesante portone; nel corso degli anni successivi gli avrebbe visto assumere atteggiamenti diversi nei riguardi di quel portone, mano a mano che cresceva la sua esperienza, ma per ora sembrava che ci stesse addossato con le spalle come usando tutto il corpo perché non si aprisse. Gli diede l’impressione, malgrado apparisse così tranquillo e sicuro di sé, per non dire antipatico, di star compiendo uno sforzo a dir poco stremante. Ma in quel momento gli era scattato troppo il testosterone per provare empatia nei suoi confronti. 

« Sei abituato a essere venerato, immagino. Ma anche a fare paura, » disse Aiolia. Gambe larghe, petto in fuori — è vero che aveva promesso ad Aiolos di non fare casino, ma la conosceva bene la sensazione subito prima della lite, e non era particolarmente bravo a tenerla sotto controllo. « Beh, qui ti troverai male. Forse sei tu che devi cambiare tono. Se vuoi ti aiuto… adesso ».

Il cosmo di Aiolia iniziò a sfrigolare come l’andamento serpentino di una corrente elettrica. Dapprima crebbe in una bolla che rimaneva in forma a fatica, principalmente perché il cavaliere si sentiva in colpa a proposito di quella promessa, ma poi la bolla esplose, la membrana si squarciò, e il cosmo del Leone invase la sesta Casa come uno tsunami fatto di luce accecante e corrente che strinava la pelle. 

Finalmente si poté apprezzare del movimento nel custode della sesta, perché i suoi capelli iniziarono a sventagliare in quell’urto violento, e la sua fronte si corrugò leggermente.

Il cosmo di Virgo aveva reagito a quella minaccia, senza che il ragazzo comunque si sprecasse ad aprire gli occhi, chissà perché. Forse era cieco?

Aiolia lo sentiva premergli addosso, torcergli lo stomaco e bucargli le ossa come fosse stato fatto di chiodi; aveva per qualche motivo odore di morte, come quando i gigli appassiscono e il loro profumo si trasforma in tanfo; faceva una pressione proibitiva, che faceva fischiare le orecchie e dolere, in parte, perfino il cranio. La parte peggiore era che Aiolia si sentiva immobilizzato, e che il cosmo della Vergine aveva stretto il suo come in un cappio — oppure la sensazione ricordava quella di qualcuno che prendesse un gatto infuriato per la collottola. 

Poi finì.

« Grazie, passo, » disse tranquillamente Virgo. 

« Come volevasi dimostrare, » insolentì Aiolia. 

« Credi quello che vuoi, ma pulisciti il naso ».

Aiolia rimase un po’ interdetto per un secondo, prima di passarsi le dita sotto il naso: il cosmo di quel ragazzino gli aveva causato una perdita di sangue dalle narici.

« Adesso ti chiederei la cortesia di lasciarmi in pace, » disse l’altro. « Il tuo modo di fare gli onori di casa lascia molto a desiderare ».

« Il mio lascia a desiderare, eh? Entro per fare amicizia e perdi il ritegno in tempo zero ».

« Oh, povera vittima, » lo sfotté la Vergine. « Non sei affatto entrato per “fare amicizia”, al contrario sei entrato con la boria imbarazzante di chi è abituato a suscitare consenso e ammirazione universali. E, sfortunatamente, la cosa mi irrita ».

Aiolia fece solo in tempo a battere le palpebre in modo del tutto involontario… e quando riaprì gli occhi, si ritrovò, senza nemmeno sapere come, di fronte all’ingresso della sesta Casa. Privato in questo modo della possibilità di rispondere si sentì travolgere dalla rabbia e pensò di fare nuovamente irruzione. 

Poi si sentì di nuovo in colpa. L’aveva promesso: basta fare a botte per motivi stupidi, a meno che non fosse qualcun altro a cominciare. Era andato anche troppo vicino a infrangere una promessa per la prima volta in vita sua, e la cosa lo faceva sentire quasi sporco. Così si tenne la sua rabbia, e si tenne l’orgoglio che sanguinava a pieno regime, come una diga in frantumi.

Ebbe la sensazione del portone, di nuovo. Stavolta l’impressione fu che due ante pesantissime gli si fossero chiuse in faccia — e che tutti gli spiriti disperati fossero rimasti di là, in compagnia del loro strano pastore.  

 

*

 

Aiolos aveva deciso di fermarsi alla quinta Casa quella sera quando si era reso conto che i sintomi di Aiolia erano molto simili a quelli di Callisto: erano agitati tutti e due, si erano incredibilmente disinteressati alla cena, e non volevano stare soli — anche se facevano entrambi finta che non fosse così. In altre parole, Callisto stava per partorire. Di conseguenza Aiolia era un fascio di nervi. 

I due fratelli si erano dunque armati di asciugamani puliti, garze, guanti e disinfettante e avevano aspettato che iniziasse il travaglio. Callisto miagolava come un’ossessa e Aiolia la accarezzava con una spazzola per tranquillizzarla. Il travaglio era andato avanti per un bel pezzo e il parto era stato complicato: siccome Callisto era stanchissima, si erano occupati loro due di liberare l’ultimo gattino dalla membrana amniotica e dal cordone ombelicale, ma poi sembrava che il piccolo non respirasse.

« Stai calmo, » aveva detto Aiolos a voce bassa, prendendo il gattino sul palmo della mano e iniziando a strofinarlo un po’ contropelo. Aiolia, ridotto come un giovane padre fuori dalla sala parto, riprese a respirare solamente quando il gattino, riscaldato dal cosmo di suo fratello, resuscitò. 

Aiolos collocò con attenzione il gattino insieme agli altri quattro, lungo il fianco della madre. Callisto sembrava stravolta, e guardava in su verso Aiolia con occhi stanchi e pieni di fiducia.

« Tutto a posto, visto? » sorrise Aiolos, andando a sedersi sui gradini che davano sul chiostro interno.

« Grazie per esserti fermato, » rispose Aiolia, un po’ imbarazzato, senza guardarlo. 

Ad Aiolos venne quasi da ridere, ma lo nascose: per come era diventato suo fratello con l’adolescenza, quel ringraziamento sincero doveva essere stato difficile per lui. 

Nel silenzio della sera si sentì il grattare dell’accendino, e poi si diffuse nell’aria l’odore agrodolce dell’erba. 

Fino ai tredici o quattordici anni, Aiolia era stato in fondo ancora un bambino, malgrado fosse già un cavaliere d’oro. Da bambino, addestrarlo era stato un piacere: ascoltava attentamente, imparava velocemente, ed eseguiva a menadito tutte le istruzioni del fratello maggiore.

Ora era un adolescente in piena regola, e Aiolos a volte si domandava chi diavolo fosse quella specie di tempesta ormonale ambulante che circolava per casa. Di colpo era diventato reticente a fargli confidenze, passava dall’essere allegro e leggero a fare polemica e chiudersi in sé stesso in quindici minuti, e di fronte a quelle che chiamava “smancerie” si comportava come un gatto rissoso. 

I due fratelli vivevano ancora insieme da Aiolos, malgrado l’armatura avesse trovato Aiolia a nove anni, qualificandolo, per la legge dell’Arcadia, come un adulto. Ma ad Aiolos l’idea che se ne stesse solo alla quinta Casa, che all’epoca era stata isolata, a parte i gatti, sembrava un po’ deprimente… o, forse, dopo averlo cresciuto, faceva solo fatica a lasciarlo andare. Così si era parlato di separarsi quando avesse avuto diciotto anni, come succedeva per le persone comuni. Aiolia, che pure aveva insistito di essere indipendente già dai sei anni di età, in realtà non aveva protestato. Comunque il suo carattere si era fatto più difficile.

Era diventato difficile farci un discorso, tra l’altro, perché Aiolia era diventato virtualmente inafferrabile: sembrava che rischiasse la combustione spontanea se restava a casa per più di venti minuti, e metterlo seduto da una parte per parlarci era quasi impossibile, perché cominciava a tamburellare il piede e a guardarsi intorno cercando una via di fuga. 

In effetti, passava praticamente tutto il giorno fuori, e doveva sempre stare in movimento, o allenandosi, o facendo qualsiasi tipo di sport, o aggirandosi per il Santuario e dintorni senza una meta, in preda a una qualche forma di agitazione, di irrequietezza. Comunque, alle stesse ore tutti i giorni andava alla quinta, a portare da mangiare ai gatti. Questi, tutti ringalluzziti per la presenza di un nuovo cavaliere del Leone, si erano fatti talmente protervi da girare per le Dodici Case come se ne fossero stati i Sacerdoti, e così capitava spesso che gli altri cavalieri d’oro se li trovassero dappertutto, a dormire sul loro letto o a far danni di ogni genere. 

Aiolia aveva il suo gruppo di amici, ma Aiolos si era accorto che con loro, anche se non lo ammetteva, si annoiava… forse perché questo vasto gruppo era composto principalmente da persone che, segretamente o meno, gli morivano dietro o comunque pendevano dalle sue labbra. Aiolia infatti non era più quel bambino che sembrava un angelo con gli occhi blu e sempre pieno di lividi, ma faceva parte dell’élite del Santuario ed era diventato un gran bel ragazzo, scolpito e con i fianchi asciutti, e il sole aveva dato ai suoi ricci castani una rara sfumatura color miele. Della qual cosa, tra l’altro, era perfettamente consapevole: usciva con gli amici molto spesso — in genere andavano a ballare per rientrare alle cinque del mattino — ma prima che ciò potesse succedere Aiolia aveva il suo lungo, lunghissimo appuntamento con lo specchio del bagno. 

Al momento, erano diverse sere che dava buca ai suoi amici, con grande lutto di questi ultimi, perché era preoccupato che Callisto, che era rimasta incinta così giovane, avrebbe potuto partorire da un momento all’altro. Adesso eccolo lì, intento ad aiutare la gattina stremata a mangiare un po’ di fegato che aveva cotto e sminuzzato finemente lui stesso. 

Ad Aiolos piaceva osservarlo in quei momenti perché allora Aiolia non era teso, carico, un po’ montato, sempre intento a dimostrare qualcosa o a farsi vedere in un certo modo per essere all’altezza di quello che si pensava di lui: al contrario era il ragazzo affettuoso e generoso che era stato, nel profondo della sua essenza, fin da bambino; e in quei casi, quando sentiva di dover proteggere qualcuno, mostrava la sua devozione, come adesso che grattava delicatamente Callisto sotto il mento e si congratulava a bassa voce con lei per l’ottimo parto, perché aveva avuto paura di perderla. 

Fumando con la brezza della notte sul viso, Aiolos sorrise. Fisicamente era diventato grande e grosso, ormai quasi un uomo, e se ne stava tutto chino su quella minuscola gattina con grande umiltà, a dirle che se aveva bisogno di qualcosa doveva solo chiamarlo. 

In realtà, Aiolia non aveva la compagnia giusta, e si vedeva. Messo in un gruppo di persone come quelle che frequentava non aveva problemi a ricoprire, per natura, il ruolo di leader, ma Aiolos lo vedeva bene che non si sentiva stimolato. Tra l’altro, nessuno dei suo giovani ammiratori poteva veramente comunicare con lui, perché a livello di esperienze di vita non avevano niente in comune con lui. D’altra parte Aiolia nemmeno frequentava gli altri cavalieri d’oro, perché gli sembravano tutti dei vecchi barbogi che avevano quasi tutti ormai raggiunto, ai suoi occhi, la serenità dell’età avanzata. 

C’era anche la questione che Aiolos lo vedeva bello “carico” da un certo specifico punto di vista… ma sembrava che non gli interessasse nessuno.

Ovviamente, Aiolos si era accorto presto che anche il fratello minore era gay — questo ben prima che andasse in crisi quando aveva dovuto spezzare il cuore alla prima ragazzina di una lunga serie; ma Aiolia di quell’argomento non aveva mai voluto parlare in nessun caso, arrossiva, diventava scontroso e spariva dalla faccia della terra fino a sera inoltrata. Aiolos comunque era abbastanza sicuro che non gli interessasse nessuno nemmeno del codazzo di maschietti che si era formato sulla sua scia. E questo in realtà peggiorava la sua irrequietezza, oltre a fomentare ulteriormente la sua vena vanitosa.

Tutto considerato, quindi, quando era arrivata la notizia che la sesta Casa era stata occupata dal suo nuovo guardiano che aveva proprio l’età di Aiolia, Aiolos aveva pensato, forse con uno slancio eccessivo di ottimismo, che avrebbero fatto amicizia per forza. E ora stava morendo dalla curiosità in proposito, quindi decise di approfittare della straordinaria circostanza di trovarlo calmo per parlargliene. 

« Allora, come va col tuo vicino di Casa? » chiese dando un lungo tiro alla canna.

Aiolia lasciò Callisto e andò a sedersi accanto a lui. 

« Col santone? Spero che ascenda presto e si levi dal cazzo ».

Aiolos quasi si strozzò col fumo e cominciò a tossire violentemente, facendo finta di non ridere. « Mamma mia, » disse, fingendosi costernato. « E io che pensavo di averti trovato il fidanzatino ».

« Vuoi scherzare? » sbottò Aiolia con la voce che diventava acuta e il viso che gli avvampava. 

« Che coda di paglia, » si offese allegramente il fratello. « Io non vorrei pungerti sul vivo, ma in realtà a te da qualsiasi parte ti si punga è sul vivo ». 

Come spesso accadeva da un paio d’anni a quella parte, Aiolia si limitò a grugnire. Aiolos si era fatto una cultura di tutti i tipi diversi di grugniti, borbottii e schiocchi di labbra che un adolescente riottoso era in grado di produrre quando veniva stuzzicato. 

Aiolia era seduto lì accanto ma non lo guardava, e anche questo lo faceva sempre ed era il segnale di un bisogno specifico: aveva necessità di parlare con lui ma sarebbe morto piuttosto che ammetterlo. Con un sorriso conciliante, Aiolos gli offrì la canna. Aiolia la prese e diede un tiro, tutto imbronciato, guardando dall’altra parte. Non doveva essere andata molto bene alla sesta Casa. 

« Ti voglio bene, lo sai? » disse Aiolos.

Aiolia avvampò di nuovo. « Ma la fai finita? »

« Sai, piccolo, è molto importante che tu impari a conoscere il tuo vicino, » disse Aiolos, guardando il fratello che fumava; anche quello, come tutte le cose, lo faceva di fretta. « A volte i vicini sono amici, a volte rivali, raramente si sono indifferenti. Ma resta il fatto che quello che viene prima protegge sia la propria Casa che quella che viene dopo. Perciò, quello è un uomo che hai il dovere assoluto di proteggere ». 

« Beh, meno male che si protegge benissimo da solo, perché a me va solo di prenderlo a schiaffi ».

Aiolos represse un sorriso con tutte le sue forze: finalmente Aiolia aveva trovato pane per i suoi denti.

« Cosa sogghigni? »

Ad Aiolos scappava troppo da ridere per colpa dell’erba, perciò riuscì a tenersi forse per quattro secondi prima di cominciare a ridere grufolando. « Santo cielo come siete carini, » gemette quasi con le lacrime agli occhi dal ridere. « Oddio muoio ».

« No vabbè io ti ammazzo ». 

Aiolia era di nuovo in imbarazzo; Aiolos continuava a ridere, cercando di farsela passare mentre il fratello minore faceva finta di strangolarlo con l’avambraccio. 

« Va bene, va bene, mi arrendo, mi arrendo ».

Aiolia lo lasciò andare, tutto rosso in viso. « Cretino ». Gli ripassò la canna. 

Aiolos si schiarì la gola, come per imporsi di fare il serio, e riprese a fumare con aria saggia. « Voglio dire solo questo… sai come funziona, no? Sei tu che decidi chi passa e chi non passa fino a Shaka. Nel momento in cui sei diventato cavaliere d’oro, ti è stato dato un compito difficile che ti durerà tutta la vita: quello di scegliere, in ogni momento in cui respiri, di comportarti rettamente. Tutti lo daranno per scontato, ma invece non sarà sempre facile e ti verranno dubbi e crisi di ogni genere. Però c’è un fatto: se fai passare qualcuno fino alla sesta Casa e questo qualcuno si rivela un nemico, l’incolumità del suo custode è sulla tua coscienza. Quindi… è vero che vale per tutte le Case, ma è soprattutto intorno a questo ragazzo che ruota la tua crescita come guerriero ». 

« Sei, tipo… parecchio fatto ».

« Ma no, come mai? Ho fatto un discorso tutto per benino, tutto coniugato bene ».

« Era un discorso così romantico che mi si è ostruita un’aorta. Mi metti a disagio quando sei fatto ».

Aiolos si protese verso di lui facendo lo stupido. « Dai, perché? »

« Perché sei un appiccicume, mollami ». Ignorando completamente le proteste di Aiolia, Aiolos gli passò un braccio intorno al collo e gli scompigliò energicamente i capelli. « Bastaaaa! »

Si ricomposero di nuovo, tornando seduti normalmente sui gradini. 

« Urgh, » grugnì di nuovo Aiolia, cercando di riportare il disordine studiatissimo dei suoi capelli alla regola d’arte. « Senti, qualsiasi cosa leghi secondo te i vicini di Casa, è una cazzata. Ti ricordi di quello che è arrivato il mese scorso della Casa prima della mia? Il Cancro, cioè… hai presente? E comunque la mia incolumità non è affatto nelle sue mani, ma nelle mie. Può far passare anche tremila persone fino a me, non mi interessa, non ho bisogno di essere protetto ».

« Aiolia, un cavaliere non è un’isola, come si suol dire. La cosa ha senso solamente se siamo uniti. Altrimenti siamo solo ottantotto stronzi bravi a dare pugni ». 

« Ah-a. E tu questo grande rapporto con Milo ce l’hai? È intorno a te che “ruota la sua crescita come guerriero” eccetera? »

Aiolos ridacchiò. « Ma che c’entra, noi ormai siamo grandi, sei tu che devi crescere ».

« La menata che hai detto secondo me viene dai tuoi soliti imprecisati sensi di colpa nei miei confronti, » insistette Aiolia, implacabile. 

« Ma dai, piccolo ».

Aiolos gli batté la mano sul ginocchio, e la lasciò lì. Aiolia, strano a dirsi, questa volta lo lasciò fare. Sembrava che di colpo si fosse fatto pensieroso… addirittura malinconico. 

« Noi cavalieri… » disse, esitante, « siamo tipo, eternamente giovani? Come Shion o quello della Bilancia? »

« Beh, è difficile da dire. Loro effettivamente hanno più di due secoli, ma possono esserci tante spiegazioni. Non ci sono prove che apparteniamo tutti a una stessa stirpe o che il cosmo ci possa tenere giovani così a lungo, considerando che… »

« … Che in genere moriamo ammazzati molto prima ».

« Già, sì. Ma perché mi fai questa domanda? »

« Non voglio che tu diventi vecchio ». 

Aiolos sorrise. « Vabbè, allora muoio giovane ».

Aiolia nascose la propria paura molto rapidamente. « È troppo tardi per morire giovane! Hai trent’anni suonati! » 

« Ventotto fra qualche settimana. E poi cosa vorresti dire, non ne ho mica ottanta! »

« L’altro giorno quando ti sei alzato hai detto “oh issa” ». 

« Grazie al cazzo, avevo la schiena a pezzi, mi ci hai fatto stare fino a sera a insegnarti quel colpo, » protestò Aiolos cercando di nuovo di non ridere. « Diciamo così: io sono ancora giovane, ma meno giovane di te che sei un pargolo ».

« Va bene, come ti pare. Ma visto che la tua schiena è così delicata, fammi il piacere di starci attento e non farti ammazzare. Mai ». 

« Va bene, piccolo. Ci sto attento ».

Aiolos strinse affettuosamente la mano attorno al ginocchio del fratello prima di darvi qualche altro colpetto di incoraggiamento. Finalmente lo lasciò andare, ma solo dopo che gli ebbe fatto sentire la sua presenza. 

« Smetterai mai di chiamarmi piccolo? » borbottò Aiolia. 

« Nemmeno quando avrai sessant’anni ». 

« Urgh ». 

Crono, il gigantesco gatto nero che abitava alla quinta insieme agli altri, transitò dal chiostro interno col portamento di un boss mafioso. Si mise a osservare attentamente i due fratelli per un po’ ma, quando gli fu chiaro che questo non avrebbe fatto scattare per magia l’ora di cena, si arrampicò con la sua enorme mole in cima alla statua al centro del chiostro e lì si addormentò subito come un sasso — un enorme sasso peloso di nove chili. 

« Ehi, » disse poi Aiolos. « Tu e Shaka avete cominciato male, capita. È appena arrivato da lontano, non conosce nessuno, in mezzo a tutti questi vecchi, come abbiamo appurato… nella Casa della Vergine, che ha una certa reputazione — ha tante aspettative sulle spalle, magari sta sulla difensiva, un po’ come fai tu per lo stesso motivo. Fai un passo indietro e dagli una possibilità ».

« Un passo indietro? Ne deve fare lui sette o otto prima che si possa fare una conversazione normale! »

« Ma tu non vuoi una conversazione normale, no? Sei stanco di parlare del nulla, » sorrise Aiolos. 

« Voglio solo comportarmi come se non esistesse ».

Aiolos rise di cuore. « Ah, l’orgoglio ferito. Prima volta che ti succede che qualcuno ti faccia il culo, se non sbaglio ».

Aiolia era di nuovo rosso in viso come un’aragosta. « Non sei divertente. Non ho proprio niente a che vedere con un ragazzino-prodigio abituato che tutti si pisciano addosso quando passa ».

« Mmh-mh, già, in effetti non mi ricorda proprio nessuno ».

« Non mettermi a paragone ».

« Non puoi ignorarlo, Aiolia ».

« Posso eccome ».

« Però non vuoi farlo, » insistete Aiolos. « Sei incazzato nero. Ci hai parlato dieci minuti ed è già diventato un chiodo fisso. Vuoi già tornare su da lui a fare un po’ di casino. Non negarlo. Il tuo anziano fratello, purtroppo per te, ti conosce bene ».

« Ma cosa vuoi da me!? »

« D’accordo, il ragazzo deve abbassare la cresta. Credimi… di questo se ne sono accorti già tutti. Però è la stessa cosa che devi imparare a fare tu — e anche questo non è esattamente un segreto. Sfrutta l’occasione, no? Secondo me in realtà ti intriga che ti abbia tenuto testa, deve solo passare la bruciatura prima che tu te ne renda conto. Ma se preferisci i tuoi soliti amici… per carità ».

L’espressione di Aiolia si indurì per orgoglio. « Beh, ora non c’è Saga che ti aspetta, tipo? Sei tutto profumato come un piacione la domenica ».

« Considerando che è il profumo che mi fotti tutti i giorni, farei poco dell’ironia, » osservò Aiolos, prima di alzarsi dal gradino facendo bene attenzione a non dire “oh issa”. Quindi di nuovo scompigliò i capelli al fratello, che non fece in tempo a ritrarsi e si ritrovò di nuovo arruffato. « Non te la prendere, ok? A volte le amicizie migliori cominciano così ».

« Hmpf ».

 

*

 

Era quasi dicembre, e ormai le Dodici Case si erano popolate; mancava solo, misteriosamente, il cavaliere dell’undicesima — una persona di cui nessuno sapeva niente, salvo che abitava da qualche parte in mezzo al nulla più completo della Siberia artica, nel mondo senza dei, quello cioè scosso dalla guerra e abitato dagli esseri umani normali, di cui l’Arcadia di Atena e gli altri regni divini erano una dimensione parallela. Nessuno sapeva come mai non si fosse ancora presentato, ma qualcuno aveva cominciato a dire che era morto, qualcun altro che fosse un traditore. 

Come sempre, il tardo novembre in Arcadia era lieve. Il giorno prima era caduta una pioggia torrenziale che aveva continuato fino alla mattina, e adesso aveva lasciato il posto a un tardo pomeriggio fresco e dorato, con la golden hour che si rifletteva nelle pozzanghere. 

Aiolos trovò Saga seduto sulle gradinate di una delle arene, quella scavata nel fianco della stessa altura rocciosa su cui si ergeva l’Atene-specchio, Eunoia, la capitale dell’Arcadia. Ancora più in alto, dove l’altura diventava un vero picco, si vedeva il portale d’accesso alle Dodici Case. 

Saga non si voltò subito a guardarlo mentre si avvicinava, così che Aiolos ebbe il tempo di guardarselo qualche momento in santa pace, come continuava a fare con piacere anche dopo tutti quegli anni. Come sempre,  in maglietta e pantaloni della felpa comodi, sembrava così indifferente a sé stesso. Eppure, visto così di tre quarti, con tutti quei capelli raccolti a metà, aveva il profilo di un angelo, le braccia di una statua, la schiena di un dipinto e i fianchi di un dio. 

Riguardo a questo Aiolos non fece commenti, perché Saga non voleva sentirselo dire — a differenza di Kanon, che era identico a lui nell’aspetto e queste cose, invece, se le sentiva dire molto volentieri. 

Riguardo alla somiglianza impossibile dei due gemelli, Aiolos non smetteva mai di stupirsi. I due avevano i capelli della stessa lunghezza, stesso taglio e di un colore identico — solo gli occhi avevano di una sfumatura leggermente diversa, che comunque cambiava con la luce; fisicamente erano costruiti nella stessa maniera, sul fisico allenato duramente avevano le stesse vene e gli stessi tendini in rilievo, non avevano nemmeno mezzo centimetro di differenza di altezza e avevano la pelle della stessa tonalità. Era comunque il viso la parte più incredibile, quando si considerava la loro somiglianza disumana: non avessero avuto un’espressività diversa, avrebbero condiviso lo stesso viso, e addirittura sul collo avevano lo stesso identico minuscolo neo. 

In effetti, c’erano solo due o tre maniere per distinguerli. Alcune di queste maniere erano riservate a un occhio attento: ironicamente, i due gemelli caratterialmente non si somigliavano granché, così avevano un diverso linguaggio del corpo, un diverso modo di parlare, una diversa postura… ma si conoscevano l’un l’altro alla perfezione, così che, se uno dei due voleva spacciarsi per l’altro, sapevano imitarsi come attori consumati e ingannare chiunque. 

Una maniera sicura per distinguerli era nota soltanto ad Aiolos e a Kanon stesso: Saga, in mezzo alla sua chioma straordinaria, aveva un singolo capello bianco, che era venuto fuori dal nulla un paio di anni prima. E poi c’era la distinzione più eclatante che non falliva mai: Kanon aveva i piedi, le gambe, le natiche, l’inguine, il tronco, il petto, la schiena e le spalle occupati da un massiccio e meticoloso tatuaggio a tema marino. 

Aiolos cercò inutilmente il capello bianco, poi si sforzò di controllare bene lungo i bordi della maglietta, tanto per essere sicuro, perché qualche volta ci cascava perfino lui ancora adesso, ma era inutile: vestito così, con quei punti coperti, avrebbe potuto essere sia l’uno che l’altro. Non si poteva neanche scostare appena la maglietta con un dito, perché Saga fingeva di offendersi a morte quando Aiolos non lo riconosceva subito, e dopo erano dolori per farsi perdonare.

Aiolos diede uno sguardo all’arena, che come al solito era tutta tagliuzzata e bucherellata per effetto di tanti duelli amichevoli o tecniche sperimentate. Come aveva immaginato, lì ad allenarsi come un disperato c’era Aiolia. L’aria vibrava intensamente delle impennate esplosive del suo cosmo. 

Aiolos si sedette accanto a Saga.

« Non saluti? » lo sfidò Saga alzando un sopracciglio.

« Uh— »

« Che c’è? Non sai se sono quello dei due che baci sulla bocca? »

« No, no, è che ho le labbra un po’ secche, un po’ irritate, capisci ».

Con uno dei suoi bei movimenti irresistibili, Saga sporse la gamba di lato per dargli un calcio delicato in uno stinco.  

« Sei rimasto traumatizzato dal piccolo dispetto dell’altro giorno? » 

« Piccolo dispetto? Ho limonato tuo fratello ». 

« Quante storie, c’è tanta gente che per farlo venderebbe la madre. E poi non era la prima volta ».

« L’altra volta non c’entra, era una cosa fra noi tre decisa a tavolino. Non che mi fate fare figure di merda per divertirvi alle mie spalle ».

Aiolos pensò di stare parlando sicuramente con Saga. C’era qualcosa di troppo sottile, che nemmeno Kanon sarebbe riuscito a imitare, nel modo ipnotico in cui stringeva appena le labbra e abbassava le palpebre quando cercava di non ridere. 

« Non ti succederebbe se tu avessi un minimo di spirito di osservazione. E dici di essere il mio uomo? »

« No, quello che volevi dire è: non mi succederebbe, se non foste stronzi ».

« Va bene, non ho intenzione di strapazzarti il giorno prima del tuo compleanno. Il saluto te lo abbuono. Stai pure nel dubbio ».

« Molto umano, grazie ».

Risero insieme. In realtà, quello era Saga per forza. La sua traccia era in tutti i minuscoli movimenti del suo viso e nel modo in cui stava seduto… e in quel modo di ridere, così grave e leggero al tempo stesso. Tutte cose che Aiolos ammirava ogni giorno da anni, e che rinnovavano dopo tutto quel tempo l’infatuazione più feroce che avesse mai sperimentato. Quella che più volte gli aveva dato da pensare. Fra Saga e Aiolia, c’erano un po’ troppe cose che Aiolos rischiava di amare più di Atena. 

Poi il Sagittario tornò a guardare verso l’arena, dove suo fratello minore continuava a darsi il tormento con un allenamento durissimo. 

Aiolia non era ancora guarito dalla sua visita alla sesta Casa del giorno prima: aveva tutta la guancia sinistra tumefatta, da come si muoveva si capiva che aveva il tronco completamente indolenzito e la schiena dolorante, e zoppicava, anche se solo appena, sulla gamba destra. 

Il giorno che le aveva prese dal guardiano della sesta, aveva cercato di sgattaiolare in camera sua senza farsi vedere, ma era stato intercettato dal fratello. Non aveva voluto nemmeno parlarne. 

« L’hai allenato? » chiese Aiolos.

« Non proprio, » rispose Saga. « L’ho fatto sfogare disordinatamente, più che altro. È bello carico. Frustrato. Chi è che è riuscito a ridurlo così? Credevo che ti avesse promesso parecchi anni fa di non fare più a botte ».

« Sì, beh… questa gliela abbuono. Diciamo che era un duello regolare, dai ». 

« Col ragazzo della Vergine? »

« Gli avevo detto di tornare su e farci pace. Invece è uscito dalla sesta sanguinando. Ci si sta spaccando le corna ». 

« Beh, può essere educativo ».

« Già, basta che non si ammazzino ».

Doveva ammettere che lì erano un po’ oltre ad aver “cominciato col piede sbagliato”. I due ragazzini erano entrati subito in rivalità, e non ci pensavano due volte a farsi esplodere il cosmo in faccia a vicenda ogni volta che si rivolgevano la parola. 

La cosa che aveva colpito Aiolos era quanto se l’era presa suo fratello. Aiolia non era, per natura, un rancoroso. Mai stato. Se fosse stata solo questione che si stavano terribilmente antipatici, ci avrebbe fatto una gran croce sopra e basta, come aveva fatto con Deathmask. Invece, ad Aiolos pareva che ci si stesse ossessionando. Per qualche motivo, Shaka era capace di pungerlo, e molto forte, su un nervo scoperto. 

« Dici che c’è il rischio? »

« Di orgoglio si muore. E credo che tutti e due ne abbiano una riserva fuori scala ». 

« Non è un tratto poco diffuso fra i cavalieri ».

« Sì, lo so, è che… boh? Mi sembrano più interessati ad affermare la loro forza che a servire Atena. Con Aiolia magari ho sbagliato qualcosa io. Tempo fa ha litigato col Cancro, ora si è messo a litigare con la Vergine. Fra un po’ andrà a litigare anche col Palladio ».

« L’abbiamo fatto tutti a quell’età. Io mi ricordo le tue scenate con Shura quando eri ragazzino. Non ti incazzi mai, ma quando lo fai… » 

« Ma no, non era mica uguale ».

« Pff ». 

Saga fece quella cosa disinvolta che lo uccideva sempre: si passò una mano sulla fronte per scansarsi dal volto i capelli, che poi vi ricaddero sopra. Aiolos aveva una venerazione per i suoi capelli in generale, ma erano quei ciuffi che gli sfioravano gli zigomi che lo indebolivano maggiormente. 

E Saga faceva finta di non accorgersene, perché, nonostante il proprio aspetto e il proprio potere, non sapeva cosa fosse la vanità. Sia a letto che fuori si lasciava venerare con uno sbuffo e un gesto della mano, come se Aiolos fosse stato un esagerato che si emozionava per niente. Se si rendeva conto che Aiolos lo stava guardando con un certo rapimento, gli sorrideva con affezionato fastidio e gli diceva “torna in te, sei ridicolo”.

« Capisco la preoccupazione, ma sei suo fratello, non suo padre. Non ti devi fare colpe educative che non ti competono ». 

« Sì, ma… boh ».

Aiolos si buttò all’indietro, allungandosi sulla gradinata come un gatto al sole. 

« Hai una bella faccia tosta, con tuo fratello lì sotto che si danna l’anima, » lo prese in giro Saga.

« Ma che ho fatto? » si sorprese Aiolos. 

« Guarda quanto sei lascivo, » fece l’altro, facendo finta di disapprovarlo. 

« Ma non sono lascivo, sono solo naturalmente sexy. È una cosa involontaria, capisci ».

« Avanti, parla. Tanto non ti do soddisfazione ».

Aiolos sospirò. « Cioè… capisco quello che dici sull’essere fratelli, ma nel nostro caso è successa un po’ di confusione. Non camminava ancora e gli ero rimasto soltanto io. Mi sono un po’ ritrovato a comportarmi in modi in cui non pensavo di comportarmi. L’idea di avere figli mi devasta, lo sai. Però qualche volta, quando Aiolia era piccolo, mi fermavo un attimo dopo averlo rimproverato e dicevo… cazzo. Sono diventato papà ».

« Mh ». Saga fece uno di quei suoi magnifici sorrisi concilianti, come se si fosse intenerito. « Tutti questi anni e non me ne avevi mai parlato. Paura di farti vedere insicuro? Inutile. Ti conosco meglio di quello che vorresti ». 

« Vabbè, ma che c’era da dire, l’hai visto da solo, no? » rispose Aiolos, evasivo. 

« Io ho visto solo te che facevi un ottimo lavoro. Ma mi pare di capire che la tua visione della cosa sia un po’ diversa, » ribatté Saga. Si voltò verso di lui con quel suo viso serio, con la nota dura e la nota dolce, in simultanea, come sempre. « Fu un incidente, vero? »

« Sì. Unica volta che mamma lasciava Aiolia per un paio d’ore. Da quando l’imbecille di nostro padre se n’era andato, non si era mai staccata da lui.  Era stressata. L’avevo convinta che ci avrei pensato io mentre lei usciva con gli amici. Era in moto. Il furgone non si è fermato. È morta in ospedale ».

Aiolos scrollò la testa come per riavviarsi i ricci, e fece finta che non gli fosse appena passata dalla mente l’immagine del corpo di sua madre in ospedale, dopo che l’incidente l’aveva fatta a pezzi.

« Ovviamente lo sai che non era colpa tua ».

« Ovviamente. Però ovviamente lo sai che una parte di me lo continuerà a pensare ».

« Sì… lo so. Mi dispiace ». 

« Tu e Kanon come siete rimasti soli? »

« Magari te lo racconto in questi giorni ».

« Non devi farlo per forza ».

« Lo so. Però vorrei farlo. Piuttosto stupido che non abbiamo mai parlato di queste cose, no? Solo, non oggi ». 

« Io sono molto contento di lui. Di me, non sempre, » riprese Aiolos, come se il discorso gli fosse rimasto di traverso. « Non ero pronto per fare il genitore, » aggiunse. 

Saga fece una bella, sommessa risata accomodante. 

« Voglio dire… io che ne sapevo di bambini di sei mesi? Avevo tredici anni. Avevo sempre pensato solo ad allenarmi, a non dare problemi a mamma, invece a quel punto… beh, pappine, pannolini, svezzamenti, un sacco di libri da leggere per capirci qualcosa, e tutti quei cazzo di gadget per genitori con un bebè. Tu lo sapevi che c’erano le casse a forma di axolotl per i rumori bianchi? »

Saga abbassò le palpebre e alzò le sopracciglia, come faceva mentre sorrideva quando Aiolos faceva lo stupido per sdrammatizzare. « Adesso ne voglio una. Me la compri? »

« Bianca o nera? »

Aiolos sapeva che Saga non gli avrebbe risposto. A tal punto era una sintesi vivente di opposti che non c’era modo di sapere nemmeno quale colore preferisse. 

« Basta che riproduca te che ti lamenti, invece del rumore del mare. La tua sofferenza è il mio rumore bianco ». 

Risero. 

Aiolia sembrava non essersi quasi accorto di loro che gli facevano da pubblico. Aveva deciso che avrebbe lasciato l’arena solo quando non fosse stato più in grado di muovere un muscolo. 

« Si sarà pure preso cura di voi qualcuno al villaggio, quando siete rimasti soli, » disse Saga. 

« Beh, io avevo già l’armatura, quindi legalmente ero un adulto. Aiolia… non ho voluto io che venisse adottato ».

« Capisco ».

« In che senso? »

« Nel senso che anche a te era rimasto solo lui. Non ti rendi nemmeno conto quanto è evidente a chi vi guarda parlare, dall’esterno. In parte, naturalmente, ti capisco, perché è stato lo stesso per me… in parte, nel tuo caso… »

« Sono davvero un appiccicume? » si lagnò Aiolos con gli occhi da cucciolo.

« Sì, sei davvero un appiccicume ». 

Aiolos alzò le mani come a dichiararsi sconfitto, e risero di nuovo insieme. 

« Beh, le donne di Eunoia mi hanno dato una grossa mano. Erano innamorate pazze… non hai idea di quanto era carino quello stronzetto da bambino. Parliamo di guance veramente fuori dal comune. La gente andava in brodo di giuggiole. Il fatto è che ha manifestato il suo cosmo da subito dopo l’incidente, capisci? Quando piangeva fulminava le luci, quando era arrabbiato mandava le cose in frantumi senza toccarle, e a volte… lo vedevi che brillava di un bagliore dorato. Ovviamente qui in Arcadia la cosa ha mandato tutti fuori di testa dalla contentezza, il bambino era amato da Atena, e… beh, insomma, era proprio questo il problema, capisci? »

« Sì, capisco. Trattato come un dono del cielo per tutta l’infanzia ». 

« Esatto. Un po’ tipo come è successo a voi due ».

« Va bene, questa la incasso, » concesse Saga con un sorriso ironico.

« Sai, finché era davvero piccolo, non c’erano problemi. Era anche bello che crescesse con tutta quella gente intorno, penso. Solo che, diciamo dai sette/otto anni in poi… l’avevano montato. Era diventato un po’ vanitoso, era convinto di avere un destino da seguire e che niente sarebbe mai potuto andare storto. E quando mi disse che voleva che lo addestrassi io… ho pensato: non avrei dovuto crescerlo qui ».

« Non volevi che diventasse cavaliere? »

« Mmh, non lo so, è complicato. È che ci sarebbero state tante altre cose da fare… diceva che riusciva a sentirla… Atena… ma la verità è che era troppo piccolo per decidere che voleva questa vita. Che di solito è corta ». 

« Tu eri più piccolo di lui quando hai preso la decisione, » osservò Saga. 

« Già. Ma sentivo la vocazione e mi sembrava che fosse una cosa che riguardava solo me. All’epoca non avevo un fratellino che ora ho una paura cagna di vedere morto ». 

« … Capisco ».

« Sì… lo so ». Aiolos sporse in fuori la gamba per dargli un colpetto affettuoso col ginocchio. « Beh, per fortuna né lui né Kanon sono semplici da ammazzare ». 

Saga non rispose a quell’incoraggiamento. Aiolos non insistette. Era vero che lui e Kanon litigavano regolarmente, anche su questioni piuttosto importanti, ma Aiolos sapeva benissimo che erano legati da qualcosa di più resistente del cemento, e che sarebbe stato un disastro se fosse successo qualcosa all’uno o all’altro. 

« A te non disturba che la tua vita possa essere corta? Dedicata a una sola cosa fino al giorno della tua morte? » disse Saga. 

« Non sono sempre sicurissimo. Cioè, non mi fraintendere, io la vocazione la sento ancora, anzi la sento meglio di prima… »

« Però non sei mai stato un ragazzino. L’armatura ti ha trovato a sette anni, la paternità adottiva a tredici. Hai saltato diversi passaggi in cui avresti avuto il diritto di essere stupido, rispetto a come succede alle persone comuni. Ti domandi se potevi fare qualcosa di diverso. O magari ti domandi, riguardo ad Aiolia… ho per caso allevato altra carne da macello per la prossima guerra inutile contro Asgard? »

« Sai… sono abbastanza sicuro che non dovresti parlare così. Non dopo che Shion ha percepito il ritorno di Odino ».

« Ma non di Atena. E la verità è che senza Atena siamo tutti in paranoia. Spero che questa nuova adunanza sia la volta buona che si reincarnerà ». 

« Sarebbe bene anche per Aiolia. Guardalo ». 

« Già. Tutto quel testosterone ha bisogno di una guida. Ma tu hai fatto un bel lavoro ». 

« Ma dai. È diventato così belligerante. Non gli si può dire niente! »

« Perché è adolescente. A lui ora sembri un vecchio che non lo capisce e gli dà consigli da mummia incartapecorita. Ma non ti accorgi che pende dalle tue labbra? Ti ascolta molto più di quello che pensi e ti ammira più di chiunque altro. È un bene che tu sia nella sua vita. Cerca di ricordartelo… e restaci ».

« Certo che ci resto. Non sono quel cane di nostro padre. Piuttosto che fare come lui, preferisco morire ».

A quel punto Saga estrasse un pacchetto di sigarette. Anche quello poteva essere un segnale: Saga le fumava già fatte, in pacchetto morbido, Kanon se le faceva da sé, sottilissime, con tabacco, filtri e cartine. 

Per un po’ Aiolos lo guardò fumare, anche se faceva finta di guardare verso l’arena. 

Saga, quando pensava, faceva quella cosa, che Aiolos adorava, di far uscire lentamente il fumo dalla bocca verso l’alto per riprenderlo subito col naso. Una volta che Aiolos ci aveva provato ci si era quasi strozzato. 

Sentendosi osservato, Saga sputò una boccata di fumo e le diede, col cosmo, la forma di un serpente, facendolo strisciare nell’aria fino a farlo saltare a fauci spalancate in faccia ad Aiolos. Poi ridacchiò delle sue proteste, per dissimulare. Non c’era niente da fare, l’uomo più venerato dell’intero Santuario dopo Shion si imbarazzava quando qualcuno lo guardava fisso.  

« Mi ricordo quando è morto Achille, » disse improvvisamente Aiolos. 

Saga gli rivolse un’espressione interrogativa.

« Il suo primo gatto, un trovatello. Aveva insistito tantissimo per adottarlo. Era solo un bambino, ma si prendeva cura di quel gatto con serietà assoluta. Achille cominciò a soffrire di insufficienza renale da giovane. Aiolia aveva forse sei anni e se lo portava a letto, gli metteva la copertina, ci parlava per fargli coraggio e lo pregava di mangiare… lo voleva portare dal veterinario da solo, non voleva che lo accompagnassi, diceva che era abbastanza grande da cavarsela da solo. Un giorno Achille stava veramente male, insomma… avevo capito che era la fine, perciò… Aiolia come sempre voleva portarlo dal veterinario da solo, ma ci andai anch’io con la scusa che dovevo andare in città. Lo sapevo che lui sperava ci fosse una soluzione, ma… dovemmo addormentarlo. Aiolia non voleva piangere davanti a me. Gli chiesi perché, gli dissi che se voleva piangere poteva farlo… lui mi disse no, non avrebbe pianto, perché sarebbe diventato un cavaliere. Era il suo modo per dire che il mondo gli sembrava uno schifo, uno schifo davvero ingiusto, e che desiderava avere il potere di cambiarlo ». 

« La verità è che siete due tenerelli buoni come il pane ».

« Davvero mi trovi bono? » sdrammatizzò Aiolos.

« Ho detto “buono”, » lo corresse Saga.

Dopo un altro tiro di sigaretta si voltò per scoprire che il Sagittario lo stava guardando di nuovo con gli occhi da cucciolo di foca. Con un movimento rapidissimo a tradimento, Saga gli tirò giù, sugli occhi, la fascia rossa che portava sulla fronte. 

« Ma certo che sei bono. Metti forse in discussione i miei gusti? »

« Considerando che ti piace il sushi col mango… »

Anche se amava molto la sua bocca quando sapeva di mango. 

« Almeno non mangio la pizza con würstel e patatine come i bambini ». 

« Intanto con la tua alterigia ti perdi un’esperienza sensoriale completa, sia a livello di gusto che di texture. Peggio per te ».

Saga gli rivolse un altro sguardo. Aiolos stava praticamente friggendo come uno spicchio d’aglio in padella.

Saga sospirò. « Lo sai che puoi venire qui vicino, vero? O pensi ancora che io possa essere Kanon? »

« Mi sa che mi avete traumatizzato veramente ». 

Alla fine Aiolos si lasciò convincere, o forse semplicemente non riusciva più a resistere. Scorrendo di lato col sedere, aderì al fianco di Saga e gli poggiò la testa sulla spalla. Saga giocherellava con le dita coi suoi capelli. 

« L’altro ragazzino, invece… Shaka. Non lo so se mi convince, » disse il cavaliere dei Gemelli. 

« È un bell’acquisto. Non è semplice colpire mio fratello, men che meno ridurlo in quel modo. Ci sa fare ».

« Indubbiamente. Ma molto potere e poco buon senso formano una combinazione volatile — e troppa superbia non si addice a un servitore ». 

« Ma dai, che esagerato, » disse Aiolos, accoccolandosi più comodamente. « Sarà un ragazzino spinoso, ma non ha cattive intenzioni ». 

« Grazie al cazzo, nessuno ha mai cattive intenzioni secondo te ». 

« Avanti, Saga, ha quindici anni a fatica, e già tutto il lascito della Vergine sulle spalle. Non avrà nemmeno avuto una vita normale, forse nemmeno lui è stato mai bambino veramente. Adesso tu sarai anche lo specchio di ogni virtù, ma a quindici anni, quando ci siamo conosciuti, ti vorrei ricordare che soggetto eri ». 

« Ti confondi con mio fratello, » disse Saga, con un tono in qualche modo enigmatico.

« No, no, bello, non ti nascondere dietro a tuo fratello, » lo ammonì scherzosamente Aiolos. « L’incidente al tempio di Ecate con relativa crisi diplomatica era colpa tua e lui ti è venuto dietro ». 

« No, guarda che era il contrario. Letteralmente ». 

« Non era per nient— »

Aiolos non finì la frase, ma anzi si ritrasse da lui come se l’avesse punto una vespa non appena una realizzazione improvvisa ricadde su di lui. 

« Oh, ma che cazzo, Kanon! »

Gemini rise, ma non rise elegantemente come rideva Saga, bensì come rideva Kanon, una risata sonora e strafottente, come se la persona di fronte ad Aiolos avesse appena cambiato personalità.

« Oh, anima candida, ancora non sai distinguerci? Meno male che te l’ho detto prima che tu mi baciassi. Sei imbarazzante. A Saga si spezzerà il cuore ». 

Dopo anni, Aiolos avrebbe dovuto essere abituato a quegli scherzi. Invece arrossì. Era davvero difficile, perché quando si mettevano in testa di tormentarlo ci riuscivano sempre, perfettamente identici e bravi com’erano a imitarsi l’un l’altro nei gusti, nelle opinioni, nella prossemica, nel modo di parlare, in tutto. Erano perfino capaci di alterare il proprio cosmo per sostenere meglio l’inganno. 

Ogni volta che la verità veniva fuori di colpo, quando il gemello di turno si era stancato di giocare, c’era sempre l’impressione sconcertante che la persona con cui si era parlato fino a quel momento fosse diventata un’altra. 

Non aiutava per niente che fossero tutti e due piuttosto bravi anche con le illusioni — anche se era più Kanon che si divertiva a usarle per creare equivoci, mentre Saga almeno quello lo faceva malvolentieri.

« Voglio vedere i tatuaggi, » pretese Aiolos.

« Troppo facile, » sogghignò Kanon. Adesso quel sorrisetto pestifero era perfettamente ovvio, eppure fino a quel momento Aiolos avrebbe potuto giurare di fronte ad Atena che quello era Saga. 

« Pf, » sbuffò lui. « Beh, volevi qualcosa? »

Kanon si strinse nelle spalle mentre spegneva la sigaretta. « No. Volevo solo passare il tempo con i miei adorati cognati. Dai, non te la prendere. Stavolta te l’avrei detto prima che fosse… troppo tardi. Insomma, sei carino, ma non sei il mio tipo ». 

Aiolos a quel punto si sentì autorizzato a essere invadente, e afferrò senza complimenti una specifica ciocca di capelli di Kanon — il quale lo lasciò fare con un sorriso sarcastico. Aiolos dovette solo passarsi per pochi secondi quei capelli fra le dita, prima di trovare il capello bianco.

« Saga! »

Un altro scambio completo, e di nuovo la sensazione che la persona che aveva davanti fosse cambiata radicalmente: Saga si mise a ridere, e stavolta rideva di cuore, ad alta voce, pur senza perdere l’eleganza — che era di nuovo la sua. 

« Sei un deficiente! »

« Scusami… fai troppo ridere… » gemette Saga in preda alle risate. Il modo in cui teneva la mano davanti alla bocca era il suo. « Ma quanto sei cretino? »

« Io sono cretino? »

Alla fine si mise a ridere anche Aiolos. Ridevano così di gusto che Aiolia, giù nell’arena, si voltò a guardare che succedeva — e poi tornò a chinare la testa sull’allenamento, rapidamente, come faceva quando si imbarazzava nel vederli tubare. 

« Te la sei presa? »

« Sì, me la sono presa. Come le altre trecentocinquanta volte ». 

« Anche se ti guardo così? »

Aiolos, seduto tutto risentito coi gomiti sulle ginocchia, inclinò il capo all’indietro per guardarlo. Due occhi blu come l’alto mare, limpidi come specchi, con lunghe ciglia nere. E soprattutto quel sorriso moderato, assorto, un po’ trattenuto — come quello di qualcuno che fosse  incurante, o forse riluttante a essere così bello. 

« No… se mi guardi così no ».

Saga si sporse in avanti verso di lui e gli baciò lentamente il labbro inferiore. Aiolos ci aveva pensato dall’inizio della conversazione, così che adesso il cuore gli fece un salto nel petto e gli tremarono un po’ le ginocchia, sulle quali per il momento tenne i gomiti ben piantati, come per tenerle ferme. Gli tremava come tutta la pelle del viso mentre Saga continuava ad assaggiarlo con calma. Finalmente Aiolos non si trattenne più, si voltò con tutto il corpo, gli prese il viso fra le mani e lo baciò profondamente. Passandogli le dita fra i capelli si rese conto che, curiosamente, gli era spuntato un altro capello bianco. 

« Che c’è? »

« Lo sai che ti stanno venendo i capelli bianchi? » sorrise Aiolos sulle sue labbra. 

Saga non rispose. 

Chapter 8: E avrà i tuoi occhi, 2

Chapter Text

Philoxenia era un minuscolo villaggio di quelli che erano costruiti ai piedi del monte Parnassus — per lo meno il monte Parnassus che c’era in Arcadia, una versione decisamente più massiccia ed impervia e decisamente più magica di quello che c’era nel mondo ordinario. 

Scalando le sue pendici traditrici si poteva raggiungere la Delfi di Arcadia, a condizione di mostrare un certo nerbo come scalatori; e tutti quei piccoli villaggi, tra cui Philoxenia, non lontano da Eunoia, facevano come da satelliti alla sede dell’Oracolo, e vivevano inconsciamente sotto la sua influenza. 

Il Parnassus aveva ucciso parecchia gente che cercava di arrivare a Delfi; col tempo, si era smesso di provarci, e i gruppi di esploratori si limitavano a cercare di mappare l’infinito sistema di caverne nelle viscere della montagna, per poi tornare a casa quando iniziavano a sentire che c’era qualcosa che non andava. 

Philoxenia aveva il suo piccolo cinema all’aperto, i suoi negozi con orari di apertura estremamente rilassati e il suo paio di locali per mangiare e bere. 

Uno di questi locali era il Leucò, che recentemente aveva cambiato gestione. A rilevare il piccolo pub era stata Iris, una donna di colore sulla sessantina, arrivata dal Brasile pochi anni prima, ammessa a varcare la soglia e a vivere in Arcadia per i meriti spirituali che aveva mostrato nel mondo non magico. Da allora il Leucò continuava a fare cucina greca e panini succulenti, ma aveva aggiunto al suo menù anche un ottimo churrasco e una feijoada corroborante. 

Erano le undici, e il Leucò aveva già chiuso e abbassato la saracinesca a metà perché era stata una serata con poco movimento. L’unico avventore che era rimasto era un amico di lunga data di Iris, venuto in visita come faceva regolarmente, ora che al Santuario non c’era la legge marziale che obbligava tutti i cavalieri a stazionare nel loro posto designato. 

« Qualche novità? » chiese Aldebaran, seduto al banco su uno sgabello che sembrava minuscolo a contrasto con la sua mole. 

« Ho preso un aiuto in cucina, » rispose Iris, asciugando energicamente un bicchiere. « Una ragazza troppo carina. Quasi un biscotto al burro ». 

« Beh, era ora. Sempre a fare tutto da sola come una capra ostinata ».

« Diciamo che mi è un po’ caduta dal cielo, o forse dovrei dire risalita dalla terra ». 

« Curioso modo di metterla, » osservò Aldebaran. « Puoi spiegarmi? »

« Hai saputo la notizia di quella ragazza che hanno trovato l’anno scorso nelle caverne di Tifone da queste parti? »

Aldebaran aveva sentito la storia, vagamente. Non erano pochi, appunto, quelli che si avventuravano sul Parnassus e facevano una brutta fine; si diceva che la montagna amasse uccidere soprattutto i cavalieri. 

Almeno, quella ragazza l’avevano ritrovata: svenuta nelle profondità della terra, nelle caverne più pericolose del Parnassus, dove scorrevano profondamente le acque che santificavano Delfi. 

« Sì, più o meno. Un’escursionista smarrita ». 

« Seh, seh. La storia è parecchio più strana ». 

« Non puoi non offrirmi una birra, allora ».

« Ho lavato la spina, » disse Iris severamente. 

« Allora te la pago ». 

I due si guardarono con espressione molto seria, il tempo necessario perché Aldebaran cedesse per primo, come sempre, e si mettesse a ridere di gusto. 

« Ah, ti pareva, » borbottò Iris, apprestandosi alla spina con un boccale con un movimento esperto e consumato. Spillò due birre a doppio malto, e i due fecero un cin cin. « Beh, in sintesi. È passato di qui il sindaco un giorno, insieme con una serie di guardie e paramedici, e questa ragazza bellina come un confetto. La tua escursionista smarrita. Ma la faccenda è molto strana. Un gruppo di speleo-subacquei l’aveva trovata in fondo alle grotte di Tifone. Chiamati i soccorsi e tutto il resto, perché non si sapeva come fare ad estrarla di lì. Era svenuta, e si trovava in una camera altrimenti mai scoperta prima, superati diversi cunicoli sommersi… senza attrezzatura, senza vestiti adatti, senza insomma che ci fosse maniera di capire come era arrivata laggiù. Quelle caverne probabilmente coprono tutta l’estensione del Parnassus e non sono esattamente un posto dove puoi andare coi sandali e senza bombole e attrezzatura, da sola, per giunta. I soccorsi ci hanno messo 46 ore a tirarla fuori. Lei nel frattempo era andata in shock, e poi… appena è tornata in superficie, si è svegliata da sé, e subito, clinicamente, era sana come un pesce ».

« Che storia bizzarra ».

« Già. E pure triste. La poverina ha una brutta amnesia, anche se insiste che deve tornare a casa al più presto. Ma non sa da dove viene, non sa cosa ci faceva in quel buco, continua a dire che le viene in mente solo un nome, “Sonja” ». 

« Il suo nome? »

« No, il suo nome non lo sa, così l’ho chiamata Elena ».

« Come la donna più bella del mondo antico? » sorrise Aldebaran. 

« Vedessi com’è bella, » disse Iris mettendosi una mano sul cuore. « Una bellezza d’altri tempi, pure, con un bellissimo naso greco e certi occhi azzurri — no, grigi… insomma, un colore particolare. Insiste che questa Sonja, un’amica o forse una sorella, è nei guai, e spesso ci si strugge. Il sindaco me l’ha appunto portata qui, chiedendomi se potevo aiutarla ». 

« E così l’hai assunta ».

« Sì, è brava con le mani. Cucina, ripara il lavandino, imbianca, tutto quello che si fa con le mani. È una brava ragazza, buona come un angelo e gentile con gli animali, pure un sacco simpatica, se non fosse che ha il mutismo selettivo ».

« In che senso? » si stupì Aldebaran.

« Non riesce a parlare con gli uomini, » spiegò Iris. « Non importa se sono belli o brutti, possono pure essere decrepiti e mezzi mummificati, lei non ci parla. Non ce la fa, le viene il batticuore e si paralizza. Così, in genere, sta in cucina, al banco ci sto io. È un peccato perché, bella com’è, a quest’ora non starebbe vivendo da sola nel bilocale al piano di sopra, ma starebbe convivendo con un bel fregno adorante determinato a servirla come una principessa. Sapessi quanti mi chiedono di lei. Ma lei dice che non è niente di che. Anzi insiste che questa Sonja è cento volte più bella. Poi però se le chiedi com’è fatta, non se lo ricorda ». 

« Non è che può essere un qualche tipo di trauma psicologico? La perdita della memoria, la timidezza… »

« Vallo a sapere ».

Iris spillò altre due birre. Aldebaran conosceva bene tutti i suoi gesti, il modo in cui ogni tanto si grattava il collo o si riavviava i dreadlock, la postura da arrogante, le smorfie che faceva, da vera dura. Ma sapeva che Iris di duro aveva solo la scorza. 

Iris era una persona normale, e non emetteva di conseguenza alcuna traccia di cosmo; tuttavia, affermava di essere “mezza strega”, ed era in grado di percepirlo negli altri — forse perché, in Brasile, aveva abitato praticamente tutta la vita, da sola, in una piccola fattoria così vicina al luogo dove era conservata l’armatura del Toro. Aveva conosciuto bene il maestro di Aldebaran, che ogni tanto andava a mangiare da lei una delle sue devastanti fagiolate. La leggenda era che Iris avesse fatto qualcosa di terribile, che a volte era ammazzare il marito a volte era rapinare una banca. Ad Aldebaran, in coscienza, non sembrava impossibile né l’una né l’altra cosa. 

Iris si era sempre presa cura di Aldebaran come una sorella maggiore o una mamma, e durante l’addestramento l’aveva incoraggiato, sgridato, ricucito, nutrito e raccolto col cucchiaino un sacco di volte, da quando era stato un bambino a quando era diventato alto più di due metri, con lei che gli arrivava nemmeno al petto ma sapeva lo stesso benissimo come farsi rispettare da lui. In Arcadia, non esisteva nessun altro essere umano a sapere che, prima di chiamarsi Aldebaran, si era chiamato Tiago. E alla fine se n’era venuta in Arcadia con lui, del che Aldebaran era molto grato. Gli faceva piacere andarla a trovare circa una volta alla settimana, e le portava sempre dei mazzi di fiori giganteschi. 

« All’ospedale comunque l’hanno rivoltata come un calzino, e il mistero si infittisce. Veramente è sempre apparsa completamente sana. Si è… letteralmente risvegliata in quel buco e basta. Stanno indagando da un anno ininterrottamente, ma non si capisce chi sia, da dove venga, se con lei c’erano altri. L’hanno pure ipnotizzata. E poi qui viene la parte più strana… ma non ne parlo di solito con lei, perché la fa stare malissimo ».

« Di che si tratta? »

« Beh… gli speleo-sub che l’hanno trovata, e il team che l’ha tirata fuori. Nel  giro di un anno sono morti tutti suicidi. Qualcuno di loro ha lasciato lettere, in cui dicevano… beh, cose assurde, in merito a un’oscurità nelle viscere della terra. Su alcune di queste lettere c’era uno scarabocchio come questo. Magari tu che sei astrologico mi sai dire che roba è ».

Iris aveva tirato fuori dal portafoglio un foglietto piegato e spiegato diverse volte dove era raffigurato quel glifo. 

« È la falce, il simbolo di Saturno, » disse Aldebaran.

« E che vuol dire? »

« Vuol dire “Saturno” ». 

« Sei inutile. Ammonti a esattamente centotrenta chili di roba completamente inutile ». 

Iris gli mise la birra davanti. 

« Ok, » ridacchiò Aldebaran, prima che facessero un altro cin cin e bevessero un lungo sorso. « Non so cosa significa, Iris, nemmeno fra altre quattro birre. È solo il simbolo alchemico di un pianeta. Potrebbe indicare qualsiasi cosa, anche un semplice gruppo di fanatici. Se il Sacerdote non ha percepito niente a riguardo, vuol dire che non è niente, » aggiunse con convinzione.

« Non puoi dirmi che la storia non ti sembra interessante ».

Aldebaran sorrise. « Iris, lo so che non ci sei ancora abituata, ma questo è un mondo dove c’è la magia. La gente sparisce in maniere talmente assurde che questo caso, al confronto, è quotidianità. Avete controllato se Elena potrebbe essere collegata a Delfi? »

« L’unico che potrebbe rispondere è l’Oracolo. Ma come si fa? »

« Lei non desidera andarci? »

« Lo desidera sì, certo, ma può andarci? Intendiamoci, l’ho vista bene, è robusta, si allena, va in palestra, e giuro che ha una forza come la tua. Non credo che non potrebbe farcela a scalare. Ma sono secoli che nessuno arriva a Delfi, nemmeno un cavaliere d’oro, nemmeno il tuo Sacerdote, perché la montagna li uccide in altre maniere. Come potrebbe arrivare a Delfi a fare la sua domanda? Sarà stata una super sportiva, forse un’atleta, ma non è certo una semidea ».

« E un cavaliere, invece? Mi vengono in mente ancora tre o quattro armature che restano da reclamare, » disse Aldebaran con naturalezza. 

« Io non sento niente. Niente di niente. La ragazza non emana nemmeno uno sputo di cosmo, come qualsiasi persona normale ». 

« Non hai mai pensato di mandarla al Santuario? Per indagare anche altre strade ».

« Gliene ho parlato, certo. Ma lei dice che al Santuario non ci vuole andare ».

« Come? » si stupì Aldebaran. Non aveva mai sentito di un abitante dell’Arcadia che non desiderasse visitare il Santuario, almeno da lontano. 

« Dice così. Dice che non può, che si vergogna. Ma non sa dire perché. Che posso farci? Se non vuole non vuole. È un’adulta, non decido certo io per lei. Non dirmi che vuoi interessarti a questa storia? Credevo fosse quotidianità ». 

Aldebaran fece ruotare un po’ il boccale di birra fra le dita. « No, mi sembra giusto rispettare i desideri della ragazza. Del resto, anche se avesse la chiamata, avrebbe tutto il diritto di rifiutarla. Alla fine della storia, succederà quello che è destino che succeda ». 

Bevvero le seguenti due birre parlando poco, e del più e del meno — qualche pettegolezzo e qualche battuta. Ad Aldebaran piacevano i locali chiusi. 

La notte risuonava del canto dei rapaci notturni. Finché avevano parlato non se n’era accorto, ma ora che era giunto un momento di silenzio gli pareva che i gufi strombettassero come degli ossessi. 

« È quasi assordante, » sorrise.

« Sono gli assioli che cercano la fidanzata, » spiegò Iris. « Da mesi si sente pure una civetta. Senti? » mise una mano all’orecchio per invitarlo ad ascoltare, e poi aspettò un suono diverso in mezzo a tutti quei “chiù”.« Questa. È una civetta ». 

« Civetta? È un allocco ».

« Sei tu un allocco, e bello grosso. È una civetta. Una nottola. Athene noctua. Chiamala come ti pare, ma quello è. Che un cavaliere di Atena non sia capace di distinguere il canto della civetta da quello di un allocco è proprio sintomatico delle pessime condizioni in cui siete come casta ». 

« Va bene, non mi maltrattare. Sono sensibile a causa della birra ». 

« Senti, come vanno le cose alle Dodici Case? Sono sempre mezze vuote? »

« Si stanno iniziando a riempire, » sorrise Aldebaran. Iris si preoccupava sempre, anche se faceva finta di no. « C’è ancora qualche ritardatario ».  

« Coi tuoi colleghi tutto bene? »

« Sì, direi di sì. Sono matti dal primo all’ultimo, ma mi sembrano brave persone e validi guerrieri. Non ho… per niente voglia di andare in guerra e magari vedere Odino ucciderli. Questo devo ammetterlo. Sono così pieni di vita, tutti presi dalle loro cose. Spero che ci tocchi ancora un po’ di pace. Certi giorni morire giovani mi sembra così triste ». 

« Hai così paura di Odino? »

« Bisognerebbe essere stolti per non avere paura di Odino ».

« Però, manco a partire già convinti di morire ».

« È la storia che insegna. Del resto, ci addestriamo apposta ». 

« Sei un disgraziato! » lo rimproverò Iris. « Sei stato addestrato per servire Atena, è veramente una vergogna che tu non abbia fiducia in lei. Pf… tutte queste guerre hanno rovinato tutto il pianeta. Adesso la gente è fatalista e la colpa è tutta della bomba atomica. Per quelli di Asgard, sia la vittoria che l’essere uccisi in battaglia sono cose gradite, e si rallegrano se un amico muore con le armi in mano. Tu, cavaliere, hai paura? »

« Hai ragione, Iris. Normalmente non sono così disfattista. È che mi hai dato solo da bere e niente da mangiare, e come risultato sono ubriaco ».

« Io la cucina non la sporco. Prenditi un sacchetto di noccioline, » disse Iris facendo un cenno verso l’espositore. Aldebaran sorrise di nuovo. « E se ci fosse davvero un’oscurità nelle viscere della terra? Tu ascolta il canto della civetta, che hai scambiato per un allocco. Ascoltalo bene, Aldebaran. Non ti ho rattoppato centomila volte durante il tuo addestramento perché tu diventassi sordo all’universo. Oltretutto, coi tuoi 34, sei uno dei più vecchi al Santuario, e i tuoi colleghi più giovani non devono mai guardarti e vedere una persona che non ha ancora capito un cazzo della vita. Vedi di non dimenticartelo ».

« E quindi come dovrei fare? » chiese onestamente il cavaliere. 

« Esercitati a restare attaccato alla realtà mentre il mondo si riempie di illusioni oscure. Metà del pianeta considera il canto della civetta un presagio di morte. Colpa dei cristiani, naturalmente. Ricordati invece che la civetta canta una canzone di saggezza. Ma nessuno ha mai trovato la saggezza nella comodità di una vita semplice, o ha mai portato la luce in una stanza dove la luce era già accesa ». 

Aldebaran finì l’ultima birra e si sporse oltre il banco per mettere il boccale vuoto nel lavandino. « L’America latina è peggiorata dal giorno della tua partenza, ma l’Arcadia ne ha tratto un grande beneficio ».

« Piantala, grosso idiota. Le birre te le offrivo comunque anche senza moine ».

Era ormai l’una quando Aldebaran sollevò la saracinesca con una mano per passarci sotto e lasciare il locale, dopo aver aiutato Iris a pulire e averle dato la buona notte. Gli piacevano proprio i locali chiusi, e il rettangolo di luce sommessa che illuminava il marciapiede da sotto la serranda. 

Sentiva cantare piano piano; era una donna che cantava, o forse era uno spirito della notte. 

Alzò lo sguardo per vedere una lucina accesa al piano superiore, sopra il locale, dove, si ricordò, abitava quella misteriosa ragazza assunta da Iris. La finestra era aperta, e sul davanzale esterno c’era un piccolo cumulo di carne, forse prosciutto, che era stato lasciato perché una civetta se ne potesse nutrire — allora era davvero una civetta, con due occhi gialli come lune piene. Si ingozzò senza badare a lui all’inizio, poi gli rivolse un lunghissimo sguardo. 

Si sentiva la musica provenire da dietro la tenda che oscillava leggermente; i Radiohead, notò Aldebaran prontamente — li ascoltava sempre anche Mu. 

Elena cantava sommessamente. La voce era dolce, dotata di una malinconia davvero soave. Aldebaran si sorprese a chiudere gli occhi per ascoltare la conclusione della canzone in un tenerissimo gorgheggio triste. 

It's the best thing that you've ever had
The best thing that you've ever, ever had
It's the best thing that you've ever had
The best thing you've had… has gone away
So don't leave me high
Don't leave me dry
Don't leave me high
Don't leave me dry…
Don't leave me high.

Per un attimo rimase lì davvero come un allocco. Quella voce che cantava era così… strana. Forse non era quello l’aggettivo corretto. Era come aver riconosciuto qualcosa che non conosceva; come sapere e non sapere; come sentirsi perfettamente confortato e completamente confuso. 

« Buona fortuna, ragazza, » disse alla notte prima di andarsene. 

Era davvero ubriaco. 


*

 

C’era un posto che ad Aiolia piaceva particolarmente, specialmente in quel momento dell’anno, subito prima dell’estate. Era un posto dove forse erano morti degli dei, forse un’intera nazione, e dove la completa indifferenza del tempo aveva costruito una magnifica tomba. 

Per raggiungerlo era necessario lasciare il picco delle Dodici Case, uscire da Eunoia, la città sacra che sorgeva più in basso sullo stesso massiccio montuoso e scendere giù lungo la parete rocciosa, percorrendo a lungo un sentiero accidentato e ripido che in primavera era sempre invaso da una vegetazione intricata. Pochi si cimentavano nella scarpinata, perché al ritorno la salita era una scalata quasi proibitiva, che metteva a durissima prova i polmoni, il cuore e i polpacci. 

Finalmente si arrivava alla base dell’interminabile massiccio, e al suo posto preferito: una fitta macchia piena di fiori che esistevano solo in Arcadia e che di colpo, dopo una muraglia di tamerici, si trasformava in una spiaggia di sabbia chiara bagnata da un mare di un azzurro trasparente. 

Il mare in quel luogo diventava subito profondo e, dopo pochi metri, si inabissava a picco in un crepaccio sottomarino, tutto disseminato dalle rovine di una città antica che erano diventate la base su cui crescevano i coralli. 

Aiolia non aveva mai visto il fondo di quel crepaccio, tanto era profondo, ma in tutte le stagioni andava a immergersi per esplorare la città sommersa, coltivando l’illusione di essere il primo essere umano che scopriva quel posto e sfidandosi ad arrivare sempre più giù. Sapeva che non era così, ed era abbastanza sicuro che, per citarne uno, anche Aphrodite ogni tanto andasse a fare il bagno fra quelle rovine — e lui, probabilmente, era arrivato in fondo. Ma quando era lì, la solitudine era completa e l’illusione di trovarsi al di fuori del mondo reggeva. Non c’era niente da dimostrare a nessuno — solo a sé stessi, per capire fino a che punto il fisico potesse essere spinto. Così, quando era solo in quell’abisso, sentiva di avere conti aperti solo con sé stesso. 

Quel giorno il sole era offuscato da diversi strati di nuvole, e sembrava, dall’odore, che più tardi potesse piovere; perciò sott’acqua era buio, e il blu era profondo. Aiolia era quasi arrivato alla fine dell’apnea, e sapeva di dover risalire a breve, possibilmente senza farsi venire un gran male alle orecchie  e un principio di svenimento come l’ultima volta. Rilassando il corpo galleggiava così nel vuoto nero del crepaccio, di fronte alle rovine di un tempio che erano diventate una barriera corallina con un gran traffico di pesci. Fu allora, quando transitò e si dissipò la cortina formata da un banco di barracuda, che vide Shaka. 

Colto di sorpresa, gli scappò un po’ di fiato dalla bocca. 

Lo vide nel buio, trafitto da un raro raggio di sole che evidentemente, di sopra, era spuntato dalle nuvole. Nell’acqua così percorsa da un fascio luminoso, i suoi capelli sembravano luce liquida. 

Stava risalendo da un punto profondo, e Aiolia per poco si dimenticò di aver quasi finito l’ossigeno, mentre cercava di capire come quella visione nel vuoto lo facesse sentire. Stranamente felice. 

Dovette risalire, ma prima gli gettò un ultimo sguardo. Non sembrava una cosa umana. Un corpo che funzionava come gli altri, dentro il quale succedevano le stesse schifezze che succedono dentro ai corpi delle altre persone; non sembrava che sotto quella pelle ci fosse del sangue; forse sembrava la statua di una creatura che era morta da tanto tempo, o un bagliore sfuggito all’Ade.

 

Sulla spiaggia, Aiolia si dovette appoggiare al mozzicone di una colonna per riprendere fiato. Aveva esagerato un’altra volta, e gli girava un po’ la testa. 

Sentì uno spruzzo d’acqua e un fiatone, e si voltò per vedere Shaka che riemergeva a sua volta. Mentre riprendeva fiato — ovviamente — non perdeva la compostezza, e di nuovo Aiolia dovette smettere di respirare per un secondo guardandogli i capelli, lunghi fino al sedere, tutti attaccati al corpo. Non era proprio giusto che un ragazzo tanto sgradevole lo lasciasse così esterrefatto. A questo punto si rese conto che era nudo. 

« Cia’, » disse, girandosi subito dall’altra parte. Con un po’ di fatica. Gli sembrava di aver guardato dietro un velo, e di essersi ritrovato sul retro della realtà stessa. Una sensazione immensamente ampia e solitaria. 

« Non pensavo di incontrarti, » disse l’altro. Continuava ad avere gli occhi chiusi. Forse era cieco veramente. Si passò sulle palpebre le dita con un gesto indifferente, perché gli era rimasta l’acqua di mare incastrata fra quelle sue lunghissime ciglia. 

Aiolia raggiunse le sue cose che aveva lasciato sulla sabbia, rovistò un attimo nella borsa e poi lanciò a Shaka un asciugamano. Aspettò che si fosse coperto prima di guardarlo di nuovo.

« Mi meraviglio della pudicizia, » disse Shaka, che anche con gli occhi chiusi evidentemente si era accorto di tutto quanto. Come diavolo faceva? « Non è uso comune andare nudi alle terme, su alle Dodici Case? »

« Sì, beh, non siamo alle terme, » tagliò corto Aiolia, per non farsi vedere imbarazzato. Gli sembrava di aver perso il contatto con la realtà e di essersi ritrovato a vagare in un qualche impossibile luogo di confine solo per averlo visto uscire dall’acqua nudo. Nemmeno quando Aiolos lo lasciava fumare perché “si desse una calmata” si sentiva così. Del resto, in quel momento era ben lontano dal darsi una calmata.

Con un gran sospiro, si sdraiò a pancia in su sull’ampio telo che aveva steso sulla sabbia prima di immergersi. Solo che poi, per un motivo assolutamente insondabile, Shaka, con l’asciugamano avvolto intorno alla vita, si sedette su un lembo dello stesso telo, anche se dandogli le spalle. Aiolia, per istinto, si fece un po’ di lato per aumentare la distanza di sicurezza. 

« Devo dire che, per essere il primo gallo del pollaio, ti imbarazzi con facilità, » osservò Shaka. 

« Beh, che ci fai qui? » chiese Aiolia, brusco. « Saranno mesi che non lasciavi la sesta ».

Dopo che avevano duellato la prima volta, Aiolia non si era più presentato da lui. Si era imposto di allenarsi come un disperato: la volta successiva non sarebbe andata così, e non sarebbe stato colto alla sprovvista. 

Così, non si erano più visti. E tanto piacere, si era detto. Solo che la questione si era rivelata un tormento. 

Aiolia moriva dalla voglia di ottenere una rivincita, e nel frattempo non smetteva più di pensare a quel maledetto — come a un rivale, naturalmente; come a qualcuno che non somigliava a niente che lui avesse mai visto — nel senso che era troppo insopportabile per essere vero, ovviamente. Gli era semplicemente impossibile levarsi il suo viso dalla mente… chiaramente perché gli era troppo antipatico. Non riusciva a smettere di ossessionarsi sul fatto che Shaka l’avesse fatto sanguinare — la cosa lo faceva uscire di testa, naturalmente nel senso che lo faceva incazzare, non riusciva a smettere di pensare di essere stato ferito da lui, e bruciava… bruciava così ferocemente che una notte, alla fine, contorcendosi fra le lenzuola sfatte e affogandosi nel cuscino, aveva dovuto sperimentare l’orgasmo più colpevole della sua esistenza. E poi di nuovo, una serie di volte, una serie di notti. Perché non lo sopportava e in qualche modo doveva espellerlo dal suo corpo… ovviamente. 

Non gli sembrava nemmeno più di avere in testa un proposito più alto e nel cuore una missione sacra, gli sembrava solo di dover tornare alla sesta Casa e battere Shaka, e basta. Era ossessionante. 

« Mi annoiavo, » disse Shaka. 

« Figurati. I santoni non si annoiano ».

« Davvero? Come mai? »

Quel maledetto, irritante tono pungente. 

« Beh… meditano tutto il giorno, pensano a cose incomprensibili alla gente comune, vivono fuori dallo spazio e dal tempo, non provano sentimenti umani, eccetera ».

« Sei un invertebrato ».

« Ok, ok. Ovviamente la parte di te che è ancora umana ogni tanto entra in contrasto con la parte di te che ha rinunciato all’umanità, eccetera eccetera ».

« Ma certo. È come te lo avrei spiegato anche io, » replicò Shaka alzandosi. « La spiegazione completa cadrebbe nel vuoto della tua ignoranza e fornirtela sarebbe inutile, e io mi sono imposto di non fare cose inutili ». 

Aiolia guardò di nuovo dall’altra parte (ma non proprio per tutto il tempo) mentre Shaka si rivestiva. Dopodiché, con profonda irritazione e una buona dose di autentico smarrimento, si trovò a vedersi cadere lo sguardo nei punti dove i suoi abiti semplici gli si attaccavano alla pelle bagnata. 

Era una situazione assurda. Shaka non era— beh, qualsiasi cosa fosse o non fosse, non era normale. Forse l’intera situazione non riguardava nemmeno più due cavalieri d’oro e nemmeno due ragazzi di quindici anni… forse somigliava più a quelle storie mitologiche di mortali che si ritrovano davanti una dea al bagno. E poi puntualmente rimangono inceneriti. 

« Lo sai, per essere un neutrale, indifferente, serenissimo mistico, il tuo senso dell’umorismo brucia, » disse.

« Di che stai parlando? »

Era un tono confuso. Improvvisamente confuso. C’era anche una traccia di curiosità. Aiolia si sentiva ancora più disorientato. Aveva voglia di parlare con lui e aveva anche voglia di farlo incazzare. Aveva voglia di toccarlo — nel senso, sicuramente, di affrontarlo in duello, o forse per vedere se era davvero reale e se assomigliava un minimo a lui, o forse soltanto perché era così bello, e trasmetteva quell’insopportabile sensazione di liscio, di levigato, di morbido. 

« Eh… del tuo… senso dell’umorismo? »

« Non ho niente del genere, » replicò Shaka, come se Aiolia lo avesse accusato di avere due teste.

« Beh, in realtà sì. L’hai fatto un sacco di volte ».

« Non ne vedrei il senso. Non è il senso dell’umorismo quell’inclinazione per cui le persone dicono sciocchezze senza motivo? » disse Shaka con disprezzo. 

Aiolia si alzò in piedi a sua volta. Ma non si rivestì e rimase in costume, perché dall’irritazione (ovviamente) gli era preso un gran caldo. « Ma no, quello è essere cretini. Il senso dell’umorismo è quello che… ma come faccio a spiegartelo? È quando racconti una cosa tremenda che ti è successa ma ci fai le battute, per esempio ».

« Perché dovresti? »

Il dannato stava forse cercando di prenderlo in fallo?

« Perché fa meno paura e meno male. E quindi ti turba di meno ». 

« Anche questa sembra una cosa inutile ».

« Invece è come quello che fanno i santoni, solo meno palloso ».

« Spiegati, » ordinò Shaka, infastidito dal tono furbesco. 

« Il punto è sdrammatizzare, giusto? Cioè prendere una cosa per meno grave di quello che sembrerebbe. Lo scopo della meditazione non è smontare le cose finché non cade l’illusione che possano fare del male, e alla fine starsene tranquilli? È la stessa cosa. Smonti le cose e le rendi inoffensive ». 

Aiolia rimase un po’ interdetto, e un po’ il cuore gli fece quasi un piccolo salto: Shaka, malgrado i suoi occhi non si potessero vedere, aveva un’espressione allibita. 

« È stata una cosa intelligente da dire, e anche piuttosto acuta, » disse. 

« Wow, » si offese Aiolia. 

« Che c’è? »

« Grazie per il tono stupefatto ».

Improvvisamente le labbra di Shaka si arricciarono in maniera incontrollabile; dalla gola gli emerse un minuscolo, debole grugnito. Il cavaliere della Vergine lo represse subito, affrettandosi a portare la mano alla bocca come per ricacciarlo dentro. Aveva delle belle mani. 

Niente, niente di quello che stava succedendo era normale. Aiolia ebbe la netta sensazione di essersi appena stracotto come una salsiccia dimenticata sulla brace. 

« Quella era una risata, » gli fece notare, dissimulando. 

« Ti è sembrato, » disse Shaka passandosi il dorso della mano sulle labbra per impedirsi di sorridere.

« Era carina ». 

Se non l’avesse avuto davanti agli occhi, Aiolia non ci avrebbe creduto: Shaka era in imbarazzo. Forse addirittura leggermente vulnerabile, leggermente aperto. Improvvisamente, ad Aiolia sembrò che fosse tutto un po’ troppo bello — quelle nuvole che promettevano un nubifragio coi fiocchi, il mare color petrolio, il vento fresco sulla spiaggia, i suoi capelli bagnati, il sale. 

« Che c’è? » chiese, perché di colpo gli era venuta la preoccupazione di aver esagerato. 

« Io non avevo mai riso ». 

« Mai? »

« Tu lo fai spesso? »

« Specialmente se mio fratello dice una scemenza. Quindi… sì, spesso ». 

Shaka premette per un momento le labbra l’una sull’altra, forse di nuovo per non ridere. Ma sembrava anche meravigliato. « Quindi il senso dell’umorismo non risparmia nemmeno il proprio stesso fratello? »

« Non far finta di non capire, sei sempre sarcastico, quindi lo sai benissimo come funziona. Ti diverti, per questo lo fai anche se non lo ammetti. Ti sei divertito quando mi hai detto che sono un invertebrato ». 

« Um— »

« Certo che ti sei divertito, confessa. Io mi sono divertito ». 

« Come hai potuto? Ti ho insultato ».

« Sì, sì, ok, ma… la scena faceva ridere. Potevi dirmi che sono un coglione. Invece no, stavi lì seduto come uno di classe e hai detto invertebrato. E ti sei divertito. E ti piace divertirti, per questo l’hai fatto ».

« Non perseguo il piacere, » disse Shaka, diffidente.  

« E allora perché cerchi la pace? La pace è un piacere ».

« In realtà, è l’assenza del piacere ».

« Perché pensi che il piacere sia un vizio. Ma quello vale solo per le persone di merda. Le persone normali non peggiorano spiritualmente se ogni tanto dopo cena mangiano il dolce. Anzi, lo mangi e ti senti in pace ».

Shaka non rispose. 

« Non hai… nemmeno mai mangiato un dolce? »

Shaka sembrò riscuotersi. E forse un po’ indispettirsi. « Adesso smettila, il tuo tono non mi piace. Non ho nessun desiderio di adottare il tuo stile di vita. È evidente implicitamente che lo consideri migliore del mio, e la cosa francamente mi fa tenerezza, quando considero la mollezza che mi hai già dimostrato in altre occasioni ».

Si era di nuovo venuto a creare il silenzio teso che precedeva qualche spacconata. Di comune accordo, entrambi si mossero, a distanza l’uno dall’altro, verso il centro della spiaggia. 

« Se vuoi sfidarmi… coraggio ».

« Sempre pronto. Primo sangue? »

« Ambizioso. Ma va bene. Spero che in questi mesi tu sia un pochino migliorato ». 

Aiolia partì subito all’attacco, e di nuovo dovette scontrarsi con una difesa impenetrabile. Ma l’altra volta se n’era lasciato sorprendere, ora non sarebbe stato così: non esisteva un muro che non potesse venire giù. Dopotutto, Shaka aveva riso. 

Nessuno dei due stava rivolgendo all’altro tecniche che erano destinate a un nemico. Ma si muovevano velocemente, sollevando nuvole di sabbia e tracciando solchi o sollevando sulla battigia alti spruzzi d’acqua, e sembrava che Shaka fosse capace di deflettere qualsiasi pugno o calcio con un movimento del tutto economico e il braccio praticamente a riposo. Aiolia aveva avuto quell’impressione la prima volta, l’impressione umiliante che Shaka non compisse neanche il minimo sforzo di fronte al suo dispiego di energie — ma ora, invece, sentiva chiaramente la tensione ferrea del suo cosmo, come un cavo d’acciaio che oscilla sotto sforzo, mentre il corpo di Shaka restava rilassato.

Lo sentiva, di nuovo, fermo di fronte a quel portone. Minuscolo di fronte a un portone gigantesco, la cui cima si perdeva fra le nuvole; e da sotto il quale usciva uno spiffero di morte. Era il cosmo impenetrabile di Shaka che teneva chiuso quel portone, anche se all’apparenza il corpo era imperturbabile. 

Shaka lo intercettò in salto, facendo un mezzo giro per evitare il suo colpo e simultaneamente per toccargli il fianco con la mano aperta. Aiolia atterrò con una capriola leggermente disordinata, con la parte che era stata toccata che bruciava e doleva come un muscolo allenato per dieci ore di fila. Reggendosi il fianco, col volto sudato, si voltò a guardare l’avversario. Shaka aveva il viso un po’ sporco di sabbia e un ciuffo di capelli bagnati incollato al collo e alla guancia — e una sorta di broncio concentrato in volto che diede ad Aiolia uno strano rush.

Questo gli diede la spinta nelle gambe per tornare in offensiva, e lo scambio di colpi andò avanti per un pezzo, senza che nessuno dei due riuscisse a colpirsi per la maggior parte delle volte; ma Shaka mandò a segno un altro tocco a mano aperta all’altezza dello stomaco che fece quasi piegare Aiolia su sé stesso — ma stavolta era successo qualcosa di diverso: il cavaliere della Vergine, con un’espressione incredula sul volto, si guardava la mano, o almeno sembrava che lo stesse facendo, malgrado le palpebre chiuse.

Dal dorso della mano di Shaka usciva del sangue, risultante da una lacerazione che era stata prodotta da un colpo di Aiolia portato ad altissima velocità: aveva cercato di pararlo, ma l’urto era stato troppo intenso, tanto da spostargli l’equilibrio e costringerlo a incassare di striscio. 

Inizialmente, il cavaliere del Leone si lasciò scappare un sorriso: era possibile colpirlo, bastava “solo” mettere tutta l’anima nel non dargli nemmeno un decimo di secondo di tregua. Per un attimo, sperimentò la pura euforia. 

Ma poi, vedendolo in quel modo, cominciò a sentirsi strano: Shaka sembrava non riconoscere quello che stava succedendo alla sua mano, e ne sembrava non già inorridito o infuriato, ma davvero confuso. Si reggeva appena la mano con l’altra, cercando di non toccare il sangue. Come se fosse stato qualcosa che non riusciva a capire, e che gli faceva ribrezzo, o forse paura.

« Congratulazioni. Sto sanguinando, » disse freddamente; ma si stava trattenendo, perché ad Aiolia sembrò che stesse per perdere il ritegno. In effetti, sembrava quasi isterico. Corrugò la fronte sentendo che Aiolia si stava avvicinando. « Adesso cosa vuoi? Stai indietro ».

Nel momento in cui Shaka stava per spingerlo via con un’esplosione del cosmo, Aiolia si era già avvicinato e gli aveva preso delicatamente la mano ferita. In realtà, non sapeva nemmeno lui cosa stava facendo. Gli venne d’istinto. Gli sembrava che quel sangue non dovesse essere lì. Gli sembrava di aver compiuto un peccato mortale. Senza smettere di guardare lo scarlatto che scorreva si portò la mano di Shaka alle labra, e diede un bacio lento e leggerissimo sulle dita sporche di sangue. 

Poi chiuse gli occhi, con le labbra sulle sue dita. Quindi c’era del sangue dentro al corpo di Shaka, così come c’era la possibilità del riso sulle sue labbra. Ma adesso sì che si sentiva incenerito come i tizi della mitologia — e cioè esaltato, da un lato, di tutti i segreti cruciali che aveva appreso; e dall’altro lato mortificato come un profanatore. Aveva il petto quasi vuoto… eccezion fatta per una terribile vertigine. 

« Mi dispiace ». 

Il contegno inflessibile di Shaka, che aveva già vacillato quando era stato ferito, a questo punto aveva ceduto completamente: sembrava paralizzato e, incredibile a dirsi, era rimasto senza parole. 

Non fece nessun tentativo di ritirare la mano — la lasciò nella mano di Aiolia, che la teneva con dolcezza, abbassandola lentamente. Ad Aiolia parve che avesse anche leggermente piegato le dita, come per sfiorargli il palmo. 

« … Non è niente, » rispose Shaka con una strana voce arrochita. 

Per qualche lungo secondo, Aiolia fu effettivamente sul punto di fare una sciocchezza. Una di quelle grosse. 

Lasciatagli la mano, solo con la punta delle dita gli scansò con cura i capelli dal viso. Aveva la pelle così liscia e bella. 

Da parte di Shaka, che fino a quel momento non aveva concesso neanche la minima, remota vicinanza, proveniva magari grande confusione e un profondo sconvolgimento, ma nessuna ostilità. 

La tensione però era destinata a venir frustrata, e a sgonfiarsi come una vela quando di colpo cade il vento. 

 

Si voltarono entrambi nel sentire il rumore di un gommone che arrivava da largo e si avvicinava alla spiaggia. Aiolia riconobbe subito i passeggeri da lontano; erano alcuni del suo gruppo di amici che si facevano un giro, e che probabilmente l’avevano visto, perché ora venivano verso la cala. 

Probabilmente avrebbe dovuto essere felice di vederli, ma in colpo solo era caduta sia l’illusione del posto segreto e disabitato sia quella strana forma di magia che per un attimo aveva circondato lui e Shaka. In effetti, Shaka si era allontanato da lui di diversi passi. L’immateriale era scomparso; restava il materiale, che era tornato ad essere perfettamente ordinario. Ma ad Aiolia era rimasta sotto i polpastrelli la sensazione della sua guancia, e sulle labbra — cosa che faceva davvero tanto male — la forma sottile delle sue falangi. 

I ragazzi ormeggiarono il gommone vicino alla spiaggia e si buttarono in acqua ridendo, per poi nuotare verso la riva. Riemersi, tutti in costume, ripresero a ridere e si diressero subito da Aiolia per fargli le feste. 

Aiolia fece una brevissima, invisibile smorfia al loro atteggiamento: non avevano affatto riconosciuto in Shaka il custode della sesta Casa. L’avevano salutato come compagnoni, cosa che era una spaventosa mancanza di rispetto. Shaka non aveva risposto, ed era completamente impassibile. Ma Aiolia si era accorto dal suo cosmo, ora quasi impercettibile, che si era completamente chiuso. 

L’unica che sembrò accorgersi veramente di qualcosa era l’unica di loro che era un cavaliere, Marin; lei si tenne più in disparte per una forma di rispetto. 

Aiolia distolse rapidamente lo sguardo da lei. Non risaliva che a un anno e mezzo prima la serata, davvero penosa, in cui Marin gli si era dichiarata e lui aveva dovuto dirle di non essere attratto dalle donne. Inizialmente aveva pensato che non sarebbe stato tanto male: era un po’ come dire “non sei tu, sono io”, letteralmente, quindi avrebbe dovuto essere meno difficile da dire, giusto? Invece ci aveva sofferto per diversi giorni. Erano rimasti amici, ma le cose si erano fatte imbarazzanti. Il fatto che Marin portasse una maschera sul viso, e l’avesse portata anche durante quella dichiarazione fallimentare, in realtà aveva peggiorato le cose; se almeno l’avesse potuta vedere in faccia… invece aveva capito di averle spezzato il cuore in mille pezzi dalla voce, ed era stato molto peggio. 

Ad eccezione di Marin i ragazzi, nel salutarlo, stavano facendo un gran casino. Aiolia riusciva quasi a percepire il fastidio di Shaka, o forse se lo stava immaginando perché era andato in paranoia. Per qualche motivo, non aveva quasi il coraggio di guardarlo. Non ci stava veramente capendo più niente, ma si sentiva in seria difficoltà, troppo seria per un cavaliere d’oro. Adesso, in pratica, si sentiva un cretino qualsiasi. Sicuramente, se avesse avuto l’armatura addosso, gli si sarebbe staccata dal corpo, scandalizzata.

Aiolia diede uno sguardo a Shaka, velocissimo, di sfuggita, mentre cercava di capire come fare a mandare via i ragazzi senza tradirsi. Adesso Shaka era girato di profilo verso la luce debole e argentata del sole coperto dalle nuvole, e francamente era davvero troppo — troppo magnifico.  

Aiolia distolse lo sguardo, ma dovette forse captare qualcosa Niko, che purtroppo era fatto un po’ com’era fatto — e che, all’insaputa di Aiolia, diventò subito geloso. 

« Oh, ma che hai fatto ultimamente? » disse ad alta voce. « Stai da dio ora che ti vedo mezzo nudo. Ti prego, non coprirti mai più ».

« Ma niente, le solite cose, » rispose Aiolia ritraendosi impercettibilmente all’indietro. Un po’ troppo impercettibilmente; troppo poco convinto; troppo colto alla sprovvista, a metà fra la vanità e l’imbarazzo. 

Niko si era avvicinato senza farsi tanti problemi, e gli aveva passato la mano sull’addome. « Mamma mia, è marmo ».

Aiolia allontanò la mano di Niko e fece una risata un po’ affettata. Aveva un po’ di fitta allo stomaco. 

« Oh, vieni stasera? »

« Dove? »

« E dai, il festival al lago. Se non diluvia ».

« Uh— » Finalmente Aiolia si decise a riscuotersi. « Non lo so, te lo dico dopo. Ora scusa, ma… stavo finendo una cosa ». 

La voce di Shaka arrivò puntuale, pungente come un chiodo in una tempia, a rimescolare completamente tutto il labirinto di sentimenti che Aiolia provava o credeva di provare. « Cosa stavi finendo? La piccola prova di autostima che hai chiamato duello? »

In quel momento, successe che tutti, fra i ragazzi, si resero conto improvvisamente di chi avevano davanti. E Shaka non dovette nemmeno liberare il cosmo per mettere le cose in chiaro: era bastato il suo tono, senza nemmeno alzare la voce, e tutti avevano fatto parecchi passi indietro. 

« Beh, no, quello è finito. Si era detto al primo sangue, » disse Aiolia, reagendo al tono di Shaka alzando la cresta, come sempre. « Perciò… »

« Perciò avresti vinto? Stavi per dire così? » disse Shaka con un sorriso beffardo. 

« Direi di sì ».

« Ti ho colpito parecchio prima, Leone, » lo ammonì Shaka. 

Aiolia stava per ribattere, ma dovette interrompersi: Shaka lo aveva colpito prima, al fianco. Che di colpo iniziò a dolere come se qualcuno ci avesse premuto sopra un marchiatore a fuoco. 

Aiolia non cedette alla tentazione di emettere un gemito, ma si resse il fianco con la mano digrignando i denti, e in questo modo sentì umido: guardandosi il palmo della mano, esterrefatto, la trovò completamente scarlatta. Il punto che era stato colpito, apparentemente senza un reale effetto, si era trasformato in una piaga slabbrata e sanguinante. 

Marin, Niko e gli altri erano muti come tombe e non osavano nemmeno muoversi. Nessuno di loro aveva mai visto Aiolia ferito, men che meno sanguinante. 

« Ripensandoci, sei esattamente quello che sembri a prima vista, » disse Shaka con impersonale, impassibile gravità. Il tono era completamente privo di emozioni, positive o negative che fossero, e forse era proprio questo che lo rendeva l’insulto più bruciante che Aiolia avesse mai ricevuto. « Dovresti essere un naturale? Ma vedo che sei un uomo impegnato in svariate attività mondane che non ti lasciano molto tempo per allenarti come si deve ».

Aiolia a quel punto avrebbe avuto una serie di istinti, primo fra tutti quello di dare fuori di matto e riprendere il duello, e smettere solo quando uno dei due fosse stramazzato a terra. 

Ma avevano detto primo sangue, e così era stato. E aveva promesso ad Aiolos, tra le altre mille cose, che nella sconfitta non avrebbe mai tenuto atteggiamenti disonorevoli. 

Così lasciò andare Shaka senza dire niente. Perfettamente umiliato.

 

*

 

Erano le sei di mattina. Aiolos raggiunse il tavolo di cucina riconoscendo in suo fratello tutti i segni di una notte in bianco: i gomiti piantati sul tavolo e la testa ciondoloni, i ricci spettinati che puzzavano un po’ di fumo e di tutti gli odori di una festa, l’aleggiare residuo del profumo e soprattutto il cocktail di odori pungenti, con una violentissima nota di cipolla e di salsa all’aglio, che proveniva senza dubbio dal kebab rinforzato di Selim, aperto 24 ore — infallibile indicatore che Aiolia era appena rientrato dopo tutta la notte fuori. Allora si ricordò del festival al lago. Aveva capito che non ci sarebbe andato, e qualche borbottio di sfuggita sul fatto che Niko fosse “un cretino”. Doveva essere successo qualcosa, se aveva cambiato idea. 

« Buongiorno, » salutò allegramente. « Bella la vita quando al Santuario non c’è ancora l’assetto marziale, eh? »

« ’Grno, » biascicò cupamente Aiolia, senza alzare la testa e suonando decisamente come un intero corteo funebre. 

« Mamma mia, » si allarmò Aiolos. « Qualcuno ha i postumi tristi ».  

« No, no, sto bene, » bofonchiò velocemente Aiolia, prima di mettersi in bocca il kebab rimanente in un unico morso, spingere indietro la sedia e fare per scappare via come al solito. « Ciao. Vado in palestra ».

« No, fermo là ». 

Aiolia era già sulla porta, ancora che masticava. « Che c’è? »

« Fra quello che hai bevuto al lago e l’ordigno nucleare che ti sei mangiato ora, se vai ad allenarti adesso vomiti. Resta dove sei ». 

La cosa positiva di quando Aiolia tornava da una serata del genere era che aveva sonno, e la cosa, come accade nei leoni africani, lo rendeva particolarmente mansueto, quasi tonto. Aiolos si mise a guardare nel frigo. 

« Che stai facendo? »

Aiolos posizionò sul tavolo un piccolo incartamento uscito dal frigo, che odorava piacevolmente di crema pasticcera. « Tieni, rifatti la bocca. Ecco la fetta di torta dei discorsi seri ».

« No, ti prego, la torta dei discorsi seri no, » si allarmò Aiolia. 

« Siediti ».

« Sono le sei del mattino! »

« Aiolia, siediti ». 

Aiolos si mise a fare il caffè, in quel caso all’americana perché intuiva che suo fratello ne necessitasse una tinozza; intanto dava le spalle ad Aiolia così che non lo vedesse sorridere e divertirsi come un matto mentre lui sbuffava come una locomotiva nell’obbedire e mettersi seduto.

« Allora, che c’è? »

« Bene, come dire… a breve compirai sedici anni ».

« Ne sono consapevole ».

« Spiritoso. Voglio dire che… mi sembra che ultimamente qualcosa si muova, e… nel caso che ci sia qualcuno che ti piace, potresti cominciare a interessarti a… »

« Urrrgh, » inorridì Aiolia.

« Non farmi “urrrgh”, re della Savana. A diciotto anni quando te ne vai sbuffi quanto ti pare, ora invece apri bene le orecchie ». 

« Non c’è nessuno che mi piace ».

« Nemmeno uno, fra tutti quelli che ti vengono dietro? »

« Beh, no ».

Aiolos tornò al tavolo con le due tazze di caffè e, sorridendo in modo conciliante, cercò di leggere nell’espressione di Aiolia quello che in fondo sapeva già. C’era tutto il pacchetto completo, nel suo viso imbronciato: l’imbarazzo, l’evasività e una grossa, grossa bruciatura.

« E sono un discreto numero, oltretutto ». 

« Ho detto di no ». 

Ed ecco anche la rabbia. O aveva preso un due di picche, o qualcosa di molto simile.

« Ah-a. O forse l’unico che ti interessa è l’unico che non ti viene dietro. Tipico ». 

« Senti— non voglio fare questi discorsi con te, » borbottò Aiolia, imbarazzato, con gli occhi piantati praticamente sul fondo della tazza. 

« Perché? »

« Beh, perché— non lo so! È imbarazzante! E non voglio pensare a te che fai sesso! »

« Che c’è di strano? Ne faccio più di te, se non vado errato ».

Non aveva resistito, e ne era valsa la pena: Aiolia era arrossito violentemente. Era troppo divertente. 

« Ehi, caccola. Hai il privilegio di avere un fratello più grande che è passato da tutte queste cose prima di te. Sfruttalo. Ti garantisco che ci sono tre o quattro cose che avrei voluto sapere anche io in anticipo, quando è toccato a me ». 

« Come te lo devo dire che non c’è niente con nessuno? »

« Ma non è quello il punto. Avevo deciso di dirtelo intorno a quest’età e così sto facendo ». 

« Sì. Alle sei di mattina ».

« Esatto, alle sei di mattina, ora che sei uno zombie. Ovvero nell’unica finestra in cui riesco ad acciuffarti prima che tu scappi via come se fossi caricato a molla. D’altra parte è diventato piuttosto urgente. Non posso fare a meno di notare i sintomi di una cotta piuttosto grave… »

Aiolia lo incenerì con lo sguardo. 

« Ok, ok, sto zitto, » disse Aiolos, nascondendo un sorriso dietro a un sorso di caffè. « Facciamo il nostro discorso serio e basta ». 

« Ma scusa… non è… semplice? »

« Beh, sì, è semplice, ma diciamo che ha una sua curva di apprendimento ».

Aiolia, che nel frattempo aveva spazzolato in tre bocconi la fetta di torta dei discorsi seri, sospirò e incrociò le braccia. « Ok, ok… insegnami, maestro ».

Fu un discorso piuttosto divertente. Inizialmente Aiolia lo affrontò come una paternale, ovvero imbarazzandosi per qualsiasi cosa e guardando da tutte le parti tranne che verso Aiolos, standosene lì a braccia incrociate, piantato sulla sedia. Ma poi la curiosità decisamente prevalse, e allora cominciò ad essere molto di più un discorso fra due fratelli. 

« Ovviamente capisci che la cosa non può essere spontanea come nei film, » disse Aiolos. « Bisogna che tu ci arrivi fisicamente preparato ». Si stava divertendo, doveva ammetterlo. Adesso Aiolia lo guardava quasi senza battere le palpebre, in perfetto silenzio. « A seconda, naturalmente, del ruolo che preferisci. Da questo dipendono, diciamo, gli accorgimenti che ci si aspettano da te ».

« E… tu…? »

« Dipende, » rispose Aiolos, tranquillo. « Per alcune persone dipende dalla giornata. Comunque non è detto che tu debba già saperlo. Diciamo… vai con quello che senti di desiderare quando pensi a una certa persona ».

« E se pensi a tutte e due le cose? »

« Allora sei versatile. Chiaramente dipende anche da cosa preferisce l’altro ». 

« Mh-m, » borbottò Aiolia, serissimo. Stava prendendo mentalmente appunti, e la cosa era davvero adorabile. Però al tempo stesso stava soffrendo parecchio. « Quindi insomma, nel concreto cosa si deve fare? »

Aiolos gli spiegò un po’ tutto quello che gli sembrava una buona base. A volte lo fece arrossire leggermente, ma sicuramente aveva la sua piena attenzione. Provò a coprire tutti i classici motivi di insicurezza e spiegargli cosa fare per arrivare preparato e non trascurò di metterlo in guardia da cosa poteva andare storto le prime volte.

« Tu devi arrivare dove vuoi arrivare, e basta. Non devi dimostrare niente a nessuno, e ogni momento è buono per fermarsi. E per l’altra persona vale la stessa cosa, » disse infine. « Puoi fare sul serio o puoi voler solo provare, ma rimane un momento in cui ti prendi cura di un’altra persona. Senza questo aspetto, la faccenda sarebbe solo squallida. Ok mettici impegno, ma soprattutto mettici rispetto. Anche per te stesso. Capito? » 

« Ma quindi… fa male? »

« Uh— beh, sono muscoli. Di base, si allenano. Però bisogna andarci piano ».

Facendogli abbassare lo sguardo, gli spiegò dei preliminari e del lubrificante, gli spiegò che bisognava andarci piano e che sì, poteva far male le prime volte ma nel tempo si presumeva che dovesse diventare una bella sensazione.

« Tu l’hai mai fatto senza amore? » chiese improvvisamente Aiolia. 

« In realtà no. Mi sono fidanzato giovane, » rispose Aiolos.

« Kanon ogni volta ne ha uno-slash-una diversa ».

« Beh, non c’è niente di male. A volte gli durano sei ore, a volte sei giorni. In realtà qualsiasi tipo di accordo va bene — ma deve appunto essere un accordo. Devi sempre parlare chiaro da subito e non fare promesse con leggerezza ».

« Ma lui non fa così, è successo diverse volte che lo venissero a supplicare in lacrime dopo che li aveva abbandonati ».

« Senti— facciamo che non prendiamo come esempio la vita sessuale di Kanon, » disse Aiolos mettendo le mani avanti. « Voglio solo dire che in alcuni casi non sei innamorato, non ti vuoi mettere insieme all’altra persona, magari sei attratto e basta, magari il giorno dopo non ci pensi nemmeno più. E va bene, se ti comporti comunque con decenza. Non puoi prendere in giro la gente. Poi a volte capita che vi volete mettere insieme, e va benissimo se vi volete bene, ma lì comincia tutto un altro tipo di lavoro ed è giusto che tu sappia che è una sfacchinata ».

« In che senso? »

« Nel senso che le relazioni non funzionano da sole. Ognuno ci mette le sue aspettative e anche le sue pretese. Inoltre, possono essere fatte in migliaia di modi, e non per forza solo fra due persone. Di base, basta essere tutti d’accordo. È un tipo di contratto, se mi passi il termine, che funziona solo se tutti i partecipanti firmano le stesse cose, rigide o flessibili che siano. E nel momento in cui l’accordo non è onorato, cade, » spiegò Aiolos. « Non è sempre facile, non comincia sempre bene, e spesso nel mezzo ci sono un sacco di difficoltà. Nel senso, può anche essersi formato un legame, ma non fiorirà mai niente se tutte le persone coinvolte non imparano a incontrarsi a metà strada. Solo che nel frattempo non devi nemmeno perdere di vista te stesso o i tuoi bisogni, quindi… è sicuramente un lavoraccio. Sta a te decidere se ne vale la pena. Per esempio potresti decidere che è una complicazione che non vuoi nella tua vita. L’errore sarebbe iniziare una relazione per desiderio di possesso senza poi essere pronto a fare la tua parte. Ma se ti metti con qualcuno, a meno che tu non ti chiami Kanon, stai facendo una promessa seria, capito? »

Aiolia tacque, e Aiolos lo lasciò pensare. Sapeva che aveva capito, perché, riguardo alla serietà sugli impegni, non gli aveva mai dato motivo di lamentela. Ma, improvvisamente, Aiolia diventò molto pensieroso. 

« Cosa c’è che non ti torna? »

« È la fede che non mi torna, » ammise Aiolia. « Voglio dire… e se ami qualcuno, ci stai insieme, e questa persona… diventa più importante di Atena? »

Quella domanda doveva arrivare… ovviamente. Inoltre, poteva essere anche un indicatore che la situazione era più grave di quello che Aiolos si era immaginato all’inizio. Probabilmente suo fratello si era innamorato, sì, ma sul serio. 

« Beh, questo è un tasto dolente per tutti, e la domanda che un cavaliere si pone per il resto della sua vita, in sostanza ».

« Davvero? »

« Certamente. E non deve per forza entrarci l’amore romantico o sessuale. Ci sono anche i sentimenti che uniscono due amici, come me e Shura… o che uniscono due fratelli. È la domanda che mi sono fatto un sacco di volte. È ovvio che morirei per Atena. Ma così facendo lascerei le persone che amo… te, soprattutto. E allora mi domando se sono davvero così pronto a morire. Nei giorni buoni mi rispondo di sì. Negli altri giorni, mi rispondo di no ».

« Ma qual è la risposta giusta? »

« Nessuna risposta giusta, purtroppo, » ammise Aiolos con un sorriso incoraggiante. « Solo la risposta sincera: il fatto è che morirei anche per te, e nel farlo verrei meno al dovere che ho di vivere per lei ».

« E Saga? »

« Stessa cosa. Entrambi desideriamo servire ».

« E come la risolvi? »

« Non l’ho risolta. Io e Saga ci siamo lasciati anni fa, per cercare di “risolverla” ».

« Era il periodo che stavi sempre di merda? »

Aiolos era stupito. Si era sempre comportato normalmente in quei mesi, perché non voleva dare preoccupazioni a suo fratello undicenne. Sorrise fra sé e sé, percependo una sensazione di calore: Aiolia se n’era accorto lo stesso. 

« Siamo durati otto mesi. Vedi… no, non l’ho risolta. Non ho una risposta da darti. Probabilmente sono solo immaturo, al punto tale che non sono pronto a vivere solamente per lei. Alla fine della fiera il discorso è che non sono disposto a non amare le persone che amo. Il che, ovviamente, mi regala una fantastica crisi di fede al giorno. Ma penso che ne valiate la pena, quindi me la tengo volentieri. Questa è l’unica risposta che ho ».

Aiolia sembrava molto dubbioso, ma almeno aveva smesso di starsene tutto chiuso a braccia conserte, e ora invece era ben proteso verso di lui coi gomiti sul tavolo. 

« Io non credo che potrei scegliere fra te e lei, » ammise alla fine Aiolia, con quell’abbassamento di voce che gli veniva fuori quando manifestava affetto a suo fratello. 

« Ma lei non ti chiede questo, » sorrise il Sagittario. « Aiolia… lo so che è difficile. Lei non è qui. Possiamo avvertirla ogni tanto, e dopo domandarci sempre se abbiamo avuto un’allucinazione o se era lei veramente… ma non è qui. Non possiamo farle domande. Non possiamo farci risolvere un dubbio che ci mangia vivi.  Nel nostro caso è davvero l’unione che fa la forza, ma poi, se l’affetto che proviamo dovesse impedirci di fare il nostro dovere, cosa succederebbe? Certi giorni non sappiamo nemmeno cosa stiamo facendo di preciso. È così anche per noi nonnini, non solo per voi giovani. Però, se sei un cavaliere, se è davvero quello che vuoi essere… tu devi fidarti di lei, Aiolia ».

Aiolia era muto, con gli occhi bene aperti. 

« Devi credere che lei sa quello che fa, e che tutto finirà per chiarirsi prima o poi. Nessuno ha preteso da te un giuramento formale quando hai ricevuto l’armatura, come se tu fossi un militare; invece, ti è stata data una missione. La tua missione come cavaliere è un costante confronto con te stesso, una strada piena di dubbi che devi percorrere armato solo della tua morale. Tu avessi giurato, avresti dovuto offrire obbedienza cieca. Ma lei è la dea della saggezza, che è esattamente il contrario della cecità. Lei desidera che tu scelga col cuore, ogni volta. Non ti abbandonerà per aver scelto male una volta, al contrario continuerà a credere in te. Atena vede in te cose che nemmeno tu vedi, e questo è il motivo per cui concede l’armatura anche a persone che a volte dici— ma veramente? Lo so che la senti anche tu, fin da prima che ti uscissero tutti i denti da latte. A volte, io la sento parlare… a volte cantare… »

« Cantare cosa? »

« I Radiohead, » rispose Aiolos con un sorriso sincero. Poi lasciò Aiolia per qualche istante alla sua confusione. « Non è così severa come pensano alcuni. Ha il potere straordinario di vedere nell’insieme il percorso che le persone compiono. Perciò ti dico in cosa credo: credo che, se verrà un momento in cui mi troverò di fronte a una scelta impossibile, saprò cosa fare, nel bene o nel male. Non perché credo senza riserve. Ma perché so benissimo che — sì, servo Atena, muoio per Atena, ma lei detesta che io provi dolore. Lei prima di tutto ci ama e ci protegge. Perciò devi fidarti di lei, soprattutto quando hai paura, e lei ti farà vedere la strada. E la cosa sarà sempre e comunque per il meglio ».

Aiolos guardò il fratello alzarsi per versarsi altro caffè. Certe volte gli sembrava di intravedere dai suoi atteggiamenti o dalle sue espressioni l’uomo che stava diventando. Che strana faccenda nostalgica. A volte gli sembrava di avergli preparato le pappine pochi giorni prima, e di colpo era alto come una pertica e si interrogava sulla propria fede. 

« Ehi, piccolo. Lo so. È un casino, » gli disse schiettamente. « In un mondo come questo combattere per la giustizia uguale vita di merda, certe volte. E questo, se non sbaglio, te l’ho già detto un miliardo di volte ».

« Sì, lo so, » disse Aiolia, fermo al banco di cucina con la tazza a mezz’aria. 

« E l’hai voluto fare lo stesso ».

« Lo so. Ma… »

« Allora fidati. Anche dei tuoi compagni… soprattutto di loro. Atena potrà anche essere fisicamente assente al momento, ma vive in ognuno di loro ». 

Aiolia annuì. Forse era la prima volta che sentiva veramente dentro tutto quel discorso. 

Comunque, Aiolos sentì il bisogno di alleggerire. « Ora, per tornare in argomento… Devo dire che non c’è molta compatibilità astrologica fra il Leone e la Vergine, quindi capisci… se deve funzionare, bisogna fare qualche sforzo ».

Aiolos sogghignò affettuosamente: Aiolia sembrava essersi cementato al banco della cucina dando le spalle al tavolo dove Aiolos era seduto, così si vedeva solo la sua schiena, che si era di colpo irrigidita.

« Sei un pettegolo, » lo rimproverò, cercando di fare il vago. Ma non riusciva a negare. 

« No, sono preoccupato. Sei ridotto a uno straccio, piccolo. Questo ragazzo ti sta uccidendo ».

Aiolia bevve l’intera tazza in un solo sorso, facendo poi un verso perché si era quasi bruciato. Aiolos gli diede col dito una pungolatina fra le costole, per invitarlo a girarsi. Stranamente mansueto, Aiolia obbedì; non andò a rimettersi seduto, anzi rimase ancorato al banco, tutto rigido, ma almeno ora si guardavano. Aveva gli occhi molto feriti. 

« Quindi alla fine Shaka ti piace, dopotutto ». 

« Sì, boh, » bofonchiò. 

« Fate tipo enemies to lovers ».

« Ma la pianti? Non facciamo proprio niente ».

« Mh… Capisco. Pensi di non piacergli ».

« Non è che lo penso. Non mi può vedere ».

« Addirittura? Eppure sei letteralmente l’unico a cui abbia dato confidenza in questi mesi ».

« Ma se ci ho parlato tre volte ». Aveva abbassato lo sguardo e nascosto immediatamente un sorriso sollevato. 

« Io nemmeno l’ho mai visto in faccia, fai te ».

Aiolia, che probabilmente non ce la faceva più a marinare da solo nelle proprie ossessioni, si decise a vuotare il sacco. Raccontò di com’erano andate le cose ultimamente, e soprattutto il pomeriggio precedente, quando Shaka l’aveva umiliato sulla spiaggia delle rovine. Nel raccontare, era molto rosso in viso. 

« Mmh, » fece Aiolos. 

« “Mmh” cosa

« Quella di Shaka era gelosia ».

« Ma figurati! » sbottò subito Aiolia.

« Perché ti sembra strano? »

« Perché— beh, lui non funziona così ».

« In che senso? » si incuriosì Aiolos, sforzandosi moltissimo di non sogghignare di nuovo. « Questo genere di sentimenti sarebbero al di sotto di lui? Perché lui è troppo perfetto rispetto a tutti gli altri? »

Aiolia era arrossito così tanto che aveva anche le orecchie rosse.

« Eh, mio adorato fratellino, è un brutto affare essere cotti fino a questo punto… ti capisco più di quello che pensi, » disse Aiolos con saggezza. « No, la sua era gelosia pura e semplice, ma tu ora non capisci più niente. La situazione è molto grave. Il tuo acerrimo rivale, in questo momento, più farti e disfarti con un dito. Sei completamente spacciato. Per questo hai così paura ».

« Non ho paura, » scattò Aiolia. 

Ma Aiolos fu spietato. « Hai terrore che ti possa dire di no, magari nella sua maniera tagliente che, in questo momento, potrebbe anche ucciderti. Così preferisci credere che sia impossibile piuttosto che provarci. Cosa ti ho detto? Credici un po’, anche se hai paura. Non ti paralizzare come un pesce lesso. Parola mia, non ti riconosco nemmeno ». 

« Beh, che poi perché la gelosia, comunque? Che è successo di male? »

« Urgh, » gemette Aiolos. « Senti, ripartiamo dalle basi. Sei davanti al tipo che ti piace. Stai cercando di fargli una buona impressione. Arriva uno che nemmeno ti interessa e comincia a provarci con te proprio lì davanti. Quindi tu cosa devi fare? »

Aiolia fece un’espressione come se il senso di tutta quella faccenda gli fosse sfuggito. 

« Santo cielo, » sospirò il Sagittario. 

« Ma non è successo niente! »

« Senti, fammi capire, quando sono arrivati i tuoi amici, esattamente cosa stavate facendo prima, tu e Shaka? Sii preciso ».

Aiolos dovette veramente farsi violenza per impedirsi di sorridere mentre Aiolia, con grande fatica, si sforzava di raccontargli tutto del pomeriggio precedente, fino al duello — e alla faccenda della mano insanguinata. 

« … Aiolia ». 

« Cosa ». 

« Ma ti rendi cont— ma insomma, non potevi mandarli via? Perché ti sei messo a fare il pavone? Se ci provi con qualcuno ci devi mettere un po’ di umiltà, e che cazzo ».

« Pf ».

« Eh. “Pf”. Aiolia, non sei più un ragazzino, dopo le elementari non funziona più fare finta di schifare quello che ti piace. Specialmente dopo che gli fai il baciamano adorante ». 

« Ma che baciamano! » sbottò Aiolia, e stavolta gli diventò rosso anche il naso. « È stata una cosa così— »

« Ah-a, sì, una cosa amichevole. Lo fanno tutti gli amici, infatti. Io e Aldebaran ci incontriamo regolarmente alla seconda Casa per baciarci le mani mentre ci guardiamo intensamente negli occhi ». 

« Ma cosa credi che—? » gli era uscita una voce stridula davvero adorabile. « È insopportabile, ed è convinto di avercela solo lui l’armatura d’oro ».

« In effetti è una vera tragedia, è arrivato al Santuario qualcuno con un ego più grande del tuo ».

« Urgh ».

Aiolos congiunse le mani. « Bene, allora, mi prendo carico della pratica, tanto tu in questo momento non sei capace. Per cominciare devi proprio andare a chiedergli scusa ». 

« Col cazzo! Ha fatto tutto lui ».

« No, caro bello, hai fatto tutto tu. Prima sembra che ci provi, e pure parecchio, poi ti fai mettere le mani addosso da un altro? Mi dispiace, ma hai torto marcio, accettalo ».

Aiolia si era girato dall’altra parte con uno di quei bronci. 

« Oh avanti, metti dentro il tuo ascendente in Ariete e non fare il ruminante. Ci vogliono cinque minuti a chiedere scusa, stringi i denti cinque minuti di numero e vedrai che le cose cambieranno molto. Io credo che farebbe bene al rapporto se tu… sai, ti facessi vedere come sei veramente, invece di fare il gallo. Sei il ragazzo più dolce e affettuoso del mondo quando non fai il re del pollaio, dovresti investire molto di più su questo aspetto secondo me ».

« Ma la pianti? »

« Su questo aspetto, e anche su quello del gattaro, » insistette Aiolos, implacabile. « Ricordo almeno una ragazza arrossire violentemente nel vederti tenere un gatto in braccio. Credo che la cosa faccia sesso ». 

« E che cazzo! »

Forse si era divertito anche troppo. « Ok, senti, finora l’approccio di misurare chi ce l’ha più duro non ha funzionato. Secondo step: perché non fai qualcosa per fargli piacere? »

Aiolia era leggermente domato: faceva sempre una certa fatica a chiedergli consigli, ma adesso voleva veramente risolvere il problema, e stava dimostrando di essere disposto a mangiarsi l’orgoglio. « Tipo cosa? »

« Oh, insomma! Parlate un po’ di lui, ascolta la sua storia — cazzo, fatti pure insegnare qualcosa. Del resto non sei curioso del suo mondo, dei suoi poteri? »

« Mh-m… »

« Bravo! »

« Quanto… quanto ti ci è voluto con Saga? »

« Perché la domanda? »

« Perché… non lo so, ero piccolo, ma mi sembra di ricordare che eri messo male… »

Aiolos sorrise con affetto. « Non tocchiamo questo tasto, che mi vengono gli incubi. Tu da quant’è che ci pensi, un annetto? Ecco. Io sono rimasto appeso per cinque anni, prima che si considerasse convinto che poteva non dico mettersi con me, ma anche solo fidarsi di me. E in tutto quel tempo non ero ridotto molto meglio di te ora. Tutto questo mentre Kanon era geloso marcio e mi faceva ostruzionismo intenso ».

« Ma come era geloso? Stanno sempre a litigare ».

« Credo che oggi abbiamo appurato che non hai ancora capito bene come funziona la gelosia. Loro due sono come il giorno e la notte, ma li puoi separare solo se li ammazzi. Qualcuno cerca di entrare nell’equazione? Trattato come una minaccia. È la regola. Per questo ho fatto un bel po’ di fatica. Kanon mi metteva alla prova di continuo, perché a suo modo di vedere non ero degno di suo fratello ». 

« Cazzo ».

« Già, » ridacchiò Aiolos. Ora faceva pure ridere… all’epoca molto meno. « Ma… sai, un conto è quando uno se la tira perché è pieno di sé. Un altro conto è quando hai davanti qualcosa di unico al mondo. Qualcosa che ti mangerai le mani di aver perso, se lasci che succeda. Questo genere di cosa vale qualche sforzo in più, e vale la pena anche di essere umili. Per favore, piccolo, dammi retta… vatti a scusare. Fidati ». 

« Va bene, » disse infine Aiolia, con la classica voce di una belva domata. « Mi fido. Però poi sei responsabile se qualcosa va storto ».

« Va bene, va bene, come vuoi, » concesse Aiolos con ironia. 

Poi sollevò il pugno chiuso, e si scambiarono prima un pugno contro pugno e poi un cinque. Aiolia, naturalmente, era già partito prima ancora che Aiolos si rendesse conto che aveva lasciato la stanza. 

« Sì ma aspetta tipo le dieci! E lavati i capelli! » gli urlò dietro Aiolos. 

« Non sono deficiente! » protestò Aiolia.

 

Alle undici di mattina, Aiolia era tornato alle Dodici Case. 

A differenza di lui e suo fratello, come anche della maggior parte degli altri cavalieri d’oro, i quali, in assenza della legge marziale, per ora avevano casa ad Eunoia, Shaka trascorreva tutto il tempo alla sesta, e certamente ci viveva. 

Docciato e sistemato, ma con un debito di sonno che si faceva sentire, Aiolia iniziò a salire, salutando i colleghi che incontrò nelle Case precedenti. Fortunatamente, tanto per evitare imbarazzi, non c’era nessuno alla quarta; forse il suo custode era risalito di nuovo fino alla dodicesima? Comunque, non era il momento di fare il pettegolo: si sentiva un nodo allo stomaco e gli sudava la nuca. 

Trovò Shaka presso un giardinetto laterale della sesta, cinto da una vera muraglia di enormi ortensie blu. Sembrava che non si fosse accorto di lui, il che aveva dell’incredibile. 

Ma la cosa che trasmise ad Aiolia la sensazione più straordinaria fu la presenza di Callisto.

La gatta calico, coi suoi occhi verde smeraldo, si rotolava beatamente a pancia in su sull’erba, godendosi una striscia di sole; Shaka, che dava le spalle ad Aiolia, inginocchiato a terra, le stava accarezzando la pancia candida. 

Aiolia, senza volerlo, si mise a respirare molto piano, come di fronte a un castello di carte. Shaka stava mormorando qualcosa di impercettibile — stava a tutti gli effetti facendo i complimenti a Callisto; e intanto le grattava il fianco e ridacchiava quando lei si attorcigliava, o si divertiva a tirarle leggermente una zampa o a premerle il naso con l’indice. Stava giocando. E nel far così, lontano da qualsiasi essere umano, era calmo, profondamente calmo — come se in tutto quel tempo, col suo atteggiamento inaccessibile, non avesse desiderato altro che un po’ di pace. 

Aiolia dubitava di poter rimanere ancora a lungo lì fermo senza annunciare la propria presenza, col rischio magari di passare per un tizio inquietante; ma era così dolce e sottile la mano di Shaka mentre giocava coi baffi della gatta, e brillavano così tanto al sole i suoi impossibili, morbidissimi capelli. 

« Ho sentito che ti chiami Callisto, » disse Shaka alla gatta, con una voce così addolcita mentre le strofinava un po’ le orecchie, con gran godimento dell’interessata. « “La più bella”. È proprio così, credo ». E nel dire così, per giocare con lei le prese le zampette anteriori e le congiunse, ridacchiando poi di quella facezia.  

Aiolia aveva l’impressione di aver appena battuto di nuovo il cranio sul cemento armato di una mortale, irrecuperabile, dolorosissima cotta. 

Comunque, non riusciva più a tenersi. 

« Ciao, » disse. O piuttosto, gracidò. 

Vedere che Shaka smetteva di giocare con Callisto, si alzava e tornava subito sulla difensiva gli fece quasi male fisicamente; si sentiva un peccatore in chiesa; ma almeno poteva guardarlo in faccia, e cuocersi un altro po’. 

« Ciao, » disse Shaka. 

« Non stavo spiando. Voglio dire, stavo guardando— ». Non sapeva cosa dire senza fare una gaffe. « Ovviamente lo sapevi già che ero qui ».

« In realtà, non ti avevo percepito, » ammise Shaka, che sembrava arrabbiato con sé stesso per questo motivo. « Se non vado errato, è la tua gatta ». 

« No, no, non è la mia gatta, » rispose Aiolia. « Cioè, è una dei gatti che girano per la quinta. Ci sono gatti alla quinta da secoli. Non è che siano “miei”, è più come se… io fossi… lo staff ».

« Capisco. Ad ogni modo, è molto ben tenuta. Deve avere uno… staff adeguato ».

Sembravano proprio i discorsi compunti che fanno le persone quando sono in imbarazzo. Tanto valeva tagliare subito la testa al toro. 

« Senti… Shaka… Ce l’hai un attimo? Potrei parlarti? »

Shaka sembrò colpito che Aiolia gli chiedesse il permesso; in positivo, forse. Ma Aiolia si sentiva troppo uno straccio per vedere segnali positivi.

« Sì, va bene ». 

« Uh… » Ci volevano cinque minuti, aveva detto Aiolos. Forse meno, se era abbastanza veloce. Si trattava di non respirare per cinque minuti. Era come immergersi fra quelle rovine subacquee, anzi in teoria era anche più veloce e più facile, giusto? « Volevo chiederti scusa ».

L’espressione di Shaka si fece simile a quella vista il giorno prima, sulla spiaggia. Un po’ stupito, un po’ interrogativo, con le labbra leggermente aperte. Preso completamente in contropiede, e incapace di rispondere per la confusione. Così, attendeva che Aiolia elaborasse. E Aiolia aveva un macigno sullo sterno e i polmoni annodati. 

« In pratica, mi sono comportato come un cretino, me ne rendo conto. In più occasioni, mi sa. Insomma, sarò sincero, hai un cazzo di caratterino e io sono permaloso, quindi per forza finisce sempre nel solito modo, ma ieri… a dirtela tutta mi sentivo un po’ confuso e sono rimasto lì come un coglione, non ho saputo reagire. Al posto di quel teatrino patetico avrei preferito continuare il discorso che stavamo facendo. Ma non l’ho dimostrato. Inoltre sei un valido avversario anche senza ricorrere a ciò di cui sei capace davvero, per me metteresti nella merda anche Saga, e rispetto molto questa cosa. Ma non ho dimostrato nemmeno questo. Perché rosicavo, credo. Mi dispiace ».

Ci erano voluti meno di cinque minuti, il che era un fatto positivo. Ma Aiolia si sentiva il cuore battere troppo veloce. Poi, non era del tutto soddisfatto — avrebbe dovuto essere più esplicito, avrebbe dovuto dirgli che gli dispiaceva di aver avuto quel comportamento perché lui gli piaceva davvero, ma per la prima volta in vita sua gli mancava il coraggio.

Shaka, ad ogni modo, sembrava esterrefatto. Aiolia l’aveva percepito anche nel suo cosmo, che aveva dato un colpo di coda, come la superficie di una vasca perfettamente liscia che improvvisamente viene disturbata dalla risalita di un pesce. 

« Non importa. Non essere così formale ». 

« Ok, » disse Aiolia al culmine dell’imbarazzo. Non che si fosse aspettato che succedesse qualcosa dopo essersi scusato, ma a tratti gli prendeva quasi il magone. « Niente, volevo dire solo questo. Vado ».

E fece per andarsene, ma la voce di Shaka, che ebbe un tremito che gli fece perdere un battito, gli inchiodò i talloni a terra.

« Sono stato sgradevole con te anche se non sei un mio nemico. Non mi sono dominato e sono scivolato nel cattivo gusto. Mi scuso ». 

Aiolia non stava respirando.

« Se tu… volessi restare ancora qualche minuto… » esitò Shaka.

Callisto, sdraiata al sole sul prato, aveva acceso i motori e faceva, così da sola, delle fusa molto rumorose; intanto stringeva gli occhi, sorniona, e pure un po’ pettegola. 

« … Certo. Volentieri ».

« Anche se sarebbe meglio che tu andassi a dormire, probabilmente, » aggiunse Shaka. 

« Come fai a sapere che non ho dormito? »

« Il tuo cosmo sembra una penosa poltiglia, trascini leggermente i piedi e hai la voce di una signora anziana, » spiegò il cavaliere della Vergine. « Poi, alla fine ieri non ha piovuto, quindi… immagino tu sia andato al lago ».

Aiolia si sentì cadere dal quarto piano un’incudine sul petto.  

« Sì, ci sono andato. Ma mi sono girate le palle tutto il tempo ».

« Perché? »

« Perché ci sono andato per non pensare e invece ho pensato tutta la notte ». A te, maledetto.  

« È stato divertente, almeno? »

Possibile che Aiolos avesse avuto ragione? Che fosse stata gelosia? Che fosse ancora gelosia, solo che Shaka era troppo orgoglioso per chiedergli direttamente di Niko? Ma questo avrebbe presupposto che Shaka nutrisse qualcosa nei suoi confronti — qualcosa di non chiaro, certo, qualcosa alla maniera sua — ma Aiolia a questo, semplicemente, non poteva credere. E nemmeno voleva farlo. Perché schiantarsi, dopo averci creduto, sarebbe stato doloroso. 

Restava il fatto che effettivamente la scenetta con Niko non era stata molto di classe, quindi tutto sommato questa era l’occasione per scusarsi un po’ meglio.

« Senti… sono io che sono scivolato nel cattivo gusto e me ne rendo conto. Immagino che— uh, che mi piaccia stare al centro dell’attenzione, credo, e poi mi piacciono i complimenti. Però la roba di ieri non mi dà nessun piacere, perché… » Perché mi piaci, perché era così difficile dirlo? « Per quanto riguarda Niko, lui è… così, si comporta così… da un po’… »

« Da un po’, » ripeté Shaka. « Devono piacerti molto i complimenti, se hai lasciato così a lungo la situazione com’è ».

« Non mi piace dare il palo alla gente ».

« Capita spesso? » fece Shaka con un tono estremamente ironico. « Non mi ero reso conto di essere in presenza di un personaggio così popolare. A saperlo, ti avrei fatto i dovuti ossequi ». 

Aiolia si stava sentendo morire. Né più, né meno. 

Eppure, se si sforzava di considerare la cosa dall’esterno, Shaka sembrava davvero geloso di lui. 

« Visto che ci tieni a saperlo, sì, ieri notte alla fine ci ha provato. Gli ho detto di no. Che non è il mio tipo e che— » che sono innamorato di te. Niente, era impossibile dirlo. « Che basta flirt ».

« Sono curioso. Tutti questi cuori spezzati sulla tua scia… Cosa si deve dunque fare per essere il “tipo” del cavaliere del Leone? »

Era una provocazione intenzionale? Era servita su un vassoio d’argento di proposito? Perché Aiolia era pronto in qualsiasi momento a lanciarsi contro Odino a cavallo armato di Gungnir ma gli si torcevano le budella, gli si congelavano le ossa e gli sudavano le mani al solo pensiero di dirglielo?

D’altra parte doveva rispondere. Non era ammissibile lasciargli l’ultima parola. 

« Io credo che tu lo sappia, » disse a bassa voce. « Il che significa che mi hai fatto una domanda retorica. Cioè hai fatto un’altra cosa inutile per divertimento ». 

Shaka non rispose. Anche questo era strano, visto che nemmeno lui era molto propenso a lasciar l’ultima parola ad altri. 

A quel punto accadde forse la cosa più straordinaria a cui Aiolia avesse mai assistito. 

Penelope, l’unica figlia femmina di Callisto, certamente in cerca della madre, si era spinta fin lassù risalendo quegli enormi gradini malgrado avesse sotto otto mesi. Silenziosa e invisibile col suo manto tigrato, era arrivata nel giardinetto delle ortensie, interrompendo l’imbarazzante conversazione. 

E poi, dal nulla, spiccò un balzo e saltò in braccio a Shaka. Lui la sorresse subito con le mani, e quella si accoccolò nei suoi palmi con tutta la comodità. 

« Cazzo, » fu l’uscita completamente spontanea di Aiolia. 

« Che succede? » si sorprese Shaka. 

« Quella è Penelope ».

« E allora? »

Penelope era tutta felicemente sistemata fra le mani di Shaka, aggrappata a lui, e appariva del tutto beata. 

« Penny è un rospo. Anzi, un alligatore. Ha soffiato a tutti i cavalieri d’oro, a Milo ha fatto gli avambracci a fette, al Sacerdote ha trinciato il naso ». 

« Davvero? Al Sacerdote? » si sorprese Shaka.

Aiolia lo vide, stavolta, lo vide molto bene: la minuscola fossetta che apparve per un attimo al lato della bocca di Shaka; quella leggerissima, quasi invisibile arricciatura del naso; quella impercettibile smorfia sulle labbra: stava per mettersi a ridere. Ma di nuovo se lo stava impedendo. 

« Sì! » esclamò con un ampio sorriso, come se con quelle smorfie fosse rispuntato il sole. « Si è ricomposto subito, ma io l’ho sentito. Ha detto “porca puttana” ». 

« Non è vero, » protestò Shaka inclinandosi di lato, con Penelope in braccio, per nascondere il sorriso incontrollabile. 

« Sottovoce. Aveva tutta la faccia insanguinata. Si è guardato intorno per vedere se l’aveva visto qualcuno. Tipo così, » aggiunse, facendogli l’imitazione.

« Smettila, » gli ordinò Shaka, ma era troppo tardi. Con la gattina in braccio non poteva portarsi la mano alla bocca, e così gli scappò dapprima uno sbuffo. Poi si mise a ridere Aiolia, e così la capitolazione fu completa.

Shaka aveva una risata bellissima, delicata, un po’ baritonale, ma la cosa davvero carina era che, nel crescendo che non riusciva a fermare, gli era scappato perfino un piccolo grugnito. Aiolia si sentì come se quella fosse la cosa più bella che gli fosse capitata in tutto l’anno, e a quel punto il suo grado di cottura aveva raggiunto l’irrecuperabile. 

E poi, che vista quasi insopportabile era Shaka con quella gattina in braccio. Adesso gli ritornavano di nuovo in mente le parole di Aiolos — forse, come aveva detto lui, la cosa faceva sesso. Ma che diavolo stava pensando? Tra l’altro, a Shaka quella roba non interessava di sicuro. 

Fu allora che Aiolia notò la maniera in cui Shaka la toccava. Sembrava che le stesse saggiando le orecchie, la forma del muso e delle zampe — come avrebbe fatto un non vedente. Eppure in diverse occasioni aveva dimostrato di vederci benissimo a occhi chiusi. 

« Senti, ma… ti posso fare una domanda? Tu ci “vedi” vedi, o… »

« Perché ti interessa? » fece Shaka, un po’ sospettoso.

« Beh, non per studiare i tuoi punti deboli o roba simile ».

« E allora perché? »

« Beh, non lo so, vari motivi, mi piace come dici le cose, e credo che sia una storia interessante, » sputò fuori Aiolia senza pensarci. « E nessuno mi aveva mai fatto il culo senza neanche aprire gli occhi, quindi è… figo, ecco ». 

Virgo rimase un po’ in silenzio, come se non riuscisse a decidere come la cosa lo faceva sentire. 

« Ho una vista funzionale, se è quello che intendi, » rispose alla fine. La sua voce sembrava chiara come il cristallo dopo aver riso. « Però non è come la tua, credo. Forse se avessi chiuso gli occhi più tardi… ma non ho molti ricordi di come le cose sono fatte effettivamente. O le persone ». 

« Quando li hai chiusi? »

« Tempo fa. Non ne ho più memoria. Ero molto piccolo ».

« E non li hai mai riaperti da allora? »

« No ». 

« È difficile? »

« È abitudine ». 

Penny saltò giù dalle mani di Shaka e qui accadde di nuovo l’incredibile: si acciambellò quasi istantaneamente ai suoi piedi, perfettamente a suo agio. 

« Non mi chiedi il perché, » disse Shaka.

« No. Immagino che abbia a che fare coi tuoi poteri. Non si fanno domande troppo precise sulle tecniche segrete altrui, sono cose private ». 

« Sei molto… »

« Ben educato? Gentile? Assolutamente squisito? » 

« Carino, » sorrise Shaka. Aiolia arrossì, e si augurò che Shaka non potesse vederlo. « È la seconda volta che mi capita di pensarlo. Però ugualmente sembri molto curioso ».

« Sono curioso marcio ». 

Shaka sorrise ancora. Era un sorriso piccolo, accennato, ma trasmetteva all’anima una profonda serenità. E ciò malgrado Aiolia si sentisse gravemente in subbuglio. Ma aveva l’impressione di non avere più nessuna debolezza se Shaka gli diceva che era carino e gli sorrideva in quel modo — nessuna debolezza a parte lui. 

« Le cose che una persona vede con gli occhi la condizionano troppo profondamente, e sono la fonte della maggior parte degli errori che fa, specialmente quelli di valutazione. Le persone si appoggiano ai sensi con tutte sé stesse, anzi credo che si accascino completamente su ciò che comunicano loro i sensi, delegando a questi ultimi tutta la loro conoscenza delle cose, riducendo al sensuale quello che è spirituale, e così sono condannate all’incubo del mondo delle passioni, dei desideri, della reazione e dell’impulso. O anche, banalmente… sono costrette a giudicare con gli occhi prima che con l’intelletto, il che apre la porta a molti gravi sbagli ». 

« Quindi ti privi della vista come pratica meditativa? Ti serve per concentrare il tuo potere? »

« Possiamo dire così. Ma non è così strano. Chiunque chiude gli occhi o sospende la vista, cioè il cosiddetto “guardare nel vuoto”, quando ha bisogno di concentrarsi. Chiunque ha bisogno di silenzio quando intrattiene un pensiero difficile o si dedica a un compito complesso. I sensi sono la distrazione della mente, e le persone ne sono così dipendenti che basta privarle di alcuni di essi per ridurle alla pazzia ». 

« Ho notato che toccavi attentamente Penelope. Come se invece tu fossi completamente… cieco. E cercassi di— »

« Di ricordarmi come sono fatti i gatti. È così. Nella mia memoria erano un po’… diversi. Li ho visti l’ultima volta in India, da bambino, e ormai… beh, non me li ricordavo più ».

« Ma come funziona? »

« Uh— »

« Troppe domande? »

« No… no, affatto ». 

Shaka si passò leggermente le dita sulla fronte, come per scansare la frangia. Un involontario gesto di imbarazzo. Un bellissimo gesto di imbarazzo. In effetti il gesto più meraviglioso che Aiolia avesse mai visto. Sicuramente in quel momento era uno schiavo dei sensi e soprattutto di due di essi: la vista e l’olfatto, perché Shaka profumava dolcemente di pulito. 

« Credo di percepire col sesto senso, » disse Shaka. « A essere sincero, per i primi mesi non vedevo niente, e mi sentivo teso. Col tempo, la mia mente ha imparato a ricostruire le immagini, ma restava schiava della mia lacunosa memoria di bambino, e schiava del tatto. Nel tempo, ho iniziato ad ottenere ulteriori informazioni su ciò che mi circondava leggendo i comportamenti delle altre persone che avevo intorno a partire dalla voce, così, in fondo, ero  adesso anche schiavo dell’udito. Si è trattato, per lungo tempo, di dipendere anche dall’olfatto, ma all’inizio è stato difficile, perché questo inviava fin troppe informazioni. Alla fine ho iniziato a percepire gli impulsi di ciò che avevo intorno, e così ho imparato a percepire anche il movimento che non emette suono. Spesso… non so come dire… tramite una forma di telepatia riesco a completare un’immagine leggendo il modo in cui essa viene percepita dalle persone che ho intorno. Perciò, se percepisco i gatti in questo momento, essi mi trasmettono impressioni amorevoli, che in fondo dipendono dal modo in cui li vedi tu ».

« Anche tu sei telepatico come Mu? Riesci anche a leggere il pensiero? »

« I telepatici ascoltano conversazioni lontane, oppure avvertono le emozioni. Il pensiero non è scritto in una lingua coerente che possa essere “letta” da alcuno ».

« Pazzesco, è quasi la stessa cosa che ha detto lui! » esclamò Aiolia. « Ma lui è nato telepatico, tu lo sei… diventato con la privazione sensoriale? »

« Non so, » ammise Shaka. « Ma per quale motivo adesso mi fai questo tono ammirato? A cosa ti serve lusingarmi? Tutti i nostri scontri si sono sempre conclusi a tuo sfavore, e la cosa deve pur averti dato della rabbia ».

« Ci puoi giurare, » rispose Aiolia. « Ma non mi dispiace più di tanto prenderle da te ».

« Perché? »

« Non lo so, » mentì Aiolia. « Posso chiederti… se l’aspetto esteriore ti sembra un accessorio inutile, perché ti curi così tanto? Il tuo aspetto, voglio dire. Sei sempre impeccabile ».

« Non so cosa tu voglia dire. A me interessa soltanto sentirmi pulito ».

« O piuttosto immacolato ».

« Forse. E allora? »

« E allora niente. Ci riesci ».

« No. Non ci riesco ancora ». 

Aiolia non volle insistere. Si era accorto dal primo giorno che qualcosa disturbava enormemente Shaka. Di colpo non voleva pressarlo. Di colpo non voleva causargli nessun tipo di dolore. 

« Comunque, tu… in definitiva, non sai che è aspetto io abbia, » disse. 

« No. Non mi interessa sapere che aspetto hanno le persone, è solo fonte di giudizi fallaci, come ho già spiegato, » rispose Shaka. Poi si soffermò un momento, come per ripensarci. Si voltò di nuovo verso di lui con un’espressione scandalizzata: « Sei brutto? »

« No, no! » si precipitò a precisare Aiolia, trattenendo una risata per la contraddizione. Shaka aveva un umorismo davvero sottile. « Sono una grossa perdita per i tuoi sensi, in realtà. Caso vuole che io sia molto bello ». 

« Già… così sembrerebbe, guardando le reazioni che susciti. Anch’io, quando ti ho toccato il fianco e l’addome in duello, ho pensato immediatamente al marmo ».

Aiolia sospirò. « Non mi perdonerai mai per ieri, vero? »

« Non compiacerti di considerarmi come un ragazzino geloso. Ti avverto— »

« Non volevo offenderti. Dico sul serio. E non voglio nemmeno più combattere contro di te ».

« Ammetti quindi la sconfitta, dopo tutto questo dibatterti inutilmente? »

« Non voglio mai più farti del male ». 

Aiolia non riusciva quasi a crederci. Sulle guance d’avorio di Shaka, che aveva girato il viso ostinatamente dall’altra parte, si era diffuso un subdolo, segreto rossore. « Non essere ridicolo! La ferita è stata a stento un morso di zanzara, e si è già rigenerata ». 

« La mia no ».

Shaka non rispose.

« Di solito mi rigenero alla svelta, » proseguì Aiolia. « Ma… i due punti dove mi hai toccato tu? Ancora lì. Bruciano come marchi a fuoco ». 

Shaka sembrò in preda, per qualche lungo attimo, a un dilemma. Uno di quei dilemmi che non si risolvono affatto, se non in tuo sfavore; di quei dilemmi che rendono fragile il pensiero di una vita.

Aiolia non si oppose quando Shaka, stando attento a non urtare Penelope con il piede, si avvicinò a lui. Anche se gli mancò un battito insieme col respiro, anche se gli tremavano le gambe, non si scostò mentre Shaka allungava, incerto, la mano — fino a fargliela scivolare sotto la maglietta e toccargli appena il punto esatto dove si trovava la ferita al fianco. Era così vicino. Stava respirando così piano.

Il tocco di Shaka inizialmente fece male sulla pelle lacerata. Poi si fece carezza, e quindi si udì il rintocco cristallino di una campanella. Aiolia chiuse gli occhi istintivamente mentre sentiva la pelle tornare a posto, ricucita dal cosmo della Vergine. Poi la mano di Shaka scivolò più su, sfiorandogli il ventre con la punta delle dita, e guarì anche la ferita all’altezza dello stomaco. 

« È così… strano, » disse Shaka. 

« Cosa è strano? » mormorò Aiolia, con gli occhi chiusi, col cuore che non lavorava bene. 

« Io… Sento dispiacere. Non avrei voluto ferirti. Eppure pensavo che fosse quello che volevo ». 

Aiolia gli prese la mano che ancora insisteva sulla sua pelle, sotto la maglia. Erano così vicini che riusciva a sentirlo respirare. Sono innamorato di te— era il momento giusto per dirlo, eppure non ci riusciva. Non ci riusciva. Aiolos aveva ragione. Aveva troppa paura. Una paura maledetta. 

Così, ancora una volta, il momento finì nel nulla. 

Cadde al suo posto una situazione di estremo imbarazzo. Nessuno dei due parlava — e si erano allontanati, e non sapevano cosa fare. 

« Ti piacciono i gatti? » disse Aiolia.

« Molto ».

« Uhm… Ti piacerebbe vedere gli altri gatti della quinta? »

« Sì ».

Probabilmente fu quello il primo momento in cui Shaka davvero si fidò di lui. Lo seguì fino ai giardini della quinta Casa. 

Aiolia non capiva più niente. Aveva un desiderio feroce di toccarlo, di stringerlo, di baciarlo. Ma non fece niente di tutto questo, perché prima di ogni altra cosa c’era il desiderio di compiacerlo, di farlo stare bene. E in cima a tutta questa montagna di sentimenti complicati c’era un terrore sudato, da chiodi nello stomaco. Di essere respinto. Di non essere abbastanza — una sensazione che era completamente nuova, e simultaneamente primordiale e antica quanto la sua stessa infanzia.  

Raggiunsero il giardino sul retro della quinta, dominato da una fontana il cui gruppo scultoreo ritraeva Eracle col leone di Nemea. Qui riposavano molti gatti, perché il giardinetto era ben attrezzato con casette riparate e imbottite e la piccola tettoia di legno sotto la quale venivano disposte le loro ciotole. Alcuni gatti si trovavano sulla statua, altri sul prato, altri sotto i cespugli, ma nessuno, naturalmente, stava usufruendo delle casette a loro espressamente destinate. 

« Ma quanti sono? » si meravigliò Shaka.

« In tutto sarebbero tredici, » rispose Aiolia, entusiasta. « Ma li vedresti tutti insieme solo all’ora di colazione. Il resto del tempo vanno dove gli pare. Zefiro per esempio arriva tutti i giorni fino alla dodicesima perché vorrebbe mangiare le carpe del laghetto di Aphrodite. Finisce per dormire lì tutto il giorno. Secondo me respira qualche polline e diventa strafatto. Sono un po’ preoccupato per la sua salute ». 

« Gli dai sempre da mangiare tu? Tutti i giorni? » si stupì Shaka. 

« Sì, sì, certo. Vanno guardati a vista. Vedi quello là? » disse, indicando un gatto nero dalla straordinaria mole, che riposava su un cuscino a quadri all’ombra di un cespuglio di strelitzia. « Crono, il padre di Penelope. Se lo lasci fare si scofana anche la parte degli altri maschi ». 

« Sembrerebbe un personaggio di spessore, » osservò Shaka.

« Spesso è spesso. Ma in realtà lui non conta niente. La quinta Casa è un matriarcato. È Callisto che comanda, dopo che sua mamma è morta. Va particolarmente d’accordo con la gente che ha un bel po’ di problemi alle spalle. Sarà anche la regina, ma in fondo è una crocerossina ». 

« E Penelope? »

« È l’unica figlia femmina di Callisto. È nata poco dopo che sei arrivato. Al momento dei vaccini ha quasi ucciso il veterinario. Credo che sarebbe lei a succedere a Callisto a regola, ma la verità è che Callisto ci seppellirà tutti ». 

Vide di nuovo Shaka sorridere. Stavolta era un sorriso diverso, un sorriso che gli fece anche abbassare il mento, la traccia di una tenerezza e di una tristezza. 

« Che c’è? »

« Mi ricordo il posto dove sono nato ». 

« Era un bel posto? »

« Uhm… non saprei dire. Era una baraccopoli — pensandoci ora, credo si potesse chiamare così, » rispose Shaka. « Ricordo di essere nato sotto un cavalcavia dell’autostrada, sotto una capanna di lamiera ».

« Tu… ricordi di essere nato? »

« Tu no? »

« No, » ammise Aiolia. « Io se va bene mi ricordo qualcosa di quando avevo sei anni, ma sono… non lo so, idee sparse, non veri ricordi ». Fece una pausa. « Ricordi tua madre? »

« Tu non ricordi tua madre, » disse Shaka.

Aiolia dissimulò scrollando una spalla. « Quando è morta avevo sei mesi. Mi ha cresciuto mio fratello. È lui il mio primo ricordo ».

« Non c’era un padre? »

« No… Aiolos se lo ricorda, ma io non l’ho mai conosciuto e lui dice che non mi sono perso niente. Tuo padre com’era? »

« Neanche lui c’era. Che io sappia. Ma era tutto un po’ confuso. C’erano molte persone che venivano a… vedermi ».

Aiolia si appoggiò a una colonna del pergolato, adottando per istinto una posa disinvolta. 

Moussaka e Olivia, due sorelle trovatelle che si erano aggiunte di recente e che di solito vivevano parcheggiate nei pressi della terza Casa (perché Kanon qualche volta aveva dato loro un pezzo di prosciutto stipulando in questo modo, a propria insaputa, un contratto vitalizio), si avvicinarono premurosamente e cominciarono a strusciarsi ai suoi polpacci. 

Shaka per un po’ si limitò a guardare, o comunque percepire, Aiolia che grattava loro delicatamente la testa. Poi riprese a raccontare il suo ricordo. 

« Mi ricordo di mia madre. Aveva la pelle scura e i capelli neri, e portava un sari arancione. Era seduta in riva a un fosso, in mezzo a tante cose che non sapevo cos’erano. Crescendo ho saputo che si chiamavano “spazzatura”. Non so cosa le sia successo. Da un certo punto in poi non l’ho più vista. C’erano molte persone, come ti ho detto, e sono stato portato quasi subito a un tempio, » disse. « Non ricordo come fosse fatta la baraccopoli, perché ho chiuso gli occhi presto. La spazzatura, in particolare, adesso ha un aspetto confuso. Montagne su montagne di ricordi di altre persone. Formavano la riva del Gange. Il Gange era morto, perciò puzzava terribilmente. Vi si riflettevano quasi tutti i destini, tutti uguali… malattie, miseria, violenza. Ammetto che siano ricordi piuttosto confusi ». 

Un gatto rosso si avvicinò ad Aiolia, desiderando unirsi alla seduta di coccole. Per farlo, però, prima passò dalle caviglie di Shaka, e lui toccandolo cercò di metterlo a fuoco. 

Camminava male, oscillando pericolosamente a destra e a sinistra e facendo continuamente mezzi giri su sé stesso; sembrava che non avesse più i baffi; gli si sentivano bene tutte le vertebre e le costole, e il pelo, benché pettinato, sembrava meno bello di quello degli altri. Non sembrava molto bravo a capire dove si trovava la mano di Shaka; picchiò rumorosamente la testa contro il gradino, e a tratti cadeva a terra. 

« Questo gatto è molto anziano? » chiese. 

« Esatto. È Titano, il nonno di Penelope da parte di padre. È ancora un coccolone, ma ha 31 anni. Non si tiene più in equilibrio e recentemente è diventato cieco ». 

« Sembra molto stanco, » osservò Shaka. 

« Beh, sì. Credo che… stia per morire. È un po’ incontinente. Ormai non ha più denti e la testa non gli funziona più. Gli do da mangiare col cucchiaino ».

« Sempre?  »

« Certo. Te l’ho detto, non ha i denti ».

Shaka, con una lunga carezza, passò la mano per tutta la lunghezza del vecchio gatto un po’ macilento. Qua e là sulla pelle aveva qualche crosta secca, che odorava di crema medicinale.  

« Se ti avessi visto riflesso nel Gange, sarebbe stato meno triste, » disse Shaka improvvisamente. Sembrava una cosa detta quasi a sproposito. 

Aiolia si rialzò, lasciando andare Olivia e Moussaka. « Puoi spiegarmi cosa vuoi dire? »

Shaka annuì con serietà, trattenendosi ancora qualche minuto ad accarezzare Titano. 

« Prima di chiudere gli occhi, dove sono nato ho visto dei gatti. La sorte dei gatti da quelle parti era squallida. Ricordo gatti con solo metà del pelo, infestati di malattie e larve, pieni di morsi di ratto, di bubboni, che mangiavano spazzatura, e gattini gettati via in una busta di plastica. Non valevano nulla per nessuno… eppure erano creature viventi. Ma tutti avevano altre miserie a cui pensare. Sembrava che nessuno potesse farci niente. Io in primis ». 

Aiolia rimase ad ascoltare in silenzio. 

« Questi gatti… sono ben nutriti. Hanno il pelo morbido e liscio come la seta. Sembrano felici. Non sono considerati “niente”, al contrario contano qualcosa per qualcuno — in altre parole, hanno una famiglia. Il loro guardiano, che io prendevo per un superbo, con una certa umiltà non fa saltare loro nemmeno un pasto, anche se non gli sono utili a niente, e per il solo fatto che è capace di provare compassione non li abbandona nemmeno quando non hanno più alcuna speranza ». 

Aiolia non sapeva cosa dire, così si limitò ad abbassare la testa.

« Non posso dire di capire tutto di come ragioni, » proseguì Shaka. « Ma ho frequentato principalmente monaci prima di venire qui, perciò sono specializzato nell’affettazione dei buoni sentimenti, e in persone che dovevano riflettere e lavorare tutta la vita per trovare dentro di loro la sincera gentilezza. Io non l’ho trovata. E tu invece ce l’hai così, come niente. Io non… » gli si arrochì per un attimo la voce, ma deglutì e fece finta di niente. « Non so se il tuo viso sia davvero bello, ma l’interno è molto gradevole. Qualche volta ». 

Aiolia cominciò a tormentarsi i capelli. « Whoa, ehi… sono solo un gattaro, » si schernì. 

« Credevo ti piacessero i complimenti ».

« Sì, sì, ma… beh, emh— » decise di non finire il discorso. Tanto non gli sarebbe riuscito senza rendersi ridicolo. « Comunque non è per dire, ma piaci a Penelope. Vuol dire che hai qualcosa che non hanno gli altri, nemmeno Shion, e non è un difetto esserne consapevole. Te lo puoi permettere. È la prova-Penelope, la più dura delle Dodici Case ». 

Shaka represse una risatina. « È davvero così severa, alla sua età? »

« Beh, è una gatta di carattere. Sa il fatto suo, sa quanto vale, e in più non si fida di nessuno e non le piacciono le smancerie, perché ha ben altro a cui pensare. In realtà è anche questo che mi piace di Penelope ».

Si sentiva un po’ ridicolo a fare quel discorso col volto dritto davanti a sé, senza guardarlo, con gli occhi piantati su un punto lontano del pavimento. Magari era quella la sola maniera in cui riusciva a dirlo — mettendo in mezzo Penelope. 

« Non riesco mai a capire se sei completamente spontaneo o uno straordinario bugiardo, » ammise Shaka. 

Aiolia sollevò due dita. « Promessa numero due a mio fratello: non dire bugie ». 

« Quante promesse gli hai fatto? »

« Ventuno ». 

Uno sbuffo incredulo. « Chi fa ventuno promesse? »

« Lo so, lo so. Sai, per lui avevo bisogno di guida perché ero un gallo cedrone senza cervello nella pubertà, e siccome non poteva certo fidarsi che io facessi buone scelte allora mi ha fatto promettere un sacco di cose ». 

« Penso che tuo fratello sia saggio ben al di là dei suoi anni ».

« Questa era una battuta, » gli fece notare Aiolia.

« No… era la verità ».

E quella era la seconda. 

Aiolia rise, portando nel petto una sensazione di piacevolissimo calore. Sembrava che avessero fatto parecchi passi avanti. Ma gli sembrava anche di correre, a testa bassa, verso un solido muro. E di non essere capace di fermarsi. Avrebbe voluto che Shaka gli mettesse di nuovo le mani sotto la maglietta, ma sapeva che non sarebbe successo. 

« Io penso che tu sia uno che mantiene le proprie promesse, » disse Shaka.  

« Come fai a saperlo? »

« Perché non lasci indietro nessuno, nemmeno un gatto decrepito. Tu hai… pietà ». 

« L’hai appena detto come se fosse una cosa che non capisci, » si stupì Aiolia. 

« A volte vorrei capirla ». 

« Beh, la pietà ce l’hanno gli dei. Io, semplicemente… voglio bene a questi gatti. Voglio che siano contenti. Insomma… ho deciso di prendermi cura di loro, non è che un giorno quando uno mi diventa vecchio decido che mi sono rotto le scatole. Titano è più vecchio di me, è uno dei miei primi ricordi. Cioè… chi potrebbe sopportare l’idea di lasciar morire da solo e trascurato un animale a cui ha sempre voluto bene? »

« Cosa cambia? La morte resta il traguardo destinato. Titano sta morendo ».

Ad Aiolia sembrava una cosa davvero dolce che Shaka l’avesse chiamato per nome.  

« Cambia tutto! Ci sono modi e modi per morire. Non puoi dirmi che morire soli è uguale a morire in compagnia di qualcuno che ti piangerà quando non ci sarai più ». 

« Ma perché sforzarsi tanto di ottenere o fornire conforto? È un vizio dei sensi, qualcosa di cui non fidarsi, e che non ti salverà quando verrà la fine ».

« Non voglio che mi salvino quando è la fine. Se è la fine è la fine, ci terrei a morire da uomo, » rispose Aiolia. « Però fino a quel momento vivrò facendo un sacco di cose inutili. E quelli a cui voglio bene… voglio che stiano bene. Sempre, se possibile ». 

« Non è possibile, » lo corresse Shaka. « E poi… per quale motivo? Se stessero male, starebbero solo attraversando una fase dell’esistenza indipendente dalla tua volontà. Nemmeno gli dei interferiscono con il nostro dolore, cosa pensi di poter fare tu? » 

« Perché— beh, quella che tu chiami pietà credo che sia semplicemente voler bene. Amare. Se vuoi bene, ti prendi cura. Non è che vuoi fare il dio, è solo che… non so, ci stai male quando qualcuno a cui vuoi bene è in un brutto periodo. Poi magari vai per aiutare e fai un casino, però non riesci a non fare niente ».

« Perciò la devozione sarebbe una conseguenza dell’amore, e l’amore sarebbe umile ». 

« Sì. Ecco perché siamo devoti ad Atena ». 

« Pietà… risparmiare a qualcuno un dolore, o soffrire quando qualcuno soffre, » rifletté Shaka, che sembrava determinato a capire a tutti i costi. « Non sarebbe pietà anche dare la morte a Titano? ».

« Non vedo perché. Non sembra avere dolore fisico, e mangia. È solo un po’ demente, ma mica ammazzi il nonno quando gli viene l’Alzheimer ».

« Perché no? » si meravigliò Shaka. 

« Beh perché— voglio dire, ammazzare il nonno… »

« Forse il nonno preferirebbe essere ucciso, invece di essere demente. Per me sarebbe così ». 

« Vabbè e allora lo lascia scritto e io lo faccio. E che cazzo. Manco ce l’ho il nonno ».

Stette ad ascoltare Shaka che ridacchiava. Ancora quel suo modo di ridere, che ad Aiolia mozzava davvero le ginocchia — lo annientava completamente. 

Di colpo, Aiolia si staccò dalla colonna e si fece davanti a Shaka, bello impettito. 

« Ad ogni modo, su una cosa hai ragione, e cioè che mantengo le promesse. E ti prometto che nessun nemico passerà da questa Casa, salvo che sul mio cadavere ». 

« Ventidue promesse ». 

« Esatto ». 

Aiolia gli tese la mano. Sperando che non fosse in grado di vedere che tremava un po’, e sperando che non fosse sudata. 

Shaka sembrò riflettere intensamente, con un atteggiamento che sembrava un po’ meravigliato e un po’ rapito, prima di sollevare lentamente la mano e stringere la sua. Ad Aiolia andava il cuore in gola a sentire il contatto con la sua pelle. 

« Questa tua promessa… me la legherò al dito. Ti riterrò responsabile di qualunque scocciatura. Non amo avere compagnia ». 

« Sì… immaginavo una cosa del genere. Anzi, probabilmente oggi ti ho esaurito completamente la batteria sociale ». 

« No— se… se si tratta di te, penso che vada bene, » replicò Shaka, e ad Aiolia le ginocchia diventarono di ricotta. « Se vuoi venire qualche volta, mi piacerebbe parlare ancora. Solo che ora per qualche tempo voglio stare da solo ». 

L’effetto ricotta si intensificò: anzi, adesso era diventata ricotta bagnata, dopo quell’ultima frase che la mente completamente innamorata di Aiolia percepì come una terribile doccia fredda. Gli sembrava di rimanere in equilibrio solo perché stava tutt’ora stringendo la mano di Shaka.

« Ho fatto qualcosa di sbagliato? »

« No. Puoi credermi se te lo dico? »

« Sì, posso. Puoi chiamarmi se hai bisogno di me? »

« Posso farlo ».

« Ma non lo farai ». 

« Non credo ».

Shaka sorrise. Sembrava, in maniera del tutto spontanea. 

Continuando a tenergli la mano, si fece avanti di mezzo passo, avvicinandosi molto, moltissimo ad Aiolia, avendo almeno la carità di fingere di non accorgersi quanto stava tremando; gli lasciò un lento, leggero tocco delle labbra sulla guancia, e poi se ne andò con calma, lasciandolo lì in condizioni davvero misere. 

Le labbra di Shaka non avevano nemmeno schioccato, ma gli avevano lasciato la terza dolorosissima ulcera sulla pelle, anche se stavolta era solo nella sua testa; la sensazione residua del profumo dei suoi capelli lo aveva ridotto né più né meno a un disgraziato, tanto che i gatti presenti in giardino, preoccupati, gli si fecero intorno per cercare di consolarlo. 

Ma era inutile. Era completamente inconsolabile. Gli veniva da piangere.

Chapter 9: La menade

Notes:

Putting poor Aiolia's lovesickness on hold for a chapter because I really wanted to introduce one of the super powerful and vicious villains! But in the next chapter something will finally happen with those two :3
As you will notice, Saga's split personality works a little differently here because it worked better with the story. I know in some spin-offs or some such there's a possession sort of thing which explains his evil side, but I didn't go for that as I don't know much besides the main saga up until Hades and I didn't wanna work with things I'm not confident with.
Another thing that's changed is that, for Saga and Kanon, I actually went a little more with the myth of the Dioskuroi. But their backstory has to wait a little longer, because I didn't wanna put the whole plot on hold while I deal with every single backstory, I think I'd rather scatter them here and there.
Thank you for reading to this point ç_ç

Chapter Text

Saga si svegliò di colpo. Senza sobbalzare, senza scattare, solo spalancando improvvisamente gli occhi, saltando un respiro e restando per forse un intero minuto sospeso, a chiedersi cosa fosse successo. Come le altre volte. 

Non ricordava molto di quello che aveva sentito. Qualcosa che bruciava, come un fiammifero sotto un’unghia. Qualche forma di tormento, goccia dopo goccia, fino all’ultima, un chiodo affilato. Rimase in allerta, col midollo della colonna dorsale che si era fatto di ghiaccio. 

Riuscì a voltarsi solo quando fu terminata quella strana forma di stupore. 

Aiolos dormiva accanto a lui, respirando con regolarità. In altri casi simili, la vista della sua schiena nuda era bastata ad abbassargli la frequenza dei battiti. Non ora. Ora si sentiva una puntura nel petto che non passava, e pensò sinceramente di stare per impazzire. 

Si mise seduto e cercò di scivolare fuori dal letto con la maggior delicatezza di cui era capace, per non svegliare Aiolos. Gli ricaddero un po’ di capelli dalla spalla sinistra. Nella penombra estiva, causata dalle luci di Eunoia che venivano da fuori della porta-finestra spalancata, con un moto di orrore si afferrò una ciocca. C’erano diversi capelli bianchi. Quando era andato a letto non c’erano. Sembrava che ne venissero sempre fuori di nuovi quando si svegliava da un incubo come quello di quella notte. Motivo in più per cui gli sembrava di uscirci matto, perché non riusciva mai a ricordare cosa avesse sognato. 

Aiolos non si svegliò per lui che si sedeva sulla sponda del letto, ma per un gemito quasi impercettibile che gli era uscito dalla gola. 

« Ehi, » disse con voce impastata, girandosi per guardarlo. 

« Scusami, non volevo svegliarti ». 

« Tutto bene? »

Saga dovette dominarsi per non cambiare espressione né tono di voce. Tutto bene. La faceva spesso quella domanda, ultimamente. Volta dopo volta, lo faceva incazzare un po’ di più — e non riusciva a spiegarselo… ma cosa diavolo aveva da preoccuparsi? Non stava impazzendo. Era tutto come al solito, a parte il fatto che dormiva un po’ male — ed era solo un caso. Non era il caso di farsi tante paranoie per due o tre risposte un po’ più istintive che aveva dato, o per qualche notte agitata. 

« Sì, certo, » rispose dolcemente. Gli costò uno sforzo sovrumano. Voleva solo urlare ed essere lasciato in pace. « Ma esco un po’. Tu dormi, ok? »

« Sei sicuro? »

« No, l’ho detto a caso, » gli scappò detto. Con un sarcasmo molto aggressivo. Dando le spalle ad Aiolos, chiuse ermeticamente gli occhi. Non di nuovo. Avevano litigato centomila volte in un mese. Anche quel pomeriggio. Ultimamente Saga non andava tanto per il sottile quando litigava. O magari si era rotto il cazzo di essere un perfettino insopportabile? « Ehi… è tutto a posto, » disse con voce incerta, finalmente voltandosi verso Aiolos. Che, malgrado fosse mezzo addormentato, lo guardava con quegli occhi pieni di preoccupazione. Perché, ovviamente, appena uno risponde un po’ come gli pare invece di fare sempre il santo del cazzo tutti si preoccupano. Cosa gli è successo? Era tanto una brava persona! Bla bla bla. Saga si allungò verso di lui per baciarlo sulla fronte. « Mi dispiace per oggi. Sono stato… un po’ troppo ».

« Ehi, ma cosa dici, » disse Aiolos accarezzandogli la guancia col dorso delle dita. « Di te non ce n’è mai troppo ». 

Saga chiuse gli occhi e affondò il viso nella mano di Aiolos, baciando il palmo. Sei davvero troppo buono, vero? Stava per esplodere. 

« Ti amo, » disse, con un po’ di tremarella alla voce. « Scusami ».

« Smettila. Non è successo niente. Hai capito? Ti amo anch’io. Vengo con te se ti fa piacere ». 

« Mh-m, » scosse la testa Saga. « Faccio solo un giro a piedi e torno. Dormi ». 

« No, senti, non mi fare l’ipno— »

Saga non lo ascoltò. Lo baciò di nuovo sulla fronte, appena una bugia sussurrata fino all’ipotalamo, e così facendo lo ipnotizzò. Aiolos cadde immediatamente in un sonno profondo. Prima di alzarsi per vestirsi, Saga rimase addosso a lui per qualche secondo, a sentirlo dormire. A trovare la forza di salutarlo, notte dopo notte. 

 

Le strade del centro di Eunoia, la cosiddetta città più bella del mondo, erano illuminate anche a quell’ora da catene sospese di luci e dai lampioni decorati con fiori o con nastri. Era anche la città col primato della felicità degli abitanti, a quanto pareva — davvero irritante, considerando che nel mondo normale oltre il portale non si facevano altro che guerre e una recessione dopo l’altra. 

Non c’era nemmeno una bava di vento, e i passi di Saga risuonavano vuoti.

Non era strano che non ci fosse in giro nessuno poco dopo le quattro del mattino; e Saga si era sempre calmato passeggiando a notte fonda nel silenzio generale. Stasera però il silenzio era un po’ troppo schiacciante, e la solitudine innaturale. Così tanto deserto non era credibile, semplicemente. 

Saga passò il solito panettiere senza rendersene nemmeno conto, troppo preso dagli strascichi dell’incubo. Solo dopo qualche metro si rese conto di non aver sentito nessun profumo. Ma un panettiere doveva essere a lavoro a quell’ora, e i forni dovevano essere accesi. Si fermò sul marciapiede guardando indietro verso la bottega, non capendo se doveva sentirsi stupido. Forse era un caso. 

Ma si sentiva una pressione addosso, come una presenza estranea. Sensazione frequente, ultimamente. Probabilmente stava diventando paranoico. 

Si avvicinò alla porta del laboratorio, dietro la quale c’era una luce accesa, una luce troppo tenue per lavorare.

Sbirciò dentro. All’interno del laboratorio al lavoro, con calma, c’erano soltanto tre ombre quasi senza forma, che parevano molto assonnate o molto stanche. Proveniva un forte odore di sangue dalle strane poltiglie che venivano spianate sui banchi d’acciaio, e, dai forni, puzza di pessima carne cotta. I vassoi sui carrelli gocciolavano rosso nella luce tenue. 

Saga si scostò da quella strana visione cannibale e si rimise a camminare. In parte viveva quella situazione senza reazioni e senza istinti, come se fosse stato un sogno; in parte sospettava che ci fosse in azione un potere malefico. Era meglio non agitarsi.

Si avviò verso Piazza Syntagma, la principale. La strada che stava percorrendo era quella dei locali notturni. Non si sentiva nessuna musica, e le saracinesche erano tutte chiuse. Saga si rese conto che altre ombre senza faccia lo stavano guardando, se così si poteva dire, dalle poche finestre aperte, o da dietro le grate delle serrande — anche se non sembravano eccessivamente interessate a lui; l’impressione era che lo guardassero distrattamente pur senza gli occhi, e che fossero prese dai loro guai. Rimase particolarmente colpito da un’ombra nera che somigliava più delle altre a un umano, e se ne stava riversa sul davanzale con la testa fra le mani, o quello che erano. Sembravano ricordi tristi rimasti incastrati per le strade della città più felice di Arcadia. 

La piazza, con la sua impressionante, amplissima fontana raso-terra, si aprì davanti ai suoi occhi come una quinta teatrale da incubo. Illuminata da una forte luce rossastra, era intrisa di sangue; dalla puzza non c’era possibilità di sbaglio, era sangue fresco che scorreva dalla gola, squarciata disordinatamente, della statua di Atena al centro della fontana — e da lì il sangue diventava un fiume, la fontana ne era piena ed esso traboccava nel resto della piazza. Ma l’aspetto che colpiva di più era la ballerina che danzava nella fontana, volteggiano scalza, a quanto sembrava, sul pelo del sangue.

La ballerina era una donna giovane. Aveva gli occhi così azzurri da essere visibili chiaramente anche da lontano, quasi che avessero brillato di luce propria. All’infuori di una gonna formata da diversi strati e adorna di diversi pendenti, che ruotava nella danza in maniera ipnotica, era poco vestita; sul petto si muovevano giri su giri di una collana piena di sonagli d’argento. Dalla testa frustavano l’aria due strettissime e lunghe trecce castane, e metà del suo viso veniva a tratti coperta da un velo nero e scarlatto che fluttuava splendidamente nell'aria. Ballava in modo tale da far ballare anche il sangue, in cerchi concentrici e in colonne e sfere e nuvole di milioni di goccioline; ed era davvero difficile non starla a guardare, perché i cerchi si facevano sempre più stretti senza mai raggiungere una conclusione, e il moto si faceva sempre più selvaggio e ossessionante…

Saga si riscosse. Era davanti a un nemico, non un innocuo saltimbanco. Nel momento in cui recuperò la coscienza, la ballerina sorrise lascivamente e smise di ballare. Si ravviò con grazia i ciuffi sfuggiti all’acconciatura, poi mosse le mani e dal nulla comparve una pelle di leone, ancora con la testa, che si drappeggiò attorno alle sue spalle sudate. 

La donna scalza si avvicinò camminando sul sangue. Il calore di quest’ultimo aveva raggiunto dei livelli proibitivi, che invitavano a una strana forma di ubriachezza. Le ombre alle finestre erano sparite — forse si erano nascoste per paura. Quale che fosse la natura del pugnale che Saga si sentiva piantato nel cervello da qualche tempo, specialmente la notte, adesso faceva più male; quale che fosse la cosa che aveva dentro anche se fingeva di no, ora voleva uscire. 

« Beh, ma tu sei proprio una bellezza, » si complimentò la ballerina una volta che fu arrivata abbastanza vicina. « Te l’hanno detto qualche volta, spero. Sono tutti come te, al tuo Santuario? »

« In gran parte, » commentò Saga, perfettamente asciutto. 

« Devo proprio visitarlo qualche volta. Che dea fortunata che è Atena! E dovrei bermi che è vergine? » Rise la donna. « Oh, quanto sono stata irrispettosa. Guarda come sei incazzato. Che espressione austera… no, bacchettona. Mh… non sei uno che di solito si diverte molto. Come lei, del resto ».

Saga non mosse nemmeno un sopracciglio. « Chi sei? E chi servi? »

« Io non servo. Io prendo parte, » rispose la donna. Poi fece un inchino esagerato. « Mi chiamo Tamari, il sangue è il mio dominio… sono quella che chiameresti una Menade, figlio di Zeus ».

Di nuovo Saga non cambiò espressione. Ma stavolta dovette fare un certo sforzo. Nessuno aveva mai saputo il nome di suo padre, a parte Kanon. Di colpo si sentì in ansia, non perché avesse paura di Tamari, ma perché non riusciva a percepire in nessun modo il cosmo di suo fratello. Dissimulò. 

« Sei tu, quindi? I sogni ultimamente? »

« Oh, no, no, » sorrise Tamari. Aveva un sorriso che si poteva definire soltanto ubriaco, completamente ebbro. Anche i suoi occhi non erano normali. « Ovviamente, posso entrare nella tua testa… scoprire quello che voglio, farti fare quello che voglio. Ma non ti ho dato incubi. Non potrei mai. Anche se dev’essere un piacere sdraiarsi insieme a te sul tuo letto. Forse una di queste notti prenderò parte anche a quello ».

« Come se avessi accettato, » rispose Saga con glaciale indifferenza.

« Del tuo permesso non me ne faccio di niente, bellissimo altezzoso. Questo è importante che tu lo capisca ».

Improvvisamente la voce ebbra di Tamari si era fatta tagliente e cattiva. E poi accadde, in due secondi, una cosa inspiegabile. 

Saga sentì — per quanto sembrasse assurdo descriverlo così — che una corrente estranea gli era arrivata alla testa dal collo, e che qualunque collegamento il suo corpo avesse col cervello veniva reciso. Così potè soltanto starsi a guardare, stupefatto, mentre si prendeva il dito indice con l’altra mano, torceva, e se lo spezzava. 

Il suo arbitrio non c’era più, ma le terminazioni nervose funzionavano benissimo. Non era tanto il dolore della rottura delle falangi — una volta, addestrandosi, Kanon gli aveva causato una frattura allo sterno e non c’era proprio paragone, specialmente mettendo in conto quanto lo aveva preso in giro perché stringeva i denti quando respirava. Il vero problema era la sensazione orrenda di poter essere controllato come una marionetta. Comunque Saga non emise che un gemito soffocato fra i denti. Ci mancava solo di dare soddisfazione a quella pazza.

« Non preoccuparti, cavaliere! Era solo per dimostrare che non dico bugie. Che non puoi farci niente, sai? Finché nel tuo corpo c’è sangue, ci posso essere anch’io, quando voglio. Ma non temere, se stasera sei carino con me, per il momento, non me ne approfitterò ». 

Di colpo Saga aveva di nuovo il possesso della propria mente — il che era tutto dire, naturalmente, considerati i sintomi degli ultimi tempi. Ma il corpo dentro il quale si trovava era di nuovo il suo. Solo che ora, mentre sudava freddo per reprimere il dolore del dito rotto, si sentiva profondamente violato. Doveva trovare un modo per contrastare il potere di Tamari — altrimenti, davvero, era la sua stessa volontà che era in discussione. 

« I brutti sogni ti vengono per via della bile nera, » spiegò poi Tamari. « Non essere così sorpreso. Non ne hai mai sentito parlare? »

« Non ho mangiato niente di strano ».

Tamari ridacchiò del suo sarcasmo, una risata veramente sgradevole, sommessa e folle. « Oh, ma non è necessario. È altamente contagiosa. Può contaminarti toccandoti, è vero. Ma una volta che appena una goccia sfiora un mondo… allora è nella terra, la terra la trasmette all’acqua e l’acqua la porta fino in cielo, e poi… influenzerà il destino di tutti quelli che ci vivono finché essi non saranno tutti mutati in mostri, e il mondo morirà di Nigredo sotto lo sguardo di Saturno e finirà nell’Oltresogno, per essere dimenticato. Tu, splendore, sei solo estremamente sensibile, e sei stato tra i primi a sentirla. Tu, e tutti gli altri matti. Il mondo è inconsapevole, ma voi… siete sempre i più fragili alla sua influenza. E forse lo sapete da tempo che questo mondo è malato, lo avete saputo per primi ». 

« Sembri molto sicura di questa tua teoria, » osservò Saga. « Il problema è che è difficile crederti. Perdonami se te lo dico, ma se davvero sei una Menade, la tua stirpe non è famosa per l’affidabilità ». 

Saga non aveva notizie di guerre contro Dioniso nel passato recente; si narrava di schermaglie, forse, e vari disaccordi — tutti risalenti a un tempo lontanissimo, l’ultima volta che Atena e la maggior parte degli altri dei erano stati visti sul pianeta.

Davvero una bella situazione: Shion percepiva il ritorno di Odino, e spuntava anche Dioniso. 

« Tu sei nato diviso in due, e credimi, non è strano, tutti i semidei hanno sempre qualche problemino, proprio qui, » disse Tamari, picchiettandosi un dito sulla tempia. « Vedi, non ci puoi fare niente. Sei matto. Non avevi speranze con la bile nera. Sotto la sua influenza, stai iniziando a perdere il controllo… o questa è la maniera in cui la racconti tu. In realtà, il fatto è molto più positivo di quello che credi. Quello che ti manca è un po’ di apertura mentale ». 

Saga non si accorse nemmeno di battere le palpebre — non gli pareva nemmeno di averlo fatto; eppure, malgrado fosse perfettamente in grado di percepire movimenti compiuti alla velocità della luce, Tamari gli era letteralmente sparita di sotto gli occhi. 

Il sangue che copriva tutta la piazza come un lago viscoso cominciò a ribollire e puzzare. 

« La follia, come viene chiamata dalle persone normali con quel misto di disgusto e di invidia, è il dono che stai cercando di fare a te stesso, in un commovente atto di amor proprio. La liberazione. Il semidio che può aspirare a diventare dio… non venirmi a dire che non è quello che desideri davvero ».

Saga continuò a non scomporsi, ma Tamari non si vedeva; il cavaliere giunse alla conclusione, in base alle proprie percezioni, che si fosse sciolta nel sangue circostante, e fosse semplicemente ovunque — i poteri che quella donna stava continuando a rivelare erano davvero pericolosi. 

Il sangue stava cominciando a colare dai davanzali esterni delle finestre, come una cortina nauseante; sgorgava da sotto le porte, premeva contro le pareti degli edifici affacciati sulla piazza, eruttava gorgogliando dalle crepe sul suolo e pulsava in maniera disgustosa. 

« Non sei mai stato curioso di sapere che sensazione dia lasciare la presa per un attimo, dire quello che pensi davvero, prenderti quello che hai il potere di prenderti, e che la gente si adatti oppure vada a prenderselo in culo? Certo che vorresti saperlo. Perché… sì, certo, la gente pensa che il tuo alone di santità sia una cosa naturale, ma ciò non potrebbe essere più lontano dal vero. Ti devi sforzare immensamente per essere così… puro. Perché fai una cosa così stupida? Hai così tanta paura della solitudine? Eppure è la benedizione delle creature straordinarie ».

La sensazione divenne di nuovo interna, e Saga avvertì una scossa di disgusto alla spina dorsale. C’era qualcosa nel suo sangue. Forse era Tamari, forse era peggio ancora. 

Sentiva che il liquido che scorreva nelle sue vene, che irrorava tutto il suo corpo, e che teneva in vita gli organi e faceva ragionare il cervello si stava corrompendo. Qualcosa di malato era dentro di lui, ovunque, in ogni cellula. Stava forse diventando una belva senza cervello.  

Resistette alla tentazione di portarsi le mani alla testa. Ma c’era qualcosa lì dentro, o meglio, c’era qualcun altro. 

« Ti reprimi da quando sei nato. Lo sai che dentro di te c’è qualcosa che non sente ragioni — giustamente! E hai paura — hai sempre avuto paura — di fare del male. Magari di fare del male a tuo fratello. È così che è nato tutto questo… dal grembo. Dal grembo non fai altro che controllarti, perché hai paura di pentirti, come se tu fossi un povero semplice umano. Ma davvero pensi che non si noti? Ti sei accorto, ovviamente, che tuo fratello lo sa benissimo. Mi chiedo cosa succederebbe se se ne accorgesse il tuo uomo? Il tuo Sacerdote? O pensa al ragazzino cieco che è arrivato al Santuario di recente e che ti è subito piaciuto molto poco… il motivo, naturalmente, è che tu senti che sospetta qualcosa. Come fai però a tenerti al guinzaglio corto ancora per tutta la vita, dimmi? La pazzia non è invisibile. Le altre persone ne sentono l’odore anche quando la nascondi… per esempio, il tuo Sacerdote, che sta considerando di passare il testimone, non si fiderà mai di te. Te n’eri accorto? Sente qualcosa… non ci puoi fare niente ».

Perché improvvisamente provava rabbia, o addirittura un senso di tradimento? Il suo sangue stava bruciando. Il teschio minacciava di implodere. 

« Oh ma non ti devi nemmeno preoccupare troppo. Non hai l’esclusiva sulla pazzia, al Santuario. Ma sia tu che gli altri due o tre matti siete così… timorosi. Accetta il regalo, invece. Sii te stesso! Ma capisco la tua paura, non credere che no. E se tu perdessi la tua dea? E se tu perdessi il tuo uomo? È una paura sensata, e sei stato tu stesso a gettarne le basi. Perché, nel caso non te ne fossi accorto, ti sei venduto per tutta la vita come un uomo impeccabilmente virtuoso, ed è quello che la gente ha comprato, è quello che la gente vuole da te adesso. Come si sentirebbero traditi e come ti volterebbero le spalle se sapessero il tuo segreto! A questo mondo civile e democratico, basta essere sé stessi per farsi odiare. Il tuo uomo, quella specie di santo, come potrebbe avere ancora a che fare con te se tu rivelassi i tuoi colori? Certo che lo perderesti, ma a te sta bene continuare a vivere facendo finta? Essere amato da lui per una cosa che non sei? Oh, ma andiamo. Smettila di preoccuparti di lui, che cazzo, che si goda la tragedia della tua liberazione. Se muore, muore. Sii un dio, piantala di fingerti umano. È quello che segretamente hai sempre voluto — te lo leggo nel sangue ».

Tamari, che fino a quel momento aveva parlato solo attraverso il sangue, improvvisamente cacciò un gemito. 

Il suo corpo riapparve al centro della piazza, ricomponendosi dalle gocce di sangue in sospensione nell’aria, e cadde in ginocchio sul terreno zuppo, tenendosi la testa. 

Era caduta l’illusione che Tamari teneva in piedi, evidentemente, comunicando col sangue della persona che aveva di fronte. Il suo viso non era più bellissimo: era una maschera di tessuto cicatriziale. Le ustioni da acido le coprivano tutta la faccia, e le avevano mangiato le palpebre, il collo e il petto. Tamari si premeva le mani sulle tempie, vittima dell’Illusione Diabolica, e si lamentava penosamente in preda a orribili ricordi. 

Saga cercava di non avere reazioni scomposte, e se ne stava in piedi con la testa inclinata, gli occhi stretti e i pugni serrati. Era stata un’idea piuttosto sconsiderata gettare l’Illusione Diabolica su sé stesso dall’interno per colpire anche Tamari che si trovava dentro il suo sangue, ma era l’unica maniera che gli era venuta in mente, a parte forse dissanguarsi, per cacciarla fuori. 

Ora, in compenso, riusciva a vedere con la coda dell’occhio che gran parte dei suoi capelli erano diventati bianchi. Si sentiva il fegato in procinto di scoppiare e lo stomaco capovolto, e tutto il suo corpo tremava. La sensazione era quella di trattenere una nave in mezzo a una tempesta reggendo una gomena solo con le sue due mani. 

Tamari finalmente si ricompose. Non rimise in piedi l’illusione del suo aspetto fisico: si alzò in piedi, presentandosi esattamente com’era.

« Eravamo rimasti d’accordo che saresti stato carino con me, » osservò, con un tono di voce basso e decisamente instabile. « Immagino che in questo momento tu sia convinto di potermi battere. Sei adorabile, lo ammetto, ma purtroppo… non reagisco bene quando gli uomini si fanno di queste idee ».

Il sangue richiamato da Tamari cambiò completamente natura; il cattivo odore che aveva iniziato a sentirsi da prima diventò un tanfo. Il sangue era ora putrefatto, e la puzza di cadavere era da vomito. Finalmente Saga riuscì a sentire il cosmo di Tamari che veniva liberato, e non aveva mai sentito in vita sua un’espressione di simile disordine. 

Il cosmo stesso di Tamari si trasformò in una nebbia rossa che spiraleggiava in vortici per tutta la piazza, ormai irriconoscibile. Nella nebbia ronzavano da cavare i timpani sciami su sciami di mosconi.

« Posso subito consolarti dicendoti che non ho ordine di ucciderti, anzi, in effetti sei atteso, » disse Tamari. « Altrimenti potrei fare quello che voglio al tuo sangue, sai? Se per esempio ne volessi controllare la coagulazione, riesci a immaginare cosa potrebbe succedere? Invece no… mi basta solo farti un piccolo scherzo. Rilassati ».

Le mosche erano ovunque, e avevano iniziato a mordere. Saga si rese conto di dover interpretare quei milioni di creature oscene come milioni di colpi che semplicemente venivano lanciati in tutte le direzioni. Non c’era possibilità di schivata, di conseguenza l’unica opzione era l’attacco; ma come faceva a essere sicuro di non trovarsi per le strade della vera Eunoia? Come faceva a ricorrere alla Galaxian Explosion col rischio di buttare giù tutto, con la gente che dormiva dentro le case all’oscuro dell’illusione? Dubitava di essere in grado di scolpire l’attacco al punto tale da non causare nessuna vittima collaterale. L’unica cosa che poteva fare era cercare di spedire quella matta nell’Altra Dimensione. 

Ma l’attacco di Tamari crebbe di colpo, e di nuovo superò la rapidità che Saga era in grado di percepire. La donna era scomparsa di nuovo. Il ronzio delle mosche era diventando il frastuono di un jet in fase di decollo. 

Saga si trovò coperto di mosche prima di poter prendere qualsiasi iniziativa. Reagì subito con un’esplosione del cosmo che sembrò respingerle, ma era ormai coperto di ferite sanguinanti.

Improvvisamente, nel tempo che ci voleva soltanto per iniziare un pensiero, Tamari era addosso a lui, aggrappata alle sue braccia; Saga la sentiva ridere dentro le proprie vene; la donna aprì la bocca, tirando fuori generosamente la lingua, e diede una gran leccata al sangue che gli scorreva sul collo. 

Un po’ era finito di nuovo il controllo che Saga aveva sulle proprie membra; un po’ era quell’altra cosa, quell’altra persona furiosa che stava per fargli un buco nel cranio per uscire fuori, accusandolo di essere incapace di reagire. La nave in tempesta stava spezzando la gomena. Stava uscendo. 

Poi fu come se qualcosa avesse preso Tamari per le caviglie, come se due mani fossero emerse dal tappeto di sangue e avessero di colpo dato uno strattone verso il basso; e così, sotto lo sguardo esterrefatto di Saga, Tamari fu risucchiata nell’Altra Dimensione, che si era spalancata improvvisamente sotto i suoi piedi scalzi. Vide il suo volto scarificato sorridere mentre scompariva.

L’Altra Dimensione si chiuse come un libro, e l’immensità senza stelle si contrasse infine in un singolo minuscolo punto nell’aria prima che tutto tornasse alla normalità. Piazza Syntagma era quella di sempre, Eunoia era esattamente come se la ricordava — niente sangue, niente mosche, niente puzza, nessun rumore, solo la quiete, con poche persone di passaggio, di quelle che, a giudicare dal chiarore in cielo, dovevano essere le cinque del mattino. 

« Posso essere onesto? » disse la voce di Kanon. « Sei troppo vecchio per le fantasie sui vampiri. Ritorna in te, per cortesia ».

Saga non riuscì più a restare dritto con la schiena, o forse si rilassò sentendo la sua voce. Dovette chinarsi in avanti, piantando le mani sulle ginocchia per sorreggersi. Tremava come una foglia, si sentiva una vera e propria infezione nel cervello, i pensieri gli bruciavano, le percezioni che gli mandavano i sensi gli facevano venire da vomitare. 

« Kanon, » disse, fra l’esterrefatto e lo sfinito.  

« Beh, che c’è? Come se ci fosse da stupirsi. Pensi che avrei lasciato che una qualche bella topina ti entrasse nel cervello e te lo scombinasse tutto? Quello è il mio lavoro ».

« Tornerà, » ansimò Saga.

« Decisamente. Ed è molto improbabile che sarà da sola, » convenne Kanon. « Spostiamoci di qui, fai più scena del solito. E dubito che tu voglia tornare da Aiolos sanguinando come un idrante ». 

L’ultima cosa che Saga vide della piazza furono due o tre sguardi allarmati di passanti, che un po’ non avevano il coraggio di guardare direttamente i cavalieri dei Gemelli, un po’ erano spaventati da quella visione. Doveva avere un aspetto orribile. Poi aprirono insieme un tunnel dimensionale, e lo attraversarono per raggiungere la terza Casa. 

 

Dopo quella notte di rumori insopportabili, era venuta l’alba del dolce scorrere dell’acqua. La grande vasca presso un’ala della Casa di Gemini mormorava sommessamente, e lentamente riconduceva la mente alla calma. 

Ma era una calma tesa e dolorante. 

La luce dell’alba che attraversava le ampie colonne rosse, scavando la penombra, infiammava i pensieri e faceva male. 

« Esci, che diventi una prugna secca, » disse Kanon.

Era seduto negligentemente su uno dei divani a triclinio che erano disposti ai margini della piscina. Aveva, come sempre, l’aria perfettamente indifferente mentre faceva finta di controllarsi un’unghia. Siccome aveva i capelli un po’ spettinati, se li era raccolti in una disinvolta coda di cavallo. 

« Che ci facevi in giro a quell’ora? » chiese Saga, alzandosi dall’acqua. Le ferite si erano rigenerate, ma avevano lasciato sul suo corpo molteplici lividi escoriati che probabilmente ci avrebbero messo un paio di giorni ad andare via; tutto il suo corpo era intorpidito e gli sembrava che gli facesse male il midollo delle ossa. Non aveva mai conosciuto un guerriero capace di manipolare il sangue. « Sempre Alexis o è già stato sostituito? » Aggiunse, lanciando una breve occhiata al paio di succhiotti che Kanon aveva sul collo. 

« Ho lasciato tutto a metà per venirti a salvare il culo, quindi ci sta un po’ di gratitudine invece del tono moralizzante, » fece Kanon, facendo l’offeso alla maniera sua — cioè come se non gliene importasse niente. « Ce l’hai la tua scusa pronta per Aiolos per le condizioni in cui sei? Perché io non ho nessuna voglia di prendere il tuo posto per costruirti l’alibi ».

« Strano, di solito la cosa ti diverte, » commentò Saga, avvolgendosi nell’asciugamano. 

« E invece in questo caso credo che dobbiamo lasciar perdere le soluzioni provvisorie e farci una domanda. Cosa vuoi fare? »

« Di che diavolo parli? »

« Del tuo piccolo lato B, naturalmente. Quello non lo so mica se mi riuscirebbe imitarlo, » sogghignò Kanon. Scavallò le gambe e si alzò agilmente per dirigersi verso di lui. « Ci è voluta la signora delle mosche per farti sentire ragioni, ma spero che finalmente tu abbia accettato la cosa. Sta succedendo. E ormai lo sai. Per questo è ora che tu mi dica… cosa vuoi fare? »

Kanon lo sospinse verso la specchiera. Solo quando Saga vi fu seduto davanti il fatto compiuto lo colpì veramente come un treno in corsa. A parte le ferite lasciate da Tamari, era tutto fuori posto. Quasi metà dei suoi capelli erano bianchi. Aveva una faccia orribile, un’espressione che non era nemmeno la sua. Era, né più né meno, quasi un’altra persona.

« Parlerò a Shion di cosa è successo stanotte, » disse senza esitazione. « Senza omettere nulla ».

« Ah-a, » commentò Kanon, asciutto, prendendo un secondo asciugamano per asciugargli i capelli. « Sai, in realtà ha senso, per un bravo servitore come te. Ma cosa ti aspetti da lui, che ti dica che i capelli bicolor ti donano e la chiuda lì? Inoltre, hai gli occhi così rossi che sembra che ti sia fumato l’ulivo sacro, e ti trema la voce come a un pazzo omicida. Vuoi andarci così da Shion? »

« Ti ringrazio per questo riassunto, » rispose Saga, sarcastico. Intanto lasciava che Kanon gli massaggiasse la testa con l’asciugamano. La cosa lo rilassava ogni volta, non importa quante cose insopportabili suo fratello dicesse mentre lo faceva. « Non cambia le cose. Se sto diventando un pericolo… »

« Che tristezza, » commentò Kanon. « Sai, dopo aver ascoltato tutto il vostro discorso… non posso dire di non aver pensato altre volte a questa faccenda della successione ».

« Kanon, piantala ».

« No, sul serio, » sorrise lui. « Tu sei davvero pronto ad affrontare questa situazione? Dopo che ovviamente ti vedono tutti Sacerdote da quando sei nato, sei pronto a cedere la poltrona, non so… ad Aiolos? »

« Tu seriamente pensi che mi interessi? » si irritò Saga. 

« Diventare Sacerdote, officiare cerimonie, romperti i coglioni a tutte le ricorrenze religiose e, per il resto, startene in poltrona tutto il giorno con un mascherone sulla testa a dire scemenze mistiche? No, non credo che ti interessi, » convenne Kanon, prima di munirsi di spazzola per iniziare a pettinarlo. « Ma… affrontare una situazione in cui il posto che secondo tutti quanti era destinato a te viene dato niente meno che al tuo uomo, cosa che distruggerebbe l’illusione che è stata lo scopo della tua vita e metterebbe bene in chiaro chi dei due sia la parte migliore della coppia… oh, quella la prenderesti così male ».

Saga non rispose. Detestava profondamente il fatto che quei sentimenti, da qualche parte dentro di lui, ci fossero davvero. Ma rientravano in quelle scorie, quei rifiuti, che da tutta la vita smaltiva con diligenza. 

« Se vuoi veramente quella poltrona, posso aiutarti, » disse Kanon. Lo disse così, come niente. 

« Cosa cazzo stai dicendo? » sbottò Saga, rivolgendogli uno sguardo dallo specchio. Uno sguardo assassino. Lo sguardo di un’altra persona. « Adesso vuoi metterti a complottare l’alto tradimento? Non farlo, ti avverto ».

« Fare cosa? » fece lui, serafico. 

« Non obbligarmi a prendere provvedimenti ».

« Tssss, non fare il drammatico, per favore. Sto seguendo la tua catena di pensieri, non la mia, » disse Kanon, dandogli una bella ravviata ai ciuffi bagnati che gli cadevano sugli occhi. « Io non ho niente contro Shion, e nemmeno contro Atena, ammesso che tornerà mai. Sto dicendo una cosa che ti rifiuti di capire: adesso è successo, Saga. Quello che non volevi che succedesse è successo lo stesso… ovviamente. Quindi devi prendere delle decisioni. E mi dispiacerebbe che tu ne rifiutassi alcune a prescindere, solo perché sei tanto devoto ai tuoi soliti schemi. Per me, sei abbastanza potente perché la gente si debba adattare, invece… sei sempre tu che ti adatti. E fingi. Perfino la tua morale è finta. È il tuo piccolo recinto di sicurezza, per fingere che tu non abbia compagnia qui dentro, » aggiunse, picchiettandogli l’indice sulla testa prima di riprendere a pettinarlo. « Voglio aiutarti, lo capisci? »

« Aiutarmi? Suggerendomi di cedere a questa malattia fino al tradimento? »

« È un’opzione, » commentò Kanon con indifferenza, stringendosi per un attimo nelle spalle. « E poi perché deve essere una malattia? Magari è quello che sei e basta. Immagino che tu possa sempre iniziare a imbottirti di psicofarmaci per obbligarti a integrarti, che è probabilmente quello che dovrai fare se chiedi il parere degli altri, ma dubito che saresti molto felice ».

« Per curiosità… » disse Saga. Era vero che la voce gli tremava, e che non era nemmeno la sua — era più profonda, più instabile e cattiva. « I tuoi poteri sono pari ai miei. Anche a te gli altri si dovrebbero adattare, secondo il tuo ragionamento. Ma non ti vedo andartene in giro a seminare terrore. Sei amorale, disonesto, la tua neutralità è frutto della completa indifferenza, ma l’armatura che dici di non volere non ti ha mai respinto, perciò alla dea devi piacere, anche se sei un insubordinato. Perché, tenuto conto del tuo potere, non fai tu tutte queste cose che mi proponi? O perché magari non te ne vai, perché non fai apostasia e smetti di adattarti? Sei un semidio quanto me, al servizio di una dea in cui non sai nemmeno se credere… un subordinato quanto me. Perché? »

« A lei piaccio “anche se” sono un insubordinato? Punto primo… io sono uno che piace alle donne, che ci posso fare? Secondo… Saga… guarda che te lo sei inventato tu che per andarle a genio devi essere impeccabile, » rispose Kanon con semplicità. « In effetti, lei si preoccupa per te anche se in realtà sei la peggior pecora nera di tutti. Sei solo tu che ti vergogni di te stesso, non è lei che si vergogna di te ».

Gli occhi di Saga si dilatarono leggermente. Era forse la prima volta in tutta la loro vita che parlavano di Atena in quei termini. La prima volta che dalla bocca di Kanon uscivano parole simili. 

« Lei… tu la senti, » mormorò, sconvolto. « Non è vero? Fai finta di no, ma la senti. No… è peggio di così. Tu l’hai vista. Perché il tuo è l’atteggiamento tipico di qualcuno che sta aspettando. L’hai vista, e la stai aspettando, a costo di fare parecchi compromessi, per farle le tue domande ».

« Beh, eccoci qua, non è vero? » 

« Perché non hai mai rivelato al Sacerdote di aver visto Atena? » sbottò Saga, scandalizzato.

« Perché sono cazzi miei ».

« Perché non l’hai detto a me? »

« Attento, fratellone, ti stai leggermente alterando, » sogghignò Kanon.

Saga non raccolse la provocazione. Si guardò allo specchio. Sì, si stava alterando. Stava diventando qualcosa che non riusciva nemmeno a descrivere, la cosa che gli faceva più paura di tutte.  

« Ti dispiace spiegarmi? » disse, tenendo sotto controllo il più possibile la rabbia, l’angoscia e la preoccupazione nella sua voce. Preoccupazione… sì, era proprio preoccupazione. Preoccupazione che lei ci fosse davvero, che tornasse, che lo vedesse in quello stato. 

« Una volta ho visto questa ragazza. Prima che tu ti esalti, non ricordo la sua faccia, non ricordo niente, » spiegò Kanon, che intanto aveva quasi finito di pettinare tutta la sua lunghissima chioma. « Mi ha detto, e cito quasi testualmente, di non fare niente di stupido finché non tornava, che ne avremmo parlato davanti a un paio di birre, e così… eccomi: non sto facendo niente di stupido, come promesso, e sto ancora aspettando quel paio di birre. Da qualche anno, in effetti ». 

« Davvero non ricordi nient’altro? »

« Mi ricordo che si chiamava Noctua, e che mi disse che le ricordavo molto una persona a cui voleva bene. E mi ricordo… »

« Cosa? »

« Che mi disse di non lasciarti per nessun motivo ». 

Saga continuava a fissare lo specchio. Si stava perdendo nella propria immagine distorta al punto tale da dissociarsi. Era una forma di dolore che non aveva mai conosciuto, e probabilmente la peggiore da quando era nato. 

« Quindi penso che tu sia piuttosto fortunato, nella scala degli stronzi. A quanto pare Atena in persona si preoccupa per te, e io mi sento piuttosto obbligato a rispettare la mia promessa a una ragazza così carina. E per quanto riguarda la tua croce, il tuo terrore cieco… tornando al discorso di prima, dovresti dirlo ad Aiolos ». 

Un battito mancato. Saga abbassò la testa. 

« Senti, » disse Kanon in tono spicciolo. « Uno può dire quello che vuole, che stucca, che è un po’ troppo bello e buono per essere vero, che vive facendo finta che vada sempre tutto bene, ma una cosa gliela devo concedere: non ti abbandonerebbe per una cosa del genere. Non so tu cosa ti sei messo in testa ». 

« O non ti rendi conto di cosa sta succedendo veramente, o fai finta di non rendertene conto, » fu il basso, pericoloso mormorio di Saga. 

« Sì, sì, certo, lo so, il male che c’è dentro di te va al di là di ogni possibile comprensione, » commentò Kanon, facendo l’annoiato. « Ok, certo, tu dovessi tradire il Santuario suppongo che la vostra relazione andrebbe a farsi benedire, ma… per il momento siamo ancora nel gestibile, giusto? Diglielo. Non sarò il suo più grande fan, per lo meno quando è vestito, ma è abbastanza stupido da amarti sul serio e penso che vorrebbe sinceramente aiutarti ». 

Saga sentiva dolore al petto. Il pensiero di Aiolos inizialmente gli allagò il cuore di veleno. Stava per finire, questo era sicuro. Solo, aveva sempre pensato di avere ancora un po’ di tempo. 

Ma la tentazione di credere alle parole di Kanon era forte, come al solito. Più erano parole irritanti, più profondo era il buco che gli facevano nella testa. Forse avrebbe dovuto dirlo ad Aiolos. Se non avesse avuto così paura. 

« Guarda un po’, » disse Kanon, sollevandogli una ciocca di capelli. « Sono tornati quasi tutti del solito colore. Ti prego… pensi al tuo fidanzato e ti calmi? Quanto cazzo sei ridicolo? »

« Non devi dirgli nulla ».

« Uh, i primi segretucci nella relazione. Non preoccuparti, mi cucio la bocca. Principalmente perché sono molto curioso di vedere il momento in cui la cosa ti si ritorcerà contro ». 

« Deciderà Shion cosa fare ».

« Codardo, » sorrise Kanon. Posata la spazzola, restando in piedi dietro di lui, si chinò per abbracciargli le spalle e lasciargli un bacio strafottente sulla guancia. 

Poi tornò a farsi gli affari suoi, lasciandolo alla specchiera. Non riusciva mai a stare fermo. 

« Ehi senti, » disse poi con disinvoltura. 

« Che c’è adesso? »

« La Menade non ha detto qualcosa a proposito di altri pazzerelli come te al Santuario? Chi sono secondo te? »

« Ma che cazzo te ne frega? »

« Già, che cazzo me ne frega. Dopotutto il nemico è solo Dioniso, dio dell’ebbrezza e della follia. Non vedo proprio nessuna ragione per preoccuparsi di queste cose ». 

« Sei solo un pettegolo ».

« Probabile ».  

Chapter 10: E avrà i tuoi occhi, 3

Notes:

Ok so I'm finally getting around writing some more smut (compared to my standard, I'm basically being a Catholic 80 years old nun) and I definitely plan to do it more often in the future so yeah... right when I said I wasn't going to forestall the plot any longer I guess lol

I know I've been rather evil making all these suggestions about Noctua and Sonja's fate without really giving an explanation, but the tragedy that befell them is gonna be explained in a few chapters, after quite some denial and quite some lies.

Also, the first scene here is one of the few references to Elden Ring that I promised. However worry not, it's absolutely NOT necessary to know the game to keep on reading. If you're not familiar with it, you can simply take it as another world in the multiverse, but it really has little consequence on the story.

Last note: the names of Odin which are featured in this fic are taken from actual kennings in old Norse poetry, all used to identify the many aspects of the same god; in this story, the concept is that Sonja earns a new name every time something specific happens. Athena doesn't have that many names but she does have some epithets, one of which is Glaukopis, meaning either blue-eyed or owl-eyed (in the sense that owls had shining eyes). So I gave her a very peculiar eye color in the story which nobody seems to be able to describe without becoming poetic lol

Chapter Text

 

Molto lontano dall’Arcadia,
Interregno, Terre dell’Ombra
Picco Frastagliato


Il cielo era di un rosso sgradevole e il terreno in pendenza era pieno di sassi ricoperti di cenere e di piante morte. L’enorme e muscoloso cavallo grigio discendeva il picco portando con cura sulla groppa la sua cavallerizza, Hrami, che stava in sella a fatica malgrado le attenzioni del suo cavallo, con la testa ciondoloni e la schiena curva in avanti. 

La donna respirava con un sibilo, perché il naso, insieme con metà del viso e della testa, era stato bruciato. Era sopravvissuta metà della sua chioma, ridotta a una matassa argentata come il cavallo, e la benda che portava sull’occhio destro mancante, la quale niente poteva distruggere. Una profonda ferita slabbrata al fianco e uno squarcio sulla coscia sanguinavano generosamente sul fianco del destriero. Uno sputo continuativo di sangue colava penosamente dalle labbra aperte della cavallerizza, che ad ogni attento passo del cavallo sembrava soffrire immensamente. La donna teneva in grembo una lancia la cui lama era completamente impiastrata dei pezzi di carne maciullata del nemico sconfitto. Alla sella era assicurato un sacco a sua volta gocciolante sangue, contenente il gigantesco cuore di Bayle — Bayle il Terribile, il terrore, l’angoscia.

Il cavallo evitava accuratamente i dislivelli e modulava i passi per dare meno scosse possibili alla cavallerizza, reduce dell’incubo. Per far questo sfruttava la stessa tecnica che usava la sua padrona, il Passo del Corvo, che gli consentiva di poggiare lo zoccolo sull’aria invece che al suolo, in modo da appianare in qualche modo il tragitto; ma procedeva a pelo del suolo, perché se si fosse levato troppo in alto Hrami avrebbe rischiato di cadere. 

La discesa fu lenta e lunga. Durante questo tempo, le ferite di Hrami si rigenerarono parzialmente. Ma il cavallo sapeva che era bene evitare guai per un po’: Hrami aveva passato gli ultimi mesi a resuscitare troppe volte e rigenerarsi troppo velocemente. Quando un Incarnato rigenerava una ferita grave, quella parte del corpo rimaneva debole per un paio di giorni — e invece Hrami non aveva fatto altro che combattere, continuando a insistere con la rigenerazione sugli stessi punti che erano già stati feriti o mutilati. Con la resurrezione completa, era anche peggio; e poche esperienze erano tanto angoscianti per un Incarnato quanto il ritorno dalla morte. E la cosa andava avanti da un po’ — qualche anno, forse. 

Hrami sollevò leggermente la testa e le si accese l’unico occhio che le era rimasto quando sentì la voce di Igon. Aveva sperato di trovarlo ancora vivo. Non sapeva nemmeno lei perché. A nessuno, da quelle parti, importava niente di nessun altro. Avevano tutti troppa paura. 

Igon le fece un cenno del capo. Era in agonia. Lo sforzo di inviare la sua anima da Hrami per affiancarla nel combattimento contro Bayle l’aveva prostrato e condotto a un passo dalla morte. Era irriconoscibile rispetto a come il suo spirito era stato sul campo di battaglia. Era di nuovo un misero straccio privo di una gamba, penosamente accosciato sul terreno pieno di cenere. 

Hrami chiuse l’occhio per un attimo, digrignando i denti e irrigidendo la spina dorsale, quando il cavallo si fermò dolcemente e le balenò alla mente il volto di Bayle. Ecco la classica cosa che mi sognerò la notte per un po’. 

Il cavallo, essendo consapevole di essere alto due metri al garrese, iniziò ad inginocchiarsi per farla scendere più facilmente, ma Hrami diede un leggero tocco alle briglie e scosse il capo. Il cavallo obbedì e rimase eretto: non era ammissibile che Odino non sapesse smontare di sella da solo. 

Hrami soppresse un lamento nel passare la gamba sopra la sella, ma dovette quasi mettersi a piangere quando i talloni le toccarono terra, mandandole una scossa di scellerato dolore a tutto il corpo. 

A questo punto il cavallo si sdraiò a terra, per fornire a Hrami un appoggio. La donna, appoggiandosi alla lancia come a una stampella, piano piano e gemendo molto si mise seduta, e appoggiò la schiena al fianco del cavallo, raggomitolato intorno a lei. 

« Ti presi per una guerriera draconide, come me, » disse Igon, la sua voce tonante ridotta a un mormorio. « Tu sei una dea ».

« Beh, la cosa non è molto chiara, » mormorò Hrami con una smorfia di dolore, iniziando a caricarsi la pipa. Adesso almeno aveva di nuovo la faccia, e le stavano ricrescendo i capelli. Ma si sentiva il viso formicolare in maniera davvero sgradevole. « Sarei un dio reincarnato in una semidea. Quindi… vedila come ti piace di più ». 

« Dunque che nome porti? »

« Ne porto qualcuno, » ammise Hrami. 

« Quanto ulteriore potere stai cercando? »

« Mhn, » bofonchiò Hrami, fumando. « Non sono venuta qui con quest’idea… mi hanno semplicemente esiliata qui. Ma ho un osso piuttosto duro da uccidere e quindi… immagino che non mi farebbe male dare un assaggio a quest’affare, » aggiunse, con un vago cenno al sacco che conteneva il cuore di Bayle. « Comunque, dubito che sappia di pollo ». 

« Chi devi uccidere? »

« Quella che ha ucciso mia figlia. La mia Bayle ». 

Hrami aveva deciso di fargli compagnia. Non sapeva nemmeno se stava morendo anche lei o no. Le pareva di guarire piuttosto bene, ma era la prima volta che sopravviveva a un danno così esteso agli organi del tronco e le sue terminazioni nervose parzialmente interrotte forse non le dicevano il vero. Sentiva poca continuità col proprio corpo. Poteva essere anche agonia, ormai non sentiva più niente. 

« È finita, » gli disse.

« Sì, » rispose Igon solennemente.

« Ti senti meglio? »

« Me ne vado in pace ».

« Mi fa piacere ».

« Per quanto non conosca la strada, » ammise Igon.

« Con quello posso aiutare, » rispose Hrami. Si fece comparire in mano la chitarra. « Per combinazione, è uno dei miei compiti ». 

Hrami cominciò a suonare una musica sommessa e lenta, senza cantare, fumando nel frattempo con la pipa fra i denti. Suonò la dolce e sussurrata canzone delle valchirie, e continuò a farlo finché Igon non morì e scomparve in polvere, guidandolo fino al Valhalla, o qualunque cosa fosse il Valhalla per lui. Se n’era andato davvero in pace. Era un uomo il cui motivo per vivere era stato un valido motivo per morire. 

« Ci vediamo lì, Igon, » disse, con la pipa in bocca. « Goditi il banchetto ». 

A causa della stanchezza, Hrami finì per sentirsi fin troppo triste. Smise di suonare, lasciò la pipa, e si appoggiò sulla chitarra, con la testa nascosta dagli avambracci pieni di sangue e cenere. Sospirò profondamente. Ora si sentiva davvero sola. 

Il cavallo allungò la testa per darle una bella brancicata ai capelli con le labbra, a mo’ di incoraggiamento.

« Non so se reggo, Sleipnir, » disse Hrami, senza alzare la testa. Stava piangendo compostamente, quasi senza fare rumore. « Penso di essere pazza. O quasi. Molto quasi ».

C’erano poche opzioni, la più probabile delle quali sembrava rimanere incastrata lì dentro per sempre, senza mai riuscire a smettere di morire e rinascere — ma la resurrezione continua creava troppi danni al cervello. A un certo punto, magari, avrebbe trovato un buco dentro il quale scivolare per rimanere lì fino alla consumazione dei secoli, trasformata in pietra o qualcosa del genere. O sarebbe diventata una di quelli. Una delle tante creature che aveva incontrato in quelle terre. Un’altra componente, insana e inconsapevole, dell’orrore generale. 

« Perché voglio andarmene? » chiese a Sleipnir. Il cavallo sbuffò, come per dirle che non dicesse sciocchezze. « A tratti me lo ricordo, a tratti non mi interessa nemmeno. È morta. Noctua è morta. Che senso ha? Forse sono bloccata qui ed Esra li ha già ammazzati tutti. Forse il loro mondo non esiste già più. Non so nemmeno quanti anni sono passati ». 

Sleipnir diventò affettuosamente più aggressivo nel suo brancicare, sbuffandole nell’orecchio con insistenza. 

« Non ne posso più, Sleipnir, voglio andare a casa, » gemette Hrami. Poi sul suo viso si compose un’espressione sprezzante, una delle sue; sputò a terra, con disdegno, un piccolo grumo di sangue. E forse un molare. « Il cielo fa veramente schifo da queste parti. Immagino che mi abbia dato alla testa. Beh… »

Allungò la mano verso ciò che restava della polverizzazione di Igon… i suoi abiti. Prese il cappellaccio e gli diede una bella occhiata, sprimacciandolo un po’. Igon era stato un altro disperato di passaggio. Però era stata la prima persona che le sarebbe dispiaciuto dimenticare. Forse perché le era riuscito semplice capirlo. Lo spaventato. Lo spezzato. L’ossessionato. 

« Credo che Odino dovrebbe portare un cappello brutto, » osservò. Se lo mise in testa, e diede una sistemata alla benda che portava sull’occhio. Durante lo scontro con Bayle era andata molto vicina a spostarsi, con conseguenze potenzialmente irreparabili. Non doveva succedere. « Cavalchiamo, Sleipnir. Ci dovrà pur essere una persona equilibrata ed emotivamente stabile in questo posto ».

Di nuovo usando la lancia come una stampella, Hrami, adesso ben nascosta dal cappello di Igon, si alzò in piedi. Barcollò un po’. Le ossa rotte ritornate a posto sembravano miseri grissini. In un altro momento avrebbe pensato che fosse meglio tenere un basso profilo per un po’ — ma no. Esra era la sua Bayle. Il suo motivo valido per andarsene di lì, e poi per morire. 

La Chiave Onirica doveva essere da qualche parte. Era meglio, invece, andare al più presto a interloquire con uno di quelli che erano in carica da quelle parti — anche se dubitava seriamente che uno che veniva chiamato l’Impalatore rientrasse nella definizione di equilibrato ed emotivamente stabile. Ma del resto, a lei l’ultima volta l’avevano chiamata Hrami, Colei che Incatena e Smembra, e in fondo, nei giorni buoni, si era sentita una persona abbastanza carina. Certamente non lì. Lì non c’erano giorni buoni. 

 

*

 

Shaka guardava Aiolia con un misto di stupore e, forse, di fastidio. Aiolia, invece, guardava lui, le sue guance smagrite e le sue borse sotto gli occhi con un misto di preoccupazione e di rimprovero.

« Perché fai così? » chiese Shaka, con voce indebolita. 

« Cazzo, perché ho avuto paura, » rispose Aiolia, un po’ infartato. 

« Perché? »

« Perché ti stavi sentendo male! Perché diavolo hai smesso di mangiare? »

Dopo l’episodio di Penelope, che si era in fondo concluso bene, Shaka aveva detto di voler restare da solo; Aiolia aveva deciso di aspettare che fosse lui a rifarsi vivo. Solo che aveva aspettato un mese. E il tempo non era volato, come generalmente accadeva in estate, ma Aiolia l’aveva subito goccia a goccia. In preda a una sofferenza davvero penosa. 

Anche se Shaka era abile a nascondere il cosmo, nelle giornate buone Aiolia riusciva a sentire, se si concentrava, che lo stava bruciando. Alla fine quella sera l’aveva sentito cedere improvvisamente e spegnersi con un sospiro, ed era stato allora che si era precipitato su. 

L’aveva trovato svenuto, l’espressione stranamente distesa e i capelli sparsi sul pavimento. L’aveva subito portato presso gli appartamenti a fianco della Casa e l’aveva sdraiato su un divano. Labbra secche, viso smagrito, ed era meno pesante di quello che avrebbe dovuto essere: Aiolia non ci voleva credere, ma era molto probabile che avesse smesso di mangiare da giorni, forse dall’ultima volta che si erano visti; e per questo motivo gli aveva sentito bruciare il cosmo, perché probabilmente si era sostenuto con quello, e doveva essere il solo motivo per cui non era diventato uno scheletro e complessivamente sembrava sempre il solito — il solo motivo per cui non era morto. 

« Per negarmi, » rispose Shaka con semplicità. Adesso era seduto sul divano. Era rinvenuto e, logicamente, si era messo subito a dire che Aiolia lo stava stressando con la sua apprensione. 

« Perché? »

« Perché mi sono concesso troppo ».

« Beh— » esitò Aiolia, esterrefatto, « tanto per cominciare hai avuto una pessima idea con questo caldo infernale, e poi avrebbero dovuto caderti i capelli a ciuffi e invece te ne stai lì setoso e biondo come l’oro e francamente non so come sia possibile ». 

Shaka sollevò leggermente una spalla. Il suo corpo, anche se non era troppo diverso dal solito a parte qualche chilo in meno, sembrava così debole, le sue braccia così inerti. 

« Senti, ma come funziona? Devi andare all’ospedale? »

« Non dire sciocchezze, » si offese Shaka. 

« Non puoi stare così! »

« Sto benissimo, » replicò lui, durissimo, voltando il viso di lato con alterigia. « Non so francamente chi tu ti creda di essere. Immagino tu coltivi la fantasia di salvare la gente, ma non ne ho bisogno. È una pratica che conosco bene… a differenza tua. Non vedo cosa ci sia da perdere il lume della ragione per qualche giorno di digiuno. Sei un isterico ».

« Shaka, tu non hai fatto la dieta del 16:8, tu non hai mangiato un cazzo di niente a parte il tuo cosmo per giorni, forse per settimane, e francamente è fuori di testa che tu sia relativamente un fiore, quando dovresti essere all’ospedale. E ora bevi, fammi il favore ». 

Aiolia gli stava passando una bottiglia d’acqua. Shaka continuava a restare girato dall’altra parte, esattamente come avrebbe fatto un gatto colto in flagranza di reato. Era molto offeso. 

« Ok… ok… scusa. Non volevo insinuare niente, » fece Aiolia abbassando la testa. « Ma capisci che non lo sapevo che facevi così,  scusa… uno entra e ti vede così, mi dispiace, ma mi sono cagato! »

« Sei… spaventato ».

Shaka sembrava sinceramente confuso. Ma almeno aveva di nuovo il viso rivolto verso di lui, e un’espressione un po’ più aperta. 

« Beh, cazzo, sì ». 

« Perché? »

« Ma sei fuori di testa? » Sbottò il Leone. Poi sospirò, cercando di calmarsi. Forse era davvero un po’ isterico. « Ok, senti, ho capito dove vai a parare.  Ti sorprende che io abbia paura che muori? Ma sei fuori? Solo perché abbiamo discusso qualche volta non vuol dire niente, sei sempre un mio compagno, e poi— insomma, non hai capito che— » Niente. In un mese non era cambiato niente. Non riusciva ancora a dirlo. Anzi forse ora riusciva a dirlo ancora meno di prima. « Non voglio che tu ti senta male, ma guarda te se devo mettermi a spiegare una cosa simile ». 

« Era pietà? »

« Ma che ne so! » si chiuse Aiolia. « Fa— fa male quando soffri, non lo so che cazzo è! A dirla tutta non capisco più un cazzo e ti di questo do tutta la colpa a te, quindi smettila di farmi domande perché ce l’ho con te, ok? Cazzo, potevi morire! »

« Certo che non sarei morto ». 

« Già, sì, “era tutto sotto controllo” vero? »

« Esatto, » replicò Shaka con sussiego. 

Aiolia sospirò di nuovo. Gli passò di nuovo la bottiglia d’acqua, usandola per dargli un colpetto di incoraggiamento sul braccio. 

Shaka doveva avere sete per davvero, comunque, perché alla fine, malgrado l’orgoglio, sbuffò e prese la bottiglia dalla sua mano facendo in modo che si vedesse bene che la cosa lo seccava moltissimo. 

« Ti posso portare qualcosa da mangiare? » disse Aiolia con la sua, varie volte testata, voce da angioletto irresistibile. 

« … sì, » borbottò Shaka corrugando la fronte.

« Ok, torno subito. Stai qui. Per favore non fare niente che io non farei ». 

Partì subito in cerca di qualcosa da mangiare, e non vide Shaka che gli sorrideva mentre se ne andava. 

 

Aiolia aveva preso la questione molto seriamente e si era inventato un pasto adeguato a uno stomaco ridotto a una palla da tennis, e si era ripresentato poco dopo con una fettina di tacchino alla piastra, del riso e una manciata di frutta secca. 

Aveva trovato Shaka ancora lì seduto, come se non si fosse mosso. Il fatto di aver ricevuto del cibo sembrò imbarazzarlo, perché fece il gesto nervoso, che non aveva mai fatto, di portarsi i capelli dietro l’orecchio con le dita. Prese il piatto e le posate senza fare commenti, e rimase un po’ esitante. Sfortunatamente, il suo contegno fu interrotto da un forte brontolio che gli venne dallo stomaco. 

« Dai, » gli disse Aiolia dolcemente. 

Finalmente si mise a mangiare. Aiolia lo lasciò fare finché non ebbe finito; era carino vederlo mangiare con tutta quella fame. Al termine del piatto, sembrava sfinito. 

« Ok, adesso per favore spiegami. Cosa vuol dire che volevi negarti? »

« Perché vuoi saperlo? »

« Perché mi interessa. Se ti devi offendere a morte quando mi preoccupo per te, è meglio se mi spieghi per bene cosa stai cercando di fare. È una pratica di auto-mortificazione? »

« Immagino di sì, » rispose Shaka, colto alla sprovvista da una terminologia così specifica.

« E non è vietato? »

« … prego? »

« Siddhartha Gautama non aveva detto che farsi del male non serviva a niente? »

Shaka era completamente esterrefatto. 

« Che c’è? » scrollò una spalla Aiolia. 

« Tu… ti sei informato su queste cose? »

« Sì, e allora? »

« Perché? »

« Beh, perché— mi hai fatto venire la curiosità. Che c’è di strano? »

« È… molto umile da parte tua, » osservò Shaka. Aveva avuto un forte abbassamento di voce. Aiolia, purtroppo, non era in grado di rendersi conto dell’effetto che gli aveva fatto. « Io non sono tecnicamente buddista ».

« Uh… mi spiace. Pensavo… »

« Lo sembro? »

« No, no. Non sembri… beh, non sembri niente che io conosca. Pensavo solo… insomma, quando sei arrivato qua parlavano della reincarnazione di Buddha ».

« Immagino sia frutto della mia educazione e del luogo dove sono cresciuto… e la maniera in cui sono stato considerato da altri, » rispose Shaka. « Religioni e filosofie sono sistemi composti da dogmi, riduttivi della contemplazione dell’essere e della vita dopo la morte. Non c’è bisogno di appartenere a un gruppo specifico per avere delle percezioni in questo senso. Il mio primo dovere è verso Atena. Immagino che i monaci mi attribuissero l’illuminazione e si soffermassero ad ascoltare quello che dicevo ma… sono solo cose sciocche che le persone fanno per conforto ». 

« Beh, alla fine il Buddha non era mica buddista, » disse Aiolia.

« Cosa vuoi dire? » si incuriosì Shaka.

« Voglio dire— i buddisti sono quelli che cercano di seguire la sua strada. Se era il primo, non poteva mica seguirsi da solo ».  

« Questa era una cosa intelligente da dire. Ne stai dicendo molte ultimamente. Penso che siano già due ».  

Un altro imbarazzante brontolio di stomaco. Aiolia ridacchiò.

« Hai ancora fame ». 

« Non avevo affatto fame finché non sei venuto tu con una crisi di panico, » puntualizzò Shaka, girando di nuovo la testa dall’altra parte.

Fu allora che Aiolia rivelò il suo asso nella manica. Cacciò fuori un piattino che aveva tenuto nascosto dietro di sé, contenente una fetta di torta di ricotta e cioccolato. 

Shaka rimase bloccato, non sapendo come reagire. 

« Sarà il nostro piccolo segreto ». 

Shaka prese il piattino dalle sue mani. Per un po’ rimase così, fermo, senza saper decidere cosa fare. Era, sicuramente, un odore che non aveva mai sentito — e che di nuovo gli fece brontolare lo stomaco. 

Finalmente ne prese con la forchetta un pezzetto piccolissimo, e si decise a metterselo in bocca.

Aiolia non riusciva a smettere di guardarlo. Un sacco di cose bellissime successero al suo viso. Prima aggrottò la fronte, mentre la lingua schiacciava la torta contro il palato. Poi fece una smorfia come se avesse provato qualcosa di troppo forte, al confine col dolore. Quindi la sua espressione si distese e si fece quasi rapita. Quel primo boccone sembrava averlo rivoltato dall’interno. Sembrava quasi che dovesse piangere. 

« Ecco, ora ti ho fatto venire lo shock glicemico, » disse Aiolia, perché sentiva il bisogno di sdrammatizzare. Aveva l’impressione di aver assistito a un momento troppo intimo, che non aveva niente a che vedere col vederlo nudo sulla spiaggia o cose simili. Molto più privato.

« Sono solo confuso. Lo detesto quando sei… gentile con me ». 

« Senti— »

« Perché fa male ». 

Aiolia si sforzò di guardare dall’altra parte mentre Shaka finiva il dolce. A un certo punto sentì che aveva preso a mangiarlo con una certa fretta — la fame, di sicuro, e poi doveva piacergli davvero molto. Ma la cosa lo turbava, era evidente.

Shaka posò il piatto a terra.

« Tu vorresti cambiarmi, » disse. 

« Cosa? No. Certo che no, » esclamò Aiolia. « È solo… penso di volere… »

« Che cosa? »

« Penso di volerti solo fare piacere. Perché va bene, ci siamo sempre scannati, e ok, qualche volta magari ti ho mandato al diavolo… parecchie volte, in realtà… ma voglio che tu stia bene, tutto qui ». 

Shaka rimase in silenzio.

« Non voglio cambiarti. Io penso che tu sia il primo della tua specie. Non ti ho portato da mangiare perché voglio far fallire la tua pratica ascetica. Voglio solo che tu ti riprenda. Poi fai quello che ti pare. Ma se possibile… non farti così tanto del male. Tra le altre cose, facendo così perdi tono muscolare e la tua armatura non pesa proprio un etto. Almeno, se non vuoi dare retta a un isterico, cerca di ricordarti che devi ad Atena una certa preparazione atletica ».

« Se fosse entrato un nemico non avrei avuto problemi, » si inorgoglì Shaka, stizzito. 

« Non sarebbe entrato ».

« Perché? »

« Perché avrebbe dovuto passare sul mio cadavere ». 

Nel silenzio che seguì, Aiolia le pensò tutte, e molte di queste erano paranoie e paure. Poi, improvvisamente, sentì che la voce di Shaka lo riportava indietro. 

« Ascoltami, » gli disse.

« Ti ascolto ».

« Per te andrebbe bene se io… » esitò. Una leggera, quasi invisibile smorfia. « … ti vedessi con gli occhi? »

« Ch— » Aiolia rimase come instupidito. « Non apri gli occhi da, non so, tredici anni e ora vuoi aprirli per vedere me? »

« Sì. È un viso che non mi dispiacerebbe conservare nella memoria, » rispose Shaka con semplicità.

« Ma che ne sai! » arrossì Aiolia.

« Sei stato tu a dire di essere bello. Ora che ne desidero la prova, diventi insicuro? Viene il dubbio che tu mi abbia mentito ». 

« Che poi, anche se mi vedi, come fai a dire se sono bello o no? Hai detto di aver dimenticato come sono fatte le persone esattamente, quindi come fai a fare confronti ».

« Tre osservazioni intelligenti, » fece Shaka con un sarcastico tono di congratulazioni. « Allora saresti disposto a prenderti la responsabilità di dare un aspetto alla mia idea? »

« Non sei tipo… troppo debole adesso? E poi cos’è, tipo la fonte del tuo potere? Non sprecarla su di me ». 

« Non rispondo bene quando mi vengono dati consigli, » lo ammonì Shaka.

« Ugh ». 

« Devo rispondere alla tua domanda di prima. Volevi sapere cosa intendevo con “negarmi”, » disse Shaka. « Il piacere è sinonimo esatto della perdita completa del controllo. Il piacere cresce fino al punto di lasciarci soddisfatti e poi svanisce rendendoci dei rottami, nel migliore del casi; nel peggiore dei casi, cresce oltre quella misura e si trasforma in disgusto; e una cosa che puoi sempre aspettarti dal piacere è che ti danneggi il cervello, ti renda schiavo, dipendente dal ritorno del piacere perduto, attaccato come un poppante senza dignità alcuna alla fonte di quel piacere. In effetti spesso si uccide per perseguire il piacere. E inoltre si perde l’equilibrio, si rinuncia all’amor proprio e si diventa bestie, per perseguire il piacere. Il piacere è in pratica il peggiore dei vizi e il maggiore dei dolori. Io l’ho lasciato entrare troppe volte. Ho desiderato chiudermi al piacere, adesso però… voglio riceverne altro. Credo che potrò superarlo solo in questo modo. Magari mi sto ingannando e me ne pentirò. Ho bisogno di sentire maggior dolore. Per questo motivo voglio vedere il tuo viso ». 

« Senti, io non voglio essere causa di scompensi simili, » disse Aiolia, a disagio. 

« Non hai fatto altro da quando sei venuto da me la prima volta, quindi hai una bella faccia tosta ». 

« Senti, se è per quella volta che ci siamo presi… »

« Pf. Che audacia. Dolore fisico? Anche se tu fossi veramente capace di darmene non presterei attenzione a qualcosa di così stupido ».

« E allora che ho fatto? »

Aiolia riusciva quasi a sentire la voce di suo fratello che gli comunicava che non aveva capito veramente un cazzo. 

Shaka si alterò. E purtroppo era davvero bellissimo quando si arrabbiava. « Che hai fatto? Tu hai osato. Tu, camuffato da piacere, prima mi hai dato il dolore e poi ti sei presentato come l’unico che poteva farlo finire, in un cerchio infernale senza fine in cui non avrei conosciuto riposo, avrei dubitato di me stesso, mi sarei pentito delle mie parole. Sei un arrogante e un pazzo furioso a penetrarmi nella testa in quel modo come una febbre. Vivo nel dubbio, non distinguo più il giusto dallo sbagliato, a volte desidero la tua presenza nelle ore più disparate del giorno e, maledetto, della notte. E ora ti presenti qui con parole gentili e la dannata pietà, e speri di ottenere cosa, mi domando? Se era la mia follia che volevi, bene, congratulazioni. Ma io ho bisogno di avere un viso nella mente quando ti maledico. Se sei tanto incline ad essere misericordioso, non me lo negherai ». 

Aiolia non rispose subito. Perché aveva trascorso un mese infernale a sua volta, sicuro come la morte che fosse di nuovo andato tutto a rotoli, addirittura temendo che non l’avrebbe nemmeno più rivisto se non magari in qualche consiglio collettivo. Probabilmente erano vere tutte le cose che gli aveva detto Aiolos: aveva paura. Aveva una paura talmente folle di schiantarsi contro un muro — e per giunta dava per scontato che ci si sarebbe schiantato, perché Shaka… beh, Aiolia si era innamorato di lui, ma era assolutamente certo di non essere ricambiato. 

Eppure quelle parole sembravano una dichiarazione, se uno trovava il coraggio di crederci. Una dichiarazione che naturalmente, provenendo da Shaka, aveva tutto l’aspetto di un’accusa, di una maledizione e di uno scatto di rabbia, ma— 

Aiolia finalmente si rese conto che, qualsiasi cosa avesse risposto alla sua richiesta, avrebbe dovuto farlo con serietà. Con la serietà di una promessa. 

« Va bene, » disse alla fine. « Se vuoi guardarmi… per me va bene. Se mi assicuri che non viene giù tutta la Casa o roba del genere ». 

« Io non assicuro proprio niente. Se muori, muori da uomo ».

« Va bene, mi sembra accettabile ». 

Si alzarono in piedi entrambi. 

Shaka sembrò doverci pensare un po’. Come se, dopo tutti quegli anni, i muscoli che gli muovevano le palpebre si fossero completamente addormentati; come pronunciare una singola parola dopo anni di silenzio. 

Aiolia tese le spalle quando Shaka aprì lentamente le palpebre. Ma la Casa non venne giù, dopotutto. 

Si sentì lo stomaco mancare, e i polmoni che venivano schiacciati per qualche attimo. Una fortissima pressione gravava su tutto il suo corpo, come una pressa che cercasse di ridurlo a una sfoglia. Stavolta, per lo meno, Aiolia non sanguinò dal naso, ma sentì che il sangue gli ribolliva terribilmente nelle vene, che gli si erano gonfiate le vene del collo, che l’aria gli veniva risucchiata dalla gola. 

Nel frattempo il salottino della Casa non era più un salottino, ma un immenso spazio aperto. Al posto del soffitto l’anima, non il corpo percepiva un cielo senza limiti, al posto del pavimento un abisso senza alcun fondo dove si susseguivano sei inferni, e le pareti erano come schizzate via, lontanissime, spalancando tutto intorno un vuoto immenso su cui per diversi secondi spirarono selvaggiamente tutti i trentadue venti. La sensazione fu sostituita presto da quella di trovarsi sott’acqua, a tale profondità da accusare di nuovo una terribile pressione, per poi sentirsi sparare fino alla sommità del cielo, a guardare il Sole da vicino. 

Dopo un tempo che gli era difficile da calcolare, la sensazione del cosmo di Shaka si stabilizzò. Rimase al suo posto la sensazione di trovarsi al centro di uno spazio immenso; e le ginocchia gli erano diventate molto fragili. Tutto questo senza che Shaka avesse alcuna ostilità nei suoi confronti; trovarsi di fronte a una situazione simile in qualità di suo nemico doveva essere l’ultima cosa che uno vedeva in vita propria. 

Ma non era male, alla fine. Portarsi all’altro mondo l’ultimo ricordo: due occhi del colore dell’oceano sotto il sole del mattino.

« Cazzo, » riassunse. 

« Che c’è? »

« Penso— io— cazzo, voglio dire, i tuoi occhi sono… » Il lato positivo della questione era che il cosmo liberato da Shaka aveva sostanzialmente spazzato via qualsiasi freno inibitore. « Sono magnifici. Non ho mai visto occhi come i tuoi ». 

Anche adesso che Shaka aveva gli occhi aperti, non era diventato più semplice interpretare le sue espressioni. Qualcosa lo stava disorientando. E allo stesso tempo si era fatto molto più audace e penetrante. 

« Sei molto bello ».

« Uh… ok, e perché di nuovo il tono sorpreso? »

« Effettivamente, hai un bel corpo ».

Aiolia arrossì violentemente. « Ok, ok.. senti… mi dispiace, probabilmente la cosa— »

« Sta andando troppo oltre? »

« No, no, nel senso… va benissimo, che vada oltre — che vada dove vuole, in effetti, è solo che… cazzo, sono nervoso ». 

Aiolia si impietrì quando Shaka fece due passi avanti. Non riusciva a distogliere lo sguardo dai suoi occhi, se ne sentiva praticamente risucchiato. Fu liberato dall’incantesimo soltanto quando Shaka abbassò di nuovo le palpebre — ma quando lo fece, sporse avanti il viso e lo baciò sulle labbra.

Fu una cosa veloce. Aiolia era congelato fuori e stava bruciando vivo dentro. Shaka si staccò dalle sue labbra e tornò a guardarlo negli occhi.

« Con questo ti do il potere di distruggermi e compio, senza prove, l’atto di fede di credere che non lo userai, » disse. « Ecco quanto sono diventato stupido per colpa tua ». 

Aiolia finalmente si sciolse. In effetti, il fuoco assassino che il suo animo stava producendo finì di divorargli l’interno del corpo e mandò in frantumi in un secondo anche il ghiaccio che l’aveva ricoperto esternamente. Ripensandoci anni dopo… all’epoca aveva sedici anni, e probabilmente era un po’ ormonale. 

Dopo un passo avanti compiuto con la furia di una belva, prese il viso di Shaka fra le mani. Sentire quei lineamenti lisci e delicati sotto i palmi gli strappò un gemito di bocca, ma lo soffocò baciandolo. Shaka si aggrappò al suo petto e rimasero così, a lungo, a baciarsi profondamente, nel suono affannato del reciproco respiro. 

Aiolia si staccò dalle sue labbra che si sentiva finito e rinato nello stesso tempo. Euforico e completamente distrutto. Felice, incredulo e probabilmente capace di salire sull’Olimpo e fare una strage. 

Stavano fronte contro fronte, e Aiolia continuava ad accarezzargli il viso.

« Non scherzare, comunque. Preferisco morire che farti del male, » sussurrò appassionatamente Aiolia sulle sue labbra. « Hai la mia vita, tutta… lo giuro. La sto dando a te. Facci quello che vuoi. Dimmi che vuoi vedere il mio sangue, e sanguinerò per te fino alla morte ».

« Non ti sembra di esagerare? » sorrise Shaka. 

« No ». 

Shaka gli sfiorò la bocca con le dita. « Mi legherò al dito anche questa promessa. Ma solo in quel caso ti è lecito sanguinare. Ucciderò chiunque versi il tuo sangue. Non importa chi è ». 

Si abbracciarono, e restarono in quel modo a lungo. Il cosmo di Shaka non faceva più pressione. Era dolce e fresco come il mare di maggio. 

 

*

 

5 anni dopo
Oggi

 

Forse era come giacere sulla seta — forse su una nuvola, altrettanto in alto, col vuoto sotto e l’infinito sopra. Eppure era un letto disfatto, regolarmente poggiato sul pavimento, in una stanza in penombra; entrava una lama obliqua di luce del tardo pomeriggio dalla tenda tirata. Quella piccola fonte di luce sembrava trasformarsi in un immenso riverbero dorato.

Aiolia gemeva supino sul letto, sudato. Due occhi azzurri lo risucchiavano come gorghi oceanici, e gli toglievano il respiro dai polmoni. Si sentiva spogliato anche della pelle e perfettamente duro sotto una luce abbagliante. 

Prima abbassò il mento per seguire con gli occhi il tragitto di una mano sul suo torace. Ma la questione non era chiara, e lo stava diventando sempre meno. Quella mano erano tre mani, poi molte altre. Qualcuna gli stringeva i fianchi, qualcuna gli lisciava le braccia, due gli immobilizzavano i polsi, altre facevano a turno per insinuargli le dita nella bocca, altre gli percorrevano le gambe — tutto in simultanea, e nello stesso modo c’erano troppe bocche e ognuna di esse lo stava massacrando, lasciandolo ripetutamente sull’orlo di un orgasmo per poi ritirarsi con una certa crudeltà. 

Shaka si chinò su di lui per baciarlo sulla fronte. In questo modo, Aiolia fu ricoperto da una cascata di capelli dorati in controluce. Per un attimo tutte quelle sensazioni assurde si acquietarono, dandogli un attimo di riposo come se quel bacio lentissimo avesse fermato la spirale. 

« Troppo? » sorrise Shaka sulla sua fronte. 

« No… » gemette penosamente Aiolia. « Di più. Ti prego ». 

La spirale che si era fermata, subito dopo, iniziò a vorticare in entrambi i sensi allo stesso tempo. Aiolia sentiva uno stimolo quasi infernale su ogni centimetro di pelle, anzi era addirittura come avvertirlo nel sangue, e le sue terminazioni nervose gli dicevano che si trovava al centro di un gorgo composto da cento ripetizioni di Shaka; e sentiva odori gradevolissimi mescolati all’odore del sesso; nelle orecchie era sicuro di avere centinaia di sospiri; sopra di lui, un cielo di quarzo traslucido. 

Troppe mani, troppo tutto che si strofinava contro di lui. 

Ormai stava gridando. La tortura non arrivava a nessuna risoluzione. Iniziò a supplicare senza vergogna. Mentre aveva tutte quelle mani sul corpo, sul viso e sul membro, Shaka cominciò finalmente a spingere. Aiolia strinse ermeticamente gli occhi, serrando i denti, poi buttò la testa indietro con lo sguardo sbarrato. Il suo ultimo grido sembrò scuotere tutta la Casa. 

 

 

« Credevo ti fossi vantato di poter sopportare di più, » commentò Shaka, serafico, scansando un ricciolo sudato dalla fronte di Aiolia che giaceva sul letto disastrato, completamente prostrato.  

« Perché sopporto quello che vuoi, » mugugnò lui da dentro il cuscino. Stava ancora tremando.

« Lo so, » sorrise Shaka. 

« Per curiosità, » gemette Aiolia. « Che cazzo è appena successo? »

Shaka era seduto sulla sponda del letto ed era intento a pettinarsi. Ridacchiò. « È solo manipolazione dei tuoi sensi, » spiegò. « Potrei anche privartene, tu fossi in vena di giochi più pericolosi ». 

« Beh, notevole ».

« Oh, risparmiami. Non ho intenzione di aprire gli occhi ogni volta che sto sopra, quindi cerca di fare tesoro di questa esperienza ». 

« Vieni qua ».

Shaka inclinò il capo per rivolgersi a lui di tre quarti, come per dirgli di stare zitto, perché aveva da fare. Ma Aiolia cominciò a lamentarsi come faceva sempre, e alla fine Shaka depose la spazzola e andò a sdraiarsi di fronte a lui. 

« Non chiuderli ancora, » disse Aiolia a bassa voce. 

« Ma cosa vuoi? »

« Faccio tesoro dell’esperienza ». Si protese in avanti col viso, e gli posò un bacio sugli occhi. 

« Ricordo che quando eravamo ragazzini facesti un certo numero di promesse, » disse Shaka.

« Sì, e allora? » rispose il Leone, accarezzandogli le labbra con la punta del medio. « Ti ho dato motivo di lamentela? »

« Eri molto teatrale. Un male da cui non sei ancora guarito ».

« Almeno non avevo il complesso di dio. Dal quale a tua volta non sei guarito ». 

« Non so di che parli ».

Aiolia sorrise. « Forse degli svariati comandamenti che mi hai dato. Come quello di sanguinare solo per te. Invece che… non so… per Atena. Piuttosto arrogante, non ti sembra? »

Gli occhi di Shaka furono attraversati da una di quelle sue espressioni sdegnose, come faceva sempre quando scherzava con lui. « Dimmi… se io sono stato arrogante, tu, che accettasti con entusiasmo tutti questi comandamenti… cosa sei, allora? »

« Un irresistibile romantico? »

Shaka gli mise una mano sul petto. « O l’unica creatura deperibile della creazione che significa qualcosa per me, » disse improvvisamente. « Non stare a promettere da capo di morire per me. Tu puoi morire dopo di me, o affatto. Se io dovessi avvertire la tua presenza nell’aldilà, ti trascinerei di nuovo qui per i capelli ».

Aiolia scivolò in avanti per avvicinarsi di più a lui, e di nuovo, come altre mille volte, rimasero fronte contro fronte. Shaka chiuse gli occhi, come se fosse stato pronto a dormire. Sembrò allora che la stanza fosse di nuovo una stanza. Aiolia lo vide fare una smorfia.

« Che c’è? »

« L’unico uomo che può uccidermi è proprio l’ultimo che vorrebbe farlo. Sono fortunato e sono sul filo del rasoio al tempo stesso, » spiegò Shaka. Sembrava l’ultima coda di un ragionamento che aveva scelto di non condividere. « Non fare sciocchezze, o guai a te ». 

Anche Aiolia chiuse gli occhi. Stavano scivolando entrambi nel sonno o piuttosto perdendo conoscenza così, vicini, uno di fronte all’altro. Curiosamente, ad Aiolia sembrò di sentire, prima di non sentire più niente, il gracchiare di un corvo da qualche parte là fuori. Ma era impossibile, perché i corvi non erano ammessi al Santuario. Finì per addormentarsi. 

Chapter 11: Eclipse, 1

Notes:

... soooo as you will see in this chapter I'm gonna try something different for Saga. I too like any other person have this fan writer past of angsty Aiolos/Evil Saga one shots, but I'm interested in trying to see what happens if Saga is not encouraged to go mad, but supported along the way. I have become such a softie in my twilight years.
Sorry for the wait, but I've hated this chapter for like two weeks until finally I redid it completely and I even changed the plot I was going for at first, now it's one of my favorites lol
But it certainly took me some time before I could figure out what to do with it.
Also I'm happy because Aphrodite finally appears! He's a character I really love and who has been treated horribly in some instances in my opinion. However I think it's gonna take me some time before I finally get into his backstory. In general, the backstories of some of the gold saints are gonna be done much later, because I think it's time to move forward with the plot lol
Also finally some serious fighting in the next chapter! (fake enthusiastic tone, I hate writing fighting scenes with a passion)

Chapter Text

CAPITOLO 7: ECLIPSE, 1

 

 

 

Non era solo il Parnassus: in Arcadia, quasi tutte le montagne avevano un vero caratterino ed erano alquanto permalose. La montagna a picco sul mare sulla quale sorgeva il Santuario non faceva eccezione — si poteva dire che la montagna stessa fosse il giudice più severo, avesse qualcuno deciso di intraprendere la scalata alle Dodici Case. 

La montagna a fianco delle Case formava a est un vero e proprio abisso senza fondo, ripido come una parete verticale, impossibile da scalare. Da questo abisso sorgeva un picco slanciato e snello, la cima del quale saliva fino a sfiorare le stelle: si trattava di Star Hill, che fungeva da osservatorio per il Sacerdote ed era una zona ad accesso ancora più ristretto dello stesso chiostro dove si ergeva il Palladio della dea. 

Si accedeva attraversando dapprima uno strettissimo ponte sospeso sul mare, centinaia di metri più sotto. Dopodiché era necessario salire delle scale scavate dentro il picco stesso — molte, moltissime scale, tutte da percorrere senza fretta, per evitare di irritare la montagna. Salendo quelle scale, cosa che poteva esser fatta da chi non era Sacerdote solo su invito dello stesso, capitava di rimanere preda della frustrazione, senza poter accelerare il passo, e domandandosi dopo mezz’ora, dopo un’ora, se sarebbero mai finite — la mente si ingombrava di ogni sorta di dubbi, molti dei quali irrispettosi della sacralità del luogo, addirittura vere e proprie bestemmie, ed era proprio quello che la montagna voleva: fare pressione, esasperare, mettere in crisi. Ma le scale continuavano imperterrite, scavate minuziosamente da mano ignota in uno stretto budello di pietra sul quale splendeva a fatica un’innaturale luce che inizialmente era piacevole, poi diventava irritante. 

Saga arrivò in cima al percorso sentendosi praticamente disfatto. Si poteva dire che quelle scale infernali fossero state il colpo di grazia delle ultime settimane. 

A cinque anni dall’incontro con Tamari, le cose non stavano andando benissimo.

Saga si fermò fuori dal tempio circolare a ottantotto colonne che si trovava in cima al picco. Su quel tetto del mondo spirava il vento con grande violenza; era ormai quasi giugno, ma lassù faceva freddo, e le stelle e la Via Lattea sembravano fatte di ghiaccio. 

Decise di aspettare fuori, anche se era stato invitato. Dopotutto era stato invitato Saga — non l’altro. Sapeva benissimo di non poter entrare in quelle condizioni, e conveniva mettersi da una parte e cercare di calmarsi, e di mantenere il controllo. Nel naos, il Sacerdote stava sicuramente cercando di mettersi in contatto con qualche entità divina che fosse in ascolto. Forse con lei. E a questo pensiero, nel vento incessante, Saga si sentì rabbrividire, pensando ai propri capelli che certi giorni ormai diventavano quasi tutti bianchi, pensando alle sue ultime notti febbrili, ai suoi ultimi sogni intollerabili. 

No, non stava andando molto bene. Saga si appoggiò a una delle colonne. Aveva la nausea. 

Non l’aveva detto ad Aiolos. In cinque anni, si era limitato a cercare di controllarsi in sua presenza — con risultati variabili. Non che fosse mai successo un disastro, ma la cosa era strana, semplicemente, visibilmente fuori posto. Gli unici due a saperlo erano Kanon e Shion. Nessuno dei due ne aveva parlato ad altri, così tutti e due avevano rispettato la sua decisione, il che era sorprendente da parte di entrambi per motivi diversi. 

Saga chiuse gli occhi cercando di calmarsi, ma gli tremavano e gli bruciavano gli occhi sotto le palpebre.

Si sentiva terribilmente in colpa per non averglielo detto. Ma perché doveva sentirsi in colpa? Perché Aiolos avrebbe dovuto saperlo? Erano cazzi suoi? Ma sì che avrebbe dovuto saperlo. Non aveva sopportato in cinque anni il suo umore instabile, e quindi non aveva portato comunque il fardello della questione senza sapere cosa fosse? E poi… probabilmente Saga stava diventando un pericolo. Perché non fosse stato ancora spogliato del titolo e allontanato dal Santuario non l’avrebbe mai capito. 

Non era solo una questione di qualche reazione inaspettata o qualche litigata improvvisa, uscita fuori dal nulla. La personalità di Saga e perfino i suoi gusti stavano non cambiando, ma variando in ogni momento, costantemente oscillando fra quelli di Saga e quelli dell’altro. A volte diventava come l’altro; a volte ritornava sé stesso. A volte parlava come l’altro, a volte come sé stesso, e spesso non parlava affatto, per non correre il rischio di pentirsi di quello che avrebbe detto. Si poteva offendere per qualcosa che offendeva l’altro, o compiacere di quello che non l’aveva mai compiaciuto in passato — perché compiaceva l’altro. Un giorno Aiolos si era sorpreso di vederlo mangiare del formaggio, perché a Saga anche solo l’odore aveva sempre dato la nausea. Con Aiolos era un problema, perché si accorgeva sempre di tutto, anche delle cose più piccole. Così dolce e pieno di attenzioni, vero? Lo faceva incazzare. Proprio come il sapore di quel formaggio di merda in bocca. 

Stava lì appoggiato alla colonna, sentendosi uno straccio. Più cercava di fermare le transizioni, più queste diventavano dolorose fisicamente, e lo lasciavano con l’emicrania. 

Avrebbe voluto dirglielo. Voleva la sua opinione. Il suo aiuto. Ma aveva troppa paura di perderlo. Non era tanto la questione di un diverso colore di capelli o di gusti diversi in fatto di cibo. Solo Saga sapeva esattamente che genere di pensieri aveva in testa quell’altra persona. Se Aiolos avesse saputo cosa sognava di fare di notte mentre dormiva, o cosa a volte immaginava di fare perfino quando era sveglio e si sentiva instabile… sarebbero diventati nemici. Nemici mortali, probabilmente. 

In parole povere, Saga si sentiva sul punto di perdere ogni cosa così, in un momento, senza un secondo di preavviso, magari solo perché un giorno si era svegliato più stanco, più distratto. E si svegliava spesso così, ultimamente. 

E non era un problema perdere tutto. Erano tutte cose che non si sarebbe lamentato di perdere. Erano tutta pelle vecchia che conveniva asportare. No — per niente. Era tutta la sua vita. 

Comunque le cose stavano così. Sarebbe successo, era solo questione di tempo. Ci doveva scendere a patti. Sarebbe diventato un pericolo. In cinque anni, aveva considerato esattamente sei volte di uccidersi. Era un pensiero segreto, che in teoria conosceva solo l’altra persona dentro di lui — e quanto lo sfotteva di continuo. Ma in realtà Saga aveva l’impressione che l’ombra del suicidio fosse visibile sul suo viso per alcune persone. Kanon era fin troppo intelligente. Aiolos si accorgeva di tutto, anche di un tremito di un sopracciglio. 

Gli fai tenerezza. Gli fai pena. 

Bel modo di ridursi. Oh, che tristezza dare una delusione a tutti quelli che non hanno mai capito niente di te e ti hanno sempre considerato un santo, vero? Idioti. Semplici idioti. A loro non doveva niente. Cosa deve un drago a uno sciame di mosche? Che morissero sconvolte nel fuoco che era in procinto di scatenare, e morissero felici perché almeno una volta nella vita avevano visto la grandezza.

Saga sentì chiamare il proprio nome e aprì gli occhi, confuso e stordito. 

Respiro affannoso, brividi sotto la pelle, le vene del collo gonfie, quel disgraziato maledetto che non sopportava più di stare rinchiuso nella sua testa: i suoi tentativi di uscire stavano diventando sempre più subdoli, sempre più volenti. Sarebbe bastato essere deboli per un secondo di troppo, e sarebbe uscito. E forse Saga non sarebbe più tornato. 

Era Shion. Gli faceva cenno con la testa di seguirlo nel naos.

« Non posso, » disse Saga con voce arida. Gli occhi gli bruciavano come fuoco. Probabilmente erano di nuovo rossi.

« Devi vederla, » insistette Shion.

« Non vuole vedermi ». Che freddo gli faceva pronunciare quelle parole. 

« Ti sbagli. Ha chiesto di te ». 

In ognuna delle Dodici Case e nell’ultima, quella dove si conservava il Palladio, il naos, cioè la camera più interna e segreta che racchiudeva tutto il senso della Casa stessa, era fatto in modo diverso, e davvero pochi lo conoscevano all’infuori del suo guardiano. 

Quello di Star Hill era a dir poco spartano nell’architettura: una semplice camera circolare liscia, senza alcuna forma di decorazione, e al centro una grossa vasca dove bruciava eternamente il fuoco senza bisogno di alcun combustibile; finché al Santuario c’era legittimamente un Sacerdote ed era in salute, il fuoco non si spegneva. 

Saga ci mise qualche secondo ad abituare gli occhi allo splendore del fuoco nel bacile, in contrasto col buio del naos. Allora si accorse che lo spettacolo davanti a lui era sorprendente. 

Shion era di fronte al fuoco, vicinissimo; addirittura con una mano era appoggiato all’orlo della vasca senza bruciarsi, e con gli occhi guardava direttamente nelle fiamme senza provarne fastidio. Era immerso in qualche pensiero. 

Sui due lati, Saga notò con curiosità i guardiani dell’undicesima e della dodicesima. 

Camus lo stava guardando intensamente, con quel suo solito sguardo fisso e glaciale, senza aprire bocca. Il calore del fuoco, che per lui doveva essere davvero eccessivo, lo faceva sudare, ma il cavaliere non si muoveva. Anche lui era preso da qualche pensiero impegnativo — o forse stava studiando Saga, che in quel momento non doveva avere il suo aspetto migliore. Ma era impossibile dire quali conclusioni avesse raggiunto l’Aquario, perché non lasciava trapelare alcun giudizio, come sempre.

C’era qualcosa di strano quella notte nel cavaliere dei Pesci. O, per meglio dire, di più strano del solito. 

Non diversamente da Camus, aveva dato poche confidenze agli altri da quando era arrivato dalla Lapponia svedese. I suoi pensieri erano rimasti sempre un mistero, perfettamente occultato nell’intenso e onnipresente profumo di fiori che proveniva dalla dodicesima Casa. La dodicesima era la Casa col minor passaggio, la si vedeva solo passando per salire dal Sacerdote, cosa che nessuno faceva tanto spesso; se ne indovinavano, passando, le fontane e i laghetti, tutti circondati da un trionfo di vegetazione, di rose dalle spine acuminate e piante carnivore. Aphrodite di solito se ne stava, solitario, in lontananza nei giardini, e rivolgeva a chi passava solo uno sguardo indecifrabile; se decideva di farti passare, si limitava a voltarsi dall’altra parte e ignorarti. Anche fra i gatti viziati della Casa del Leone ce n’era solo uno che aveva il coraggio di salire fin lassù. L’odore dei pollini stordiva quasi come marijuana. 

Aphrodite, troppo altezzoso per interessarsi di qualcun altro, non guardava Saga che era appena entrato. Stava appoggiato a una parete, col riverbero del fuoco che danzava sul suo viso, rendendo i suoi occhi simili al mercurio. Ma erano occhi stranamente tristi, afflitti da un terribile fardello che Saga non gli aveva mai imputato da quando l’aveva visto la prima volta. Il suo aspetto, a tutti gli effetti prossimo alla perfezione, trasmetteva una strana inquietudine. Malgrado i suoi capelli avessero il colore della bassa e invitante acqua tropicale, l’impressione che Saga ebbe guardandolo per un attimo fu piuttosto di un mare polare nero in piena notte, con quello strano senso di orrore che suscitano le profondità aliene e inabitabili, dove potrebbe aggirarsi qualunque cosa. Un terribile fantasma. 

Ma la stranezza della situazione non si fermava al comportamento così inspiegabile degli altri due cavalieri d’oro: era il riflesso del fuoco sulle pareti del naos. Esso in tre punti aveva creato delle ombre molto precise, di figure umane leggermente in movimento. 

Da una parte, nell’ombra di un nero profondo, si indovinava la silhouette di una donna dai capelli mossi, un po’ selvaggi; era intenta ad accarezzare l’ombra di un grosso felino, forse un giaguaro o un leopardo. Quando Saga l’aveva guardata, l’aveva vista sorridere: si erano visti i denti bianchi sul nero dell’ombra, per un attimo.

Poco lontano si trovava l’ombra più inquietante. Era anch’essa la sagoma di una donna, che appariva seduta disinvolta come un uomo, con in grembo una lancia. L’aspetto che la rendeva sconcertante, però, era non solo la fissità del suo volto, ma anche la fiamma che bruciava su di esso, all’altezza dell’occhio destro. Saga, naturalmente, riconobbe subito Odino, così come dovevano averlo visto ad Asgard nelle loro divinazioni. Se ne sentì inquieto.

La terza ombra proiettata sul muro aveva un aspetto triste. Era anche quella la sagoma di una donna, dai capelli ricci e con nessun segno di riconoscimento in particolare. Sembrava in trappola, chiusa in qualche posto stretto. Si guardava intorno, e Saga avrebbe giurato che l’avesse guardato dritto negli occhi quando era entrato, eppure gli dava anche l’impressione di essere cieca. Si doveva sentire persa. Saga non sapeva come faceva a saperlo, ma lo sapeva, e lo sentiva profondamente. Fu sorpreso di sentirsi colto da un moto di affetto misto a simpatia; in quel momento si sentiva pericolosamente più l’altro che sé stesso, e non aveva mai ritenuto capace l’altra persona di provare sentimenti. 

Erano spariti tutti. 

Forse non aveva più nessuna importanza, al cospetto delle tre ombre sulla roccia, chi c’era e chi non c’era. 

Quelle tre erano davvero lì. Nessuno parlava, perché in quel momento non si poteva parlare; erano in presenza di tre divinità. E sembrava quasi una cosa normale. 

Saga non si rese nemmeno conto di essersi avvicinato alla terza ombra. 

Non era altro che una proiezione bidimensionale sulla parete. La sua mente gli stava forse facendo un altro dispetto crudele. Ma l’ombra della dea uscì dalla parete e si fece vagamente corporea. Saga voleva scusarsi, ma gli sembrava ridicolo, perfettamente insufficiente per la circostanza — altro che scusarsi, avrebbe voluto scomparire, carbonizzarsi sul posto. 

L’ombra senza occhi lo guardava. « Saga, » gli disse. 

Saga non riusciva a chinare il capo come avrebbe dovuto fare. Era scosso da un sentimento di adorazione quasi intollerabile che si stava facendo reciprocamente a pezzi con un improvviso moto di violenza nei confronti della dea. 

« Sei tu, vero? Non riesco a vederti, » aggiunse l’ombra. « È troppo buio ».

« Nemmeno io riesco a vedervi, » ammise Saga con voce bassissima, come se si fosse dimenticato come si faceva a parlare. E intanto qualcosa dentro montava, bruciava, si gonfiava come uno tsunami. 

« Mi sento sola, » ammise l’ombra, con una voce di dolcissima tristezza che avrebbe spezzato il cuore a una pietra. « È sempre pieno di gente, ma… non è chi sono io davvero. Mi capisci, vero? Vorrei venire da voi, essere me, ma non ci riesco ». 

Saga da un lato non osava certo consolare una dea; dall’altro lato, il dolore in tutto il suo fisico stava peggiorando mentre cercava di tenere sotto controllo l’altro stronzo, che aspettava come un pugnale nel buio. Che voleva farle del male. Con violenza. Orribile violenza. 

Poi si congelò. L’ombra aveva fatto un passo avanti e l’aveva abbracciato, mettendogli le braccia al collo. Saga sentiva perfettamente il battito tranquillo del suo cuore, la pressione della sua guancia sul petto. 

Lo tsunami si sgonfiò producendo un altissimo muggito calante. La tensione che sosteneva il suo corpo da anni venne meno, tanto che gli sembrò di poter cadere a terra, liquido. 

« Mi dispiace, » disse l’ombra. « Arrivo prima possibile, ma ti prego, non ti angosciare. Ti voglio bene. La risolviamo insieme, ma per favore non te ne andare ». 

Era l’altro che mollava la presa per un secondo. Era l’altro che si stava lasciando abbracciare. Una cosa che avrebbe dovuto essere impossibile. Si calmava, si fermava ad ascoltare, come una belva domata. 

Non era una cascata di luce, un abbaglio d’oro massiccio, un sole di mezzogiorno. Era invece la forma di luce più potente che esistesse nella creazione: la luce della finestra di casa in lontananza, che appare dopo un’intera notte in viaggio nel buio pesto. 

« Fidati delle persone che ti vogliono bene, » aggiunse l’ombra, stringendosi un po’ di più a lui che non osava ricambiare l’abbraccio. « Fidati di tuo fratello e di Aiolos. Non pensare più di lasciarli. Ti prego ». 

 

Era l’alba. 

Quanto tempo era passato?

 

Una luce grigiastra entrava ora dai lucernari sul soffitto. Saga riusciva a vedere meglio il volto degli altri. Sembrava che tutti avessero visto qualcosa che non li aveva lasciati meno toccati di lui — e lui stesso si ritrovò alla porta dalla quale era entrato, anche se nella visione era sicuro di essersi spostato. 

Saga incrociò per qualche lungo secondo di nuovo lo sguardo di Camus. Era molto cambiato, e adesso sembrava una porta aperta, anziché una murata. Aveva le labbra leggermente dischiuse, come se fosse stato sul punto di parlare, e appariva davvero scosso. Saga non sapeva cosa avesse visto lui, e viceversa. Eppure in quel momento sembrava che stessero condividendo qualcosa, e che non fossero poi lontanissimi. 

Saga vide Camus sollevare leggermente l’avambraccio per guardarsi il polso, attorno al quale era legato quello che sembrava un filo sottilissimo, come un capello, che scintillava debolmente come fosse stato luminescente. A Saga parve che lo guardasse con lo sguardo di un condannato a morte che sogna la grazia. 

« È più vicina di quanto sia mai stata. Eppure, allo stesso tempo, è sul filo di essere impercettibile, » disse Shion. 

« È una specie di maledizione? » chiese Saga. 

« O una prova? » fece Camus. 

« Non lo so, » ammise Shion. « Neanche Odino l’ho mai sentito tanto vicino come ieri mattina, quando la cupola che protegge questo pianeta si è strappata per lasciarlo passare e subito si è richiusa alle sue spalle. Il pericolo è percettibile chiaramente… ma da chi proviene? »

« Non da Odino? »

« Non è detto. Vi potrà sembrare un’eresia. Ma non è detto. E so che sono in una compagnia tale da poter parlare così senza incontrare un pregiudizio. Allo stato attuale delle cose, la verità è che a me sembra che ci siano uguali probabilità che Odino sia un nemico e che non lo sia ». 

« Una delle tre ombre resta senza identità, » osservò Saga. 

« Non è così, » disse Aphrodite. Era la prima volta che parlava. « La terza ombra era Dioniso ».

Shion annuì gravemente. « Lo credo anch’io. Per qualche motivo, queste tre divinità in quest’epoca esibiscono un legame. Dioniso dev’essere altrettanto bravo nel nascondersi quanto Odino. I loro guerrieri però non rimangono indifferenti. Già alcune investiture hanno avuto luogo ad Asgard. E per quanto riguarda le Menadi… »

« La Menade incontrata da Saga è rimasta un caso isolato, » osservò Camus. Saga rimase leggermente sorpreso di sentirsi chiamare per nome. Camus chiamava per nome soltanto Milo, tutti gli altri li chiamava per costellazione. Gli sembrò che, qualsiasi visione Camus avesse avuto, l’avesse reso più solidale, o addirittura empatico. 

« Tamari non era che un primo araldo di guerra. Una di logoramento, » disse Shion. « Non resterà un caso isolato a lungo ». 

Saga non vedeva spesso Shion senza maschera come adesso — adesso che permetteva a loro tre nello specifico, chissà poi perché, di vedere la preoccupazione sul suo viso. 

Pensò che era il primo Sacerdote del Santuario che, lungo una storia di diversi secoli di guerre incessanti, faceva di tutto, anche l’impossibile e anche l’impopolare, per evitare conflitti; in fondo, aveva perso nell’ultima guerra santa quasi tutti quelli che aveva chiamato amici. Ora la guerra gli veniva offerta con la forza. E doveva sentirsi molto riluttante — perché anche lui, di sicuro, chiamato a distinguere il giusto dallo sbagliato anche quando era impossibile farlo, si struggeva di ricevere un segno da Atena. 

Mentre Aphrodite continuava a tacere in maniera piuttosto enigmatica, accadde qualcosa che stupì molto Saga: Camus sbottò. 

« Se le cose stanno così, noi cosa stiamo facendo per farci trovare pronti? Se Asgard si prepara al ritorno di Odino e le Menadi a quello di Dioniso, noi cosa stiamo facendo esattamente? Riceviamo visioni, molte delle quali suggeriscono che Atena sia in difficoltà, e poi torniamo a farci i cazzi nostri? »

Saga l’aveva raramente sentito parlare, figurarsi adottare un tono simile. Provò nei suoi confronti anche un moto di rispetto: non si faceva alcun problema a mettere in discussione il Sacerdote. 

« Quello è il Fuoco nelle tue stelle che ti rende irrequieto, » sorrise Shion. Era un sorriso stanco, ma molto conciliante. « Ma le cose succederanno al momento opportuno, o affatto ».

« Cosa dovrebbe voler dire questo? » sbottò Camus. « Ce ne stiamo qui a far niente! Tu dici che la senti vicina, l’abbiamo sentita tutti stanotte, ha bisogno di noi, e la stiamo abbandonando? »

Saga era colpito. Camus era quello che era arrivato al Santuario dicendo che Atena era morta. Era una cosa che all’epoca aveva dato parecchio scandalo, insieme naturalmente col fatto che si era presentato in ritardo di anni rispetto alla chiamata. Era anche quello che non si scomponeva mai per niente. Adesso era scosso da emozioni violente, ed era così oltraggiato perché era preoccupato. 

« Noi le stiamo dando tempo ».

« Come? »

« Voi non siete la Caccia Selvaggia, siete guardiani. Vostra vocazione è la protezione, non l’attacco. Per quanto la cosa vi possa dare fastidio, spesso il vostro lavoro consiste nello stare fermi. È l’Eufonia che sta proteggendo tutta l’Arcadia, » disse Shion. « La presenza di voi tutti, e soprattuto la vostra unità. Se Atena avrà ancora un Santuario a cui tornare, lo si dovrà essenzialmente a quello che state facendo senza sapere di farlo, e alla vostra vicinanza gli uni agli altri. Ma immagino che sia più pratico se vedete coi vostri occhi quello che intendo dire ». 

Seguirono tutti e tre Shion fuori dal naos, fuori dal tempio, e poi sul retro, dove la facciata posteriore sembrava emergere direttamente dallo strapiombo. Lì, col mare tutto intorno che scintillava, in basso, nella luce dell’aurora, poterono osservare un fatto prodigioso e decisamente preoccupante.

La vite si era arrampicata su tutto il retro del tempio. Guardando bene, si vedeva che la straordinaria pianta poteva essere seguita con lo sguardo in basso, sempre più in basso, fin dove l’occhio si perdeva nell’abisso marino di quel burrone. La pianta di vite era come un pugnale piantato fra le scapole del Santuario, alle spalle, dove nessuno poteva vederlo. Ma c’era. Si avvinghiava a ogni roccia, stritolava le colonne, strangolava Star Hill. Portava dell’uva nera, ma non come uva normale, bensì davvero nera come il carbone. Le innumerevoli, massicce volute lignee della pianta esibivano qua e là dei tagli, dai quali sgorgava una strana sostanza simile a gelatina liquida, anch’essa nerissima. I tentacoli orribili della vite, tutti adorni di enormi foglie, erano stretti come morse attorno a una strana escrescenza simile a un bubbone: un cuore nero che pulsava rabbiosamente. 

« Dioniso, » disse Aphrodite.

« Dopo l’apparizione di Tamari, la vite è sorta dal fondo dell’abisso ed è infine salita fin qui, » spiegò Shion. 

« Che razza di dio codardo si comporta così? Perché Dioniso non si limita a dichiararci guerra? » sbottò Saga. 

« Io purtroppo ho l’impressione che ci troviamo, come vittime collaterali impotenti, in mezzo a un regolamento di conti fra divinità, » disse Shion. « Ma so che se questa vite dovesse continuare a crescere, prima sarebbe la fine di Eunoia, poi dell’Arcadia. E non credo che la cosa si fermerebbe lì. La vite desidera strangolare il Palladio. Le sue radici sono profonde. Io penso che sia tutto il pianeta ad essere in pericolo. La sola cosa che rallenta questo processo è appunto l’Eufonia ». 

« Perché non dire niente a nessuno? » chiese Camus, critico. 

« Perché per cinque anni vi ho visti vivere le vostre vite e cercare la felicità da qualche parte, e sono stato troppo debole per mettervi questo peso sulle spalle, » ammise Shion. Era triste, forse perché pensava alla sua ultima guerra, ma era anche sereno. « Lo sto facendo ora. Consideratelo per quello che è semplicemente: un mio errore. Ma una cosa te la ripeto, Camus. Non ci troviamo all’interno di un fiume in piena, ma di una tessitura. Le cose devono accadere quando devono accadere, i fili si devono annodare quando si devono annodare, o la tessitura fallisce. Ma non vi ho chiamati qui per intrattenervi con delle metafore sul fare la calza. Lo sapete perché vi ho chiamati per primi ».

Nessuno dei tre rispose. 

A Saga sembrava, assurdamente, di sentire il rumore che faceva quella brodaglia nera che sgorgava dal legno della vite. Lo sentiva in fondo al timpano, e gli riempiva il cuore di gelo. 

« Renderò nota a tutti i cavalieri questa situazione, » disse Shion. « E farò sì che si sappia, universalmente, che quella sostanza nera non dev’essere in alcun modo toccata con la pelle nuda ». 

« È la bile nera? Esiste veramente? » disse Saga a bassa voce. 

« Sì, » annuì il Sacerdote. « Comunemente si ritiene che si possa ragionare con la mente e non col cuore. Ma la mente, in realtà, è un interlocutore molto più imprevedibile del cuore. E, nel momento in cui nella mente si verifica una distorsione che ci sfugge, siamo dannati. Io credo che la bile nera amplifichi queste distorsioni. E credo che sia anche responsabile del fatto che Atena si sia persa. Avete ragione, nel senso che questa situazione è sia una prova che una maledizione. Ma spero che vi ricorderete che, quando una ferita della mente spinge all’isolamento, è proprio quello il momento di ricordarsi che possiamo contare gli uni sugli altri. Non vi pare? »

Shion aveva concluso il suo discorso con un sorriso incoraggiante, ma decisamente enigmatico. 

Saga continuava a sentire addosso la pressione dolcissima dell’abbraccio di prima. Gli pareva quasi che la situazione si potesse risolvere davvero. Ma aveva troppa paura di crederci. 

 

*

 

Odenssala, la capitale di Asgard

 

Le gettò uno sguardo mentre si rivestiva, uscita dalla doccia. In teoria, poteva anche rivestirsi con un gesto, facendosi comparire i vestiti addosso, invece stava recuperando un pezzo alla volta per la stanza. Come una rockstar svogliata, in una stanza d’albergo di lusso con il suo peggior amico. 

Una delle più grandi maghe che conosceva rinunciava di proposito alla magia per le piccole cose — per godersi un po’ della vita stupida degli umani. 

Era arrivata da tre giorni, o per meglio dire era precipitata come un meteorite. Loki le aveva prenotato quella suite. Allora si era accorta che le piacevano la vasca idromassaggio con vista sul ghiacciaio, i sali profumati e le candele accese; si faceva di continuo la doccia, e si faceva scorrere addosso l’acqua per un’ora; le piacevano le lenzuola, l’acqua potabile e il servizio in camera. Guardava le donne delle pulizie al grand hotel come se fosse sorpresa che non avessero intenzione di ucciderla. Non che ci fosse da stupirsi, dopo che aveva passato tutto quel tempo nell’Interregno. Ora che era tornata alla civiltà si faceva il bagno nel borotalco per sentire il più possibile l’odore di pulito e mangiava come un drago, spesso commentando che il cibo “sapeva davvero di cibo”. Era difficile fargliene una colpa. 

Così lui, con affezionata indifferenza, la guardava girandosi una sigaretta. 

Tatuata dalla falange dell’alluce al padiglione auricolare, con l’espressione di chi pensa ai fatti propri ed è sprezzante di tutto il resto. Un po’ l’aveva sempre avuta, era probabilmente nata con quella faccia, un po’ le era peggiorata con l’esilio. Probabilmente ci avrebbe messo un po’ a riprendersi da quella gita. 

La sua magia ne aveva tratto giovamento, sia come aumento di potenza che di repertorio, ma il suo corpo era ancora convalescente da tutta quella rigenerazione; in effetti, non aveva bisogno di assumere l’aspetto di una vecchia per camminare male — stava zoppicando, e gli sarebbe piaciuto dare i meriti a sé stesso per quell’andatura, ma il sesso anale non c’entrava niente, erano i suoi femori che si erano riformati troppe volte e avrebbero impiegato due settimane buone a tornare normali. L’impressione però era che fosse proprio il cervello ad aver bisogno di tempo per rimettere insieme un po’ di animo. Riguardo a quello, la frattura era chiaramente percepibile. 

« Quindi… Com’è che si dice? Affida tutto a me, » sorrise lui, iniziando a fumare. Intanto, versò due bicchieri di vino. Stavano bevendo da tutto il giorno, e avevano fatto fuori quattro bottiglie del rosso più costoso dell’albergo insieme a pollo fritto e patatine. Un po’ gli sarebbe piaciuto che le cose potessero rimanere così. 

« Loki, non ti affiderei manco una bicicletta del cazzo ». 

« Per la pancia a botte di Thor, sorellina, da quando sei tornata dall’esilio sei diventata perfino più intrattabile ». 

« Trovi? »

« Do la colpa al mondo inabitabile cui eri stata condannata. Sicura che non vuoi sapere quanti anni ci sei stata? Io posso risponderti ».

« Non lo voglio sapere. Non mi interessa ».

Tanto non gli avrebbe mai dato soddisfazione. Si era anche rifiutata di partecipare effettivamente a quella seduta. Si era fatta scopare e basta, con grande disponibilità ma di fatto senza concedere nemmeno un metro di terreno. Dopo, il suo unico commento era stato che Loki era peggiorato e durava di meno. Gli veniva quasi da sorridere. Era proprio chiusa oltre ogni possibilità di riparazione, ed era diventata un blocco di ghiaccio. Chissà se si sarebbe mai ripresa. Dopotutto l’esilio era stato solo l’ultimo chiodo sulla bara. Prima c’era stata Leni — quella particolare forma di abuso sessuale di nome incantesimo d’amore.

« Ad ogni modo visitando Atene, la culla della democrazia e del pensiero occidentale, vedrai che in breve tempo diventerai una cittadina modello. Per questo sono qui a dirti: capisco bene il dilemma in cui ti trovi, lascia che ti aiuti. Vai a cercare i cavalieri di Noctua onorando la tua promessa, e lascia che mi occupi di Asgard per qualche mese ». 

Hrami si rimise la maglietta corta, e così, purtroppo, le sue tette tatuate scomparvero alla vista. Adesso era di nuovo vestita del tutto, ovviamente di nero. Sempre di nero, ora anche più di prima. 

« D’altro canto, non aspettarti un corteo di benvenuto. Odino è il loro peggior nemico. Se poi si presenta affermando che Atena è morta, per di più mettendosi a parlare di oniroverso e di altri mondi… non lo so, cara, qualcosa mi dice che farai fatica a fare amicizia ».

« Non vado a fare amicizia, » rispose Hrami duramente. « Ci devo andare, e basta ».

« Vacci senza darti pensiero di Asgard, allora. Siamo d’accordo? »

« Sai… non so perché, ma mi torna difficile credere che tu voglia aiutarmi, » disse. Appoggiata alla porta-finestra, non degnava il panorama del grande ghiacciaio oltre l’ampia balconata della minima considerazione. Era così bello, col mare di piombo e il cielo viola e grigio sopra la montagna. Ma lei lo ignorava per partito preso. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di arrivarle al cuore. Povera Hrami. Non sarebbe mai riuscita a trovare un fidanzatino.

« Anche a me piacerebbe sapere perché. È perché sono Loki? E non è Loki in fondo soltanto una maschera di Odino? Non fare la difficile ». 

« Tu sei un Assimilato ».

« Un modo leggermente medicalizzato per dire che sono un dio ». 

« No, per dire che hai perso la tua identità, e ora non sei una reincarnazione, ma soltanto l’organismo che ospita, senza alcun controllo, la mente di Loki. Chiunque il tuo corpo fosse prima di questo, non esiste più ». 

« E allora? Non sei lusingata che un dio autentico si interessi al tuo benessere? »

« Pf ».

Braccia conserte, schiena alla porta, espressione di sufficienza. Quella benda sull’occhio, che ricordava il giorno che il dio le aveva messo in mano un punteruolo di ferro e lei si era strappata il bulbo oculare dall’orbita. Solo per poter uccidere Esra. 

Per i Pellegrini che lasciavano con successo Stella Natalis e diventavano Incarnati, valeva una regola semplice: cercare di morire il meno possibile. Perché un Incarnato fuori da Stella Natalis resuscita sempre, ma nessuna esperienza è peggiore che ritornare dalla morte. 

Durante l’esilio, a Hrami l’esperienza in questione era capitata più di una volta — già due sarebbe stato “troppe volte”. Adesso il gelo polare di Asgard, lì fuori, sembrava un gradevole soffio di aria condizionata rispetto a quello che Hrami aveva nella testa. Un po’ gli dispiaceva vederla così profondamente traumatizzata. Ma no, non ci sarebbe stato altro modo: era sempre stata troppo testona per diventare Odino con le buone. Hrami era una che imparava con le cattive.  

« Quante volte nell’arco di secoli ti ho salvato la vita o mi sono comunque comportato nel tuo interesse? A modo mio, d’accordo — mi rifiuto di fare le cose in altro modo. Ma non ho reso il tuo esilio un po’ più sopportabile, le volte che riuscivo a raggiungerti? Non ho scambiato con te il mio sangue? Non siamo fratelli? »

« Lo siamo. E sì… l’hai fatto tante volte. Ma non tutte le volte, è questo il fatto interessante. Dimmi… fratello… quando ero sotto un incantesimo d’amore, o quando la mia bambina è stata massacrata, tu dov’eri? »

Odio intenso nella voce. Loki aveva conosciuto bene Sonja incazzata, ma Hrami era un’altra cosa. Non si arrabbiava neanche. Era peggio. Era la calma prima dell’esplosione dell’ira di Hrafnaguð, il Dio Corvo. 

« Hai dimenticato di citare quando sei stata violentata e messa incinta, » le fece presente.

Lei non rispose. Lo guardava col suo unico occhio verde.

« Scusa. Dimentico sempre che non sei ancora pronta ad ammettere che sia successo ». 

« Rispondimi, Loki ». 

« In quel momento non era in mio potere aiutarti ». 

« Ah-a. E tu ti aspetti che ci creda? »

« Perché no? »

« Ti ho visto mentire a tutti quanti, io avrei un trattamento migliore? »

« Non è l’accusa che di solito muovono a te? »

Lo sguardo con cui Hrami lo stava fissando era davvero intenso, e probabilmente sarebbe bastato a quelli di Asgard per cadere subito in ginocchio di fronte al loro terribile sovrano. Si riusciva a percepire molto chiaramente il gorgo abissale di potere in fiamme che era sigillato dietro la benda sull’occhio destro. Sempre chiuso, per carità. Hrami aveva intenzione di non aprirlo mai più — aveva detto così. Non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva paura. 

« Bene, se non posso convincerti con l’argomentazione che ti amo come se tu fossi la sorella della mia stessa anima, considera almeno questo: tu hai l’occhio fiammeggiante. Lo tieni chiuso come una codarda, ma anche in questo stato dormiente dovresti avere il sesto senso per smascherare le mie bugie ». 

« Infatti ce l’ho. Per questo ti dico un’ultima volta prima di perdere la pazienza… dimmi la verità ». 

« Preferivo evitare; anche per sentire questo non sei pronta, » disse Loki, conciliante, sputando una serie di cerchi di fumo prima di spegnere la sigaretta nel posacenere stracolmo. « Ma… come desideri. Gli eventi di cui hai parlato, sorellina, sono stati conseguenze della tua debolezza. Capisco che tu senta di essere stata punita con severità eccessiva, ma… non è da quest’ultima che sei risorta come Odino in persona? »

« Ok, vediamo se ho capito: me la sono cercata. Proprio quello che direbbe un amico ». 

« Un amico forse no. Un fratello sì ». 

Hrami, ancora con le braccia incrociate sul petto, non rispose. Si avvicinò a Loki guardandolo come se fosse stato uno sputo sull’asfalto, prese di malagrazia il calice di vino preparato per lei e poi si avviò in terrazza, spalancando la porta-finestra con la magia.

Faceva davvero un freddo cane e lei era vestita leggera, ma non lo sentiva. Questo succedeva perché, in fondo, era a casa, e il suo dominio sul ghiaccio era immensamente più forte a Asgard. Probabilmente riusciva a sentirlo — e non lo voleva ammettere, ma era per questo che era restia ad andarsene. Ma Hrami aveva una promessa, e quindi una missione. Loki trovava adorabile la maniera in cui non aveva mai smesso di portare il lutto per Noctua. 

Così, mettendosi addosso una pelliccia sul petto nudo, la raggiunse in terrazza. 

« Tesoro, se vuoi circondarti di persone che ti dicono che non è stata colpa tua, fallo. Io però non sarò una di quelle persone. Sei stata inadeguata e sei stata punita. Io ne ero dispiaciuto, ma dovevi imparare la lezione ». 

Ma non era più la piccola Sonja. Hrami non ci cascava più. « No… non dovevo “imparare la lezione”. Quel che dovevo fare era cavarmi l’occhio ». 

Loki, armato di una nuova sigaretta, continuò a fumare senza rispondere, facendo allegramente il vago. 

« Vero? Dovevo prendere l’ultima Regalia. La cosa per cui hai sempre spinto, o sbaglio? Per il mio bene? Mi prendi per un’idiota. No, tu volevi veramente che io mi cavassi l’occhio, sicuramente per qualche tuo interesse che ti rifiuti di condividere, e così… sei stato a guardare mentre mia figlia veniva mangiata viva. Ti conveniva troppo il mio dolore. Ti conveniva che io fossi fuori di testa, e si strappasse l’ultimo filo che mi tratteneva dal prendere l’ultima Regalia ». 

« Sonja… »

« Non mi chiamo più così, » sibilò lei. « Il mio nome è Hrami. Conseguenze delle mie azioni, ricordi? Sei stato tu a dirlo ». 

« Lo so, non l’ho dimenticato. Ti chiamo Sonja per nostalgia. Ma… no, non sei più quella donna. Sei Odino, adesso nel nome anziché solo nel titolo. E di questo devi ringraziare tutta la merda dalla quale non ti ho salvata, » rispose Loki. « Lo so che pensi che la Reincarnazione sia avvenuta a prezzo delle vite di tua figlia e di Noctua, nonché dell’ultimo granello di innocenza che ti era rimasto. Ma cosa ti aspettavi? Odino è dio supremo. Atena gli è inferiore per rango. Non poteva sopravvivere alla magnifica tragedia della tua ascensione. La quale, del resto, non poteva essere una passeggiata… tu ti trovi molto in alto, Hrami, e dall’alto si cade con maggior dolore rispetto agli altri, ma si vola molto al di sopra ».

Hrami fece un sorriso cattivo. « Io purtroppo ho questa sensazione. Prima rompevi il cazzo affinché ottenessi l’ultima Regalia, ora che l’ho ottenuta rompi il cazzo perché vuoi che apra l’occhio e liberi i miei poteri. Insomma, come posso dire… viene il dubbio, ma sicuramente non è vero, per carità — viene il dubbio che l’unica cosa che tu abbia sempre veramente voluto è che io ottenessi i pieni poteri di Odino ».

Loki sorrise di nuovo e alzò un sopracciglio. « Li hai avuti, su Stella Natalis, quando ti sei cavata l’occhio. Se io avessi avuto un piano malvagio, ne avrei approfittato allora, non ti pare? »

« No… non avendo lasciato il suolo di Stella Natalis, non ero ancora immortale. È ora che sono completa, e che la cosa ti interessa ». 

« Sei il mio incubo, tesoro. Quanto pensa quel bel cervellino ».

Hrami gli dava quasi completamente le spalle. Loki la guardò per un minuto, con quelle tempie rasate e quei capelli un po’ rasta decorati di piume e ossicini come la testa di una sciamana. Il suo “cosmo” — come l’avevano sempre chiamato lei e Noctua — era impercettibile, perché il dio dell’inganno e dei travestimenti lo teneva sempre a riposo; si avvertiva soltanto la furia repressa dell’occhio, che era un po’ sconcertante anche per lui, quindi figurarsi l’effetto che avrebbe potuto fare a una persona comune. Infatti, il personale dell’albergo era terrorizzato e sedotto da lei al tempo stesso, per istinto. Ma Loki sapeva bene che tutta quella violenza dormiva in attesa dell’unica persona alla quale era interamente dedicata: Esra.

« Hrami… io per te non voglio quello che è comodo, ma quello che è meglio. Mento? Chiedilo ai tuoi corvi se mento. Chiedilo al tuo sesto senso. Chiedilo anche al tuo corpo ».

« Non cominciamo a fare discorsi sexy. Non ho nessuna intenzione di venire mai più a letto con te ».

« Hai perso interesse nel sesso? »

« Al contrario, dopo l’esilio ne voglio fare a profusione ».

« E allora sono davvero tanto peggiorato? »

« Ti aspetti troppo poco da te stesso, » spiegò duramente Hrami. « Le performance delle persone auto-indulgenti sono scarse in tutti i campi. E del resto, ti spetta solo aspettare pazientemente che io ne abbia ancora voglia ». 

« Ma non vedi che meraviglia? È un atteggiamento tutto diverso da quello della povera Sonja drogata e violentata come una pupa qualunque, no? »

« Tu non capisci un cazzo di violenza sessuale, Loki, ma se ci tieni tanto a farmi arrabbiare ti comunico che non bastano queste provocazioni puerili ».

Hrami vuotò il resto del bicchiere di vino in un sorso.  

« Hrami… Lara è morta perché tu eri debole. Quello che ti serviva per rialzarti non era immeritata comprensione, ma un paio di palle, e non potevo certo prestarti le mie ». 

« Almeno ti è piaciuto lo spettacolo? »

« No. Mai, Hrami. E questa risposta la sapevi già, la tua domanda era inutile ». 

Loki non dava molte risposte sincere o spassionate, ma quella era una di quelle. Hrami probabilmente poteva percepirlo — era il motivo per cui, malgrado lo cacciasse via molto di frequente dalla propria vita, alla fine finiva per tollerarlo di nuovo. In fondo erano davvero aspetti complementari. Loki le voleva bene sul serio. Gli dispiaceva davvero che sarebbe finita come sarebbe finita, quando sarebbe arrivato l’ultimo capitolo.

« Io non credo che tu abbia pagato una cifra troppo alta per quello che hai ottenuto. Cerca di ricordare il giorno che hai affrontato Maliketh. Il tuo corpo era debole e la tua mente era rotta per il troppo rigenerarti e resuscitare, eppure hai combattuto con l’anima di un dio. Non eri più quella donna che poteva essere messa in ginocchio. Ti sei elevata… bisogna che tu lo ammetta ».

Hrami non aveva più voglia di parlarne. Si era stufata. Così riportò il discorso su Asgard. Stava per fare una delle sue uscite di scena drammatiche, probabilmente. 

« Tu qui ad Asgard non devi fare niente che io non farei… »

« Ora esageri ». 

« … Oppure— »

« Oppure abbiamo chiuso? Di nuovo? Dai, non ci credi neanche tu ».

« — oppure ti uccido. Ne ho uccisi di dei, semidei, bestie cosmiche e quant’altro durante il mio esilio. E senza mai aprire l’occhio. Non credo di aver bisogno di aprirlo per uccidere te. Morirai senza averlo mai visto, non è triste per te? »

« Uccideresti per Asgard? Uccideresti me? » si stupì Loki. « È arrivato a tanto il tuo investimento emotivo in questa faccenda? Per un secolo di Stella Natalis, che sono quasi tre secoli di qui, non volevi nemmeno venire! »

« Fatti i cazzi tuoi ».

Loki le fece un sorriso fascinoso con la sigaretta un bocca, e alzò le mani in affettuoso segno di resa. 

« Sostituisci il celebrante. Quello che c’è ora fa troppo destra nazionalista, e trovo la cosa irritante, » ordinò Hrami. 

« Agli ordini, Allfǫðr. Non vedo l’ora di scatenare qualche piccolo putiferio di corte. Però, se non deve morire nessuno… lo capisci, mi leghi le mani… »

« Smettila di fare il coglione ». 

« Hai qualche candidato? »

« La ragazza di nome Hilda, » rispose Hrami. « L’ho già visitata in sogno, quindi tu non devi fare niente, mettila solo al comando e poi stai fermo, hai capito? »

« Ok, ok ». 

« Non devi dire a nessuno di loro che sono qui e sono viva ». 

Loki aveva già percepito un’aria piuttosto frizzante ad Asgard, e anche Hrami, naturalmente, andandoci in giro per qualche settimana in incognito, travestita da vecchietta come sempre. Da quando avevano ricevuto una visione proprio di Hrami, si erano esaltati — e il governo attuale aveva subito rivolto quell’esaltazione contro Atene. Agli occhi di molti, Odino stava tornando per conquistare e annettere il resto del mondo. 

Ma non sarebbe stata una buona idea attaccare Atene. Se non per altro, almeno perché era un altro il nemico che si profilava silenziosamente all’orizzonte… di nuovo, Esra. Hrami era una persona completamente neutrale e non era contraria alla guerra a prescindere, ma non voleva che gli asgardiani saltassero a conclusioni prima che lei stessa ci avesse visto chiaro nella situazione di Atene. Neanche lei sapeva cosa aspettarsi da quei fantomatici cavalieri che erano stati sempre nei pensieri di Noctua. L’ultima cosa che rimaneva di lei. 

« Sono d’accordo ». 

« Non importa quanto sia divertente ». 

« Ok, ok ».

« In effetti, non dire nemmeno chi sei tu ».

« Quella è la mia specialità ».

In un gran frullio di piume, Hugin e Muninn comparvero dal nulla e si posarono sulla balaustra. Hrami scoccò a Loki uno sguardo significativo, come per dargli ad intendere che sarebbe stato costantemente sotto osservazione. 

« E non provare a farmi incazzare per spingermi ad aprire l’occhio. Non raccolgo provocazioni ». 

« Non più, vero? » insolentì Loki.

Ma Hrami, per l’appunto, non raccoglieva. Non c’era da stupirsi. Aveva perso troppe cose a causa del proprio carattere, in passato. Aveva dovuto imparare a tenere sé stessa sotto strettissimo controllo. 

« Voglio che per un po’ tu stia tranquilla. Ho sentito che lì a Eunoia faranno una festa per l’eclisse. Ti sei meritata un po’ di ferie, » le disse. E, anche in questo caso, glielo disse onestamente. « Hai ancora intenzione di uccidere Esra? »

« Lo scontro è stato promesso da lei stessa. Ma, anche se così non fosse… è ovvio. Ho sognato per parecchio tempo, tutte le notti, di strapparle l’intestino dalla pancia ». 

« Sai dove trovarla? »

« Semplice. Dove si trovano i cavalieri di Noctua. Il suo gioco consiste nel massacrarli davanti ai miei occhi per completare l’opera, cancellare ogni residuo della sua vita. Sicuramente mi troverà lei, e la cosa sarà la sua fine. Dopo che l’avrò torturata a sufficienza eseguirò il Rito della Stilettata e sarà finita per sempre. Allora tornerò ad Asgard con la testa di Dioniso, che resterà per sempre conficcata su una picca sulle mura del palazzo. Istituirò anche una ricorrenza nella quale i guerrieri e la popolazione potranno cimentarsi nel centrarla lanciando merda di maiale. Occasionalmente la farò installare nella mia camera da letto, perché vedere la sua testa mozzata come ultima cosa prima di dormire mi procurerà sogni magnifici ». 

Il caro vecchio Rito della Stilettata. L’unica maniera per uccidere un Incarnato, un sistema brevettato, secondo la leggenda, da Sheratan in persona. Si trattava di incantare un qualsiasi pugnale con una stregoneria concepita e in seguito trasmessa dal Cavaliere di Sidonia; poi con quel pugnale si doveva penetrare il cranio dell’Incarnato, al centro esatto della fronte, e questo l’avrebbe ucciso per sempre, privandolo della possibilità di rinascere. Anche Esra era a conoscenza di quel rito, perciò si sarebbe trattato, alla fine, di chi delle due ci fosse riuscita per prima. 

Hrami estrasse un pugnale nero e curvo dalla cintura. Era il suo pugnale preferito da quando l’aveva trovato durante l’esilio. Era sicuramente quello che aveva scelto per la Stilettata. Ma stavolta, invece, voltandosi verso Loki, lo usò per procurarsi un taglio sul palmo della mano destra, dopo aver intenzionalmente sospeso la rigenerazione. 

Gli tese poi la mano sanguinante. Era una cosa che non aveva mai fatto. 

« Giura ». 

Era qualcosa di molto significativo, pensò Loki. Erano fratelli di sangue da molto, molto tempo, ma mai, nemmeno una volta, nemmeno per le cose davvero importanti, Hrami aveva preteso da lui che onorasse fino in fondo il patto e facesse un giuramento di sangue; il genere di giuramento dal quale nemmeno un dio può tornare indietro. 

Ci teneva davvero ad Asgard, alla fine. Ma pensa te. 

« Giura, Loki. Niente trucchetti linguistici, niente clausole in piccolo, niente vizi di forma. Giura che veglierai su Asgard onestamente in mio nome finché non sarò pronta a tornare, o che il tuo sangue marcisca. Come vedi, non ti sto chiedendo di giurare di non farmi del male o di non agire contro la mia persona. Sei libero di continuare a fare il cretino, e di continuare a tramare alle mie spalle fino al giorno in cui io e te ci affronteremo come si deve. Ma se provochi un danno ad Asgard, sappi quello che ti aspetta. Giura, o niente accordo ». 

Loki sorrise. Estrasse a sua volta dalla cintura il proprio pugnale, sospese la rigenerazione al palmo destro, e lo recise facendole stillare il sangue. 

I due così si strinsero la mano. Sembrò non succedere niente di particolare, almeno esternamente; ma internamente Loki sentì che una pinza di ferro l’aveva afferrato non tanto nella carne dell’organismo che lo ospitava, ma nel fondo della sua anima. 

« Mi dispiace che non ti fidi più di me ».

« Non mi fido più di nessuno, » rispose Hrami, glaciale come una bora. 

Gli diede le spalle mentre produceva un alto fischio. In risposta, immediatamente, Sleipnir scese giù dal cielo camminando nell’aria come se fosse stato leggerissimo malgrado la sua tonnellata di peso, e atterrò sul balcone. Malgrado Sleipnir fosse un autentico gigante, Hrami montò in sella con agilità — era un gesto estremamente consumato, come mettersi le mani in tasca. 

Quando diede di sprone al cavallo, questo partì verso il cielo con un tale impeto da spaccare il pavimento del balcone. Ci fu un baluginare dei colori dell’arcobaleno e un intenso rumore di tuono, lo stesso che produceva Gungnir quando veniva battuta al suolo, e poi cavallo e cavallerizza partirono al galoppo nell’aria, verso la Grecia, sparendo in breve tempo dalla vista. 

« Sono preoccupato, » scherzò Loki con Hugin e Muninn, che tutt’ora lo controllavano dal parapetto, anche se facevano i vaghi. « Con quell’atteggiamento, finirà a botte ».  

 

*

 

Lo stesso giorno,
Le terme al Santuario

 

« Lo sai che mi devo ricredere? Hai messo su un bel fisico negli ultimi anni ». 

Come al solito, Mu sorrise serenamente mentre continuava a spogliarsi e a riporre ordinatamente i vestiti nell’armadietto. Aldebaran si doveva un po’ ingobbire per mettere le cose nell’armadietto, come aveva dovuto fare anche per passare dalla porta dello spogliatoio. 

« Ti ringrazio. Tuttavia, bisogna ammettere che ero molto carino anche prima, » rispose il cavaliere dell’Ariete, che come al solito non aveva intenzione di fare il serio. 

La pioggia tardo pomeridiana che scorreva fuori lungo le vetrate a piombo mandava un suono e una luce ovattati e rilassanti. Tutto il locale delle terme riservato ai cavalieri d’oro, compreso lo spogliatoio, era illuminato da soffuse luci nascoste, nei toni dell’arancio e del verde acqua. 

« Come una ragazza, sì, » rispose Aldebaran. « Ma lo sai che ero preoccupato. Hai una delle armature più pesanti, e ti vedevo già con la scoliosi. Dopo non ti avrebbe voluto più nessuno. Non che te ne importi un fico, però… »

« Non essere così severo con me. Lo sai che faccio del mio meglio, » si difese placidamente Mu. 

« Sì, fai del tuo meglio… per restare scapolo. Hai trentadue anni, i tuoi gusti non dovrebbero essere tanto difficili ».

« Davvero? »

« Ma certo. Alla tua età non ero così schizzinoso ».

« Senti-senti. Un passato interessante per un uomo tutto d’un pezzo ». 

Ridacchiarono un po’, Mu sommessamente, e Aldebaran un po’ più forte, e di petto. 

Aldebaran era stato il primo, fra i cavalieri d’oro venuti da fuori, ad arrivare alle Dodici Case. Aveva trovato per vicino di Casa, all’epoca, un singolare ventenne che sembrava simultaneamente molto più vecchio e molto più giovane. Non rideva, ridacchiava — anche se raramente si prendeva sul serio; Aldebaran non l’aveva mai visto agitarsi in nessun modo; ed era pronto a giurare di non averlo mai sentito alzare la voce.  

Negli anni l’aveva visto rifilare a tutti quell’atteggiamento da mistico indifferente, cosa che, appunto, lo faceva sembrare più vecchio; ma intanto i due avevano fatto amicizia con facilità da subito, e Aldebaran si era accorto che l’Ariete in realtà era un tipo alla mano e aveva un lato spiritoso che lo faceva sembrare quasi un ragazzino. Di solito, questo lato veniva fuori quando si trovavano per bere e giocare a carte. Al momento, di tutti gli abitanti delle Dodici Case, Mu era probabilmente l’unico che non era in lite con nessuno. Anche perché, probabilmente, non si sarebbe arrabbiato nemmeno se gli fosse esplosa una bomba in camera da letto.

Però, in quasi quindici anni, Mu avrebbe pur dovuto godersi la sua giovane età come tutti — invece a tutti quanti riservava un sorriso perfettamente neutro e una conversazione distaccata; non si sbilanciava mai su niente, e malgrado fosse molto gentile non lasciava veramente avvicinare nessuno. Non era neanche timidezza, perché era molto difficile prenderlo in contropiede, era proprio impassibilità completa. Spesso si comportava da eremita anche ora che aveva preso con sé un allievo — un bambino; ma scherzava con lui come se fosse stato un bambino lui stesso. 

Aldebaran era uno dei pochi a conoscere il primo cavaliere dei dodici come un amico insospettabilmente divertente, non solo come un saggio; in effetti, a volte Mu si divertiva a fare al suo vicino dei veri e propri scherzi, con un umorismo addirittura nero, certe volte. Ma a Aldebaran sarebbe piaciuto vederlo con qualcuno o con qualcuna, perché era davvero convinto che Mu fosse una di quelle persone che erano nate per fare davvero felice qualcuno. 

Comunque, aveva la testa dura. Praticamente di marmo. Era troppo intelligente per fissarsi su qualcosa per partito preso, anzi probabilmente pensava fin troppo, e si faceva da solo l’argomentazione e la contro-argomentazione; ma, se aveva preso una decisione, non c’era verso di fargli cambiare idea. E, in questo caso, sembrava aver preso la decisione di morire single. 

« Dico solo che non ti va mai bene niente. Porti il tirarsela a tutto un altro livello. Se è entrato in coppia fissa perfino il ragazzo della sesta Casa, tu non hai scuse. Ma chi potrebbe incontrare i tuoi standard, un dio? »

« Meglio di no. Sembra terribilmente impegnativo, » si allarmò Mu, continuando a sorridere serenamente.

« Sai che ti dico, mi correggo. Non sei schizzinoso, sei pigro ». 

« Sono un tipo tranquillo ».

« No, no, non hai proprio voglia di fare un cazzo. E ti dirò di più: tu, caro, sei forse uno dei tre o quattro superstiti della tua stirpe muviana e ti dovresti concentrare sulla tua metà che ama le donne, perché devi fare figli ». 

« Perché io? Può farne il mio maestro ».

Aldebaran scosse la testa. « Ora magari mi sbaglio, ma se non ne ha avuti in due secoli, mi sembra probabile che la cosa non gli interessi, » disse, mentre si legava i capelli. « Invece, a te piacerebbe? Avere figli? »

« Non sono contrario, » rispose. Non era né un sì né un no. Faceva sempre così. Tanto valeva rompergli un po’ le scatole. 

« Sì, ma io non ti ho chiesto se sei contrario, ma se ti piacerebbe ». 

« Beh, vediamo, » rispose lui, facendo finta di pensarci per dargli un po’ fastidio. « Sembra una di quelle cose che richiedono le condizioni ideali ».

« Mica sempre. Ce le ha avute qualcuno di noi quando è nato, le condizioni ideali? » osservò Aldebaran.

« I figli in qualche modo se la cavano sempre. Non significa che sia giusto servire loro una pessima mano quando nascono ». 

« Ok, ok, ha senso. Ma se tutti ragionassero così, credo che ci saremmo già estinti. In fondo l’arroganza di un genitore scadente che decide di riprodursi è la base della continuazione della specie, » ribatté Aldebaran. 

« Suppongo di aver tratto alcuni esempi dalle circostanze della mia nascita, » rispose l’altro. Era un discorso spinoso, Aldebaran lo sapeva bene, perché Mu gliene aveva parlato una sera che erano brilli; nonostante questo, il suo tono era immutato, perfettamente sereno. « Perciò confermo quello che ho detto. È bene fare figli in presenza di condizioni ideali. Dovesse la specie ridursi eccessivamente nel numero, in fondo significherebbe meno inquinamento, meno guerre, meno pessimi presidenti, meno atomica e meno morte. In effetti, molte specie viventi sarebbero addirittura entusiaste della nostra estinzione ». 

« Va bene, » si arrese il Toro. « Allora supponiamo che tu abbia le condizioni ideali e la donna ideale che ti chiede di fare figli. Diventeresti padre? »

Mu abbassò le palpebre e fece un sorriso un po’ più caloroso, come se l’insistenza di Aldebaran gli avesse fatto simpatia. « È una supposizione un po’ improbabile, ma in quel remoto caso, sì. Con lei lo farei con piacere ».

« Ecco. E come pretendi di conoscerla, quella donna, se fai il monaco tibetano tutto il giorno? Datti da fare e vatti a cercare la madre giusta ».

« Via, Aldebaran. Cercare una donna a scopo di riproduzione? Che razza di cafone imbarbarito sei diventato negli -anta? »

« Oh, santo cielo ». 

Finito di spogliarsi, con l’asciugamano intorno alla vita, Mu si legò i lunghi capelli in una crocchia disordinata. Aldebaran non poteva dire di intendersi di uomini, ma osservandolo mentre compiva questo gesto pensò che, volendo, l’avrebbe trovata subito una donna — era praticamente la fotografia di quelle descrizioni che si leggono nelle fantasy romance, che Aldebaran leggeva in segreto con una certa avidità: il naso regolare, il collo diafano, i capelli come seta, gli occhi color ametista dolci e al tempo stesso intelligenti, il sorriso rassicurante ma al contempo in qualche modo misterioso, la voce dal timbro basso e misurato, per non parlare del fatto che era un tipo ordinato, pulito e curato, che alle donne piace. 

Ma niente. Prima di tutto, Mu era completamente all’oscuro del proprio fascino, e in secondo luogo… non gli interessava. A questo punto Aldebaran fu attraversato di nuovo da un pensiero che gli veniva spesso, ultimamente.

« No, ma poi lo sai perché? » disse quindi.

« E dai… » ridacchiò Mu.

I due si avviarono fuori dallo spogliatoio, lungo il corridoio tutto archi e pareti traforate che conduceva alle terme. Parlavano a bassa voce e si godevano le luci soffuse e l’odore del vapore che si sentiva già da lì, come gatti sornioni. 

« Perché a volte mi dai l’idea di stare aspettando qualcuno ». 

« Questo era piuttosto sciocco, no? » sorrise Mu, evasivo. 

« Sul serio. Riflettiamoci un attimo, » insistette il Toro, deciso a non far deviare il discorso questa volta. « Ti sei fatto il fisichino — nonostante, torno a ripetere, tu non abbia voglia di far niente, quindi non oso immaginare che tortura sia stata per te. Sei sempre in ordine fino all’ultima cuticola. Tutte le volte che esci, incluso quando è per cinque minuti, profumi. Nessuno fa così. Tu ti vuoi fare trovare pronto. Stai aspettando il suo arrivo a sorpresa da un momento all’altro. E ora mi dici anche l’arrivo di chi ». 

« Stiamo di nuovo leggendo romanzi romantici? » ridacchiò l’Ariete, rivolgendogli un’occhiata furbesca. Poi, vedendo che non funzionava, sospirò, conciliante, continuando a sorridere. « Ammetto di sentirmi in sospeso. Suppongo che qualche volta possa dare la stessa sensazione di un’attesa. Però non so. Magari sono un profeta. Magari sento l’arrivo della fine del mondo ».

« Mh-m, una battuta non casuale, secondo me, » osservò Aldebaran con saggezza. « Forse quello che aspetti è una fine del mondo ».

« Preferisco immaginarlo come la più violenta tempesta finora ». Che strana precisazione da fare. Ma forse era vero che lui stesso non era in grado di essere più specifico. « Ma non stare troppo a interpretare. Tutto ciò che provo è una sensazione confusa. Potrebbe anche essere questa lunga pace, non credi? Questa sensazione da “niente accade e tutto deve accadere” ».

« È un uomo o una donna? »

« Non saprei dire. Noi bisessuali promiscui non badiamo a queste cose, lo sai, basta che respiri, » rispose Mu con un sorrisetto pungente. 

« Oh, e che cazzo, per una battuta che ti ho fatto una volta— »

« Va bene qualsiasi tipo di respirazione, naturalmente: branchie, anche estroflesse come nel caso di alcune salamandre; respirazione tramite la pelle, come nei lombrichi; la respirazione cellulare; va bene anche il polmone artificiale ».

« Va bene, va bene, scusa, era una battuta rustica, » si arrese Aldebaran, portandosi d’istinto la mano alla nuca. « E invece i funghi, saputello? Come respirano? »

« Suppongo che interpreteresti il tuo classico porcino come l’organo riproduttivo dell’organismo più ampio. Tu respiri col pene? »

« Atena, salvami da questa capra ».  

 

Il corridoio terminava con una porta di legno a sua volta traforata in stile marocchino, la quale si apriva sul locale più grande, un’amplissimo salone colonnato tutto in bianco e blu, quasi tutto occupato da una grande vasca pavimentata a mosaico, circondata da un vero trionfo di felci e sovrastata da una balconata che ne percorreva tutto il perimetro. Il soffitto era di un vetro talmente perfetto, che non si appannava mai, e le terme erano collocate così in alto, che il cielo piovoso si vedeva perfettamente, come fosse stato a un centimetro di distanza. 

I due cavalieri andarono oltre, attraversando una giungla di floride strelitzie e banani in vaso, fino a raggiungere una piscina secondaria, più intima e più calda, in penombra e illuminata di tenui luci rossastre e candele mai spente. La vasca, dove galleggiavano petali di rosa, era compresa all’interno di un colonnato che sosteneva una volta a vela decorata con un mosaico della scena mitologica della gara di canto delle Muse. L’acqua caldissima sgorgava nella piscina dalla base di una statua di Pegaso, che creava con lo zoccolo la fonte Ippocrene. 

Recandosi alle panche di pietra circostanti per togliersi gli asciugamani e riporli, i due si accorsero che in vasca c’era già il cavaliere del Capricorno, immobile con l’asciugamano buttato sulla testa e in una tale posizione che non si riusciva a capire se si stesse concentrando o stesse dormendo.

Quando Mu rimase del tutto nudo, Aldebaran si accorse di una cosa che non aveva mai notato prima; e a quel punto si avvide che alle terme Mu non gli aveva mai rivolto il fianco sinistro, girandosi sempre con naturalezza dall’altra parte per una forma di ritrosia, cosa che ora non poteva fare — e il suo fianco sinistro, su quasi fin dove terminavano le costole e poi per gran parte del gluteo, era interessato da una cicatrice dall’aspetto grave. 

« Ma quella, scusa? » si stupì Aldebaran, bisbigliando. 

« Shh, dorme, » sorrise Mu portandosi l’indice alle labbra. 

« Non dormo, mi riposo un attimo gli occhi, » ribatté Shura senza muoversi, causando a tutti e tre un sommesso scoppio di risate. 

A volte, Shura diventava completamente immobile, come fosse stato fatto di pietra — su cui poteva scorrere l’acqua, battere la pioggia o abbattersi il fuoco, senza sortire alcun effetto. Era, probabilmente, la sua maniera di centrarsi in tutti quei casi che lo richiedevano — chissà, forse in quel caso aveva qualcosa a che fare con la convocazione che aveva ricevuto da Shion il giorno prima. In quelle circostanze, raggiungeva un grado di impenetrabilità solido, che non si alterava in nessun caso, e ricordava molto un samurai la notte prima di una battaglia. 

Shura si tolse l’asciugamano dalla testa e riabituò gli occhi alla luce. Anche lui gettò un’occhio alla cicatrice, mentre i due cavalieri entravano a loro volta in vasca. 

« Dunque? Com’è che un perfettino come te si procura uno sfregio simile? » insistette Aldebaran.

« Via, Aldebaran, non parlare alle terme come un trombone, » lo redarguì Mu con un sorriso ironico. 

« No, no, parliamone, » intervenne Shura. « La stessa domanda incuriosisce anche me, a questo punto ». 

Seduto composto con l’acqua fino al petto, Mu si strinse nelle spalle per un attimo. « Beh, immagino di non avere scelta. Si è trattato di un teletrasporto andato male ». 

« Come? »

« Come fa a andare male un teletrasporto? »

« Beh, in pratica, se dev’essere creato un ponte attraverso cui spostare altrove il proprio intero stato quantico— »

« No, no, no, » lo interruppe subito Aldebaran. « Lascia perdere proprio ».

Mu ridacchiò. « Ok, d’accordo. Voglio solo dire che è un processo che può andare storto. Come posso dire… se uno si scompone da una parte, e poi sbaglia a ricomporsi dall’altra parte… beh, in questo caso, succede che qualche pezzo di corpo possa essere lacerato, strappato o omesso del tutto ».

« Omesso? Urgh, » gemette Aldebaran al solo pensiero. 

« E la tua ferita quanto era grave? » chiese Shura. 

Erano tutti dotati di una certa capacità di rigenerazione, non diversamente dalle loro stesse armature; nessuno sapeva di preciso da cosa derivasse una simile benedizione, così la risposta era sempre stata, semplicemente, Atena. 

In qualsiasi caso, era difficile che, una volta raggiunto il cosmo da cavaliere d’oro, sul corpo di uno qualsiasi di loro restassero cicatrici; Shura, per esempio, aveva sul corpo una serie di segni da taglio, due o tre dei quali piuttosto profondi, che si era procurato nelle fasi iniziali del proprio addestramento — ma Mu si sapeva che aveva manifestato il cosmo d’oro fin da bambino, quindi l’incidente doveva essere stato davvero grave per avergli lasciato una cicatrice lo stesso. 

« Non ricordo bene, ma sono stato tre mesi all’ospedale. Un sacco di chirurgia. Però, se posso avere l’ardire, non mi hanno rimontato male ».

« Tu sei fuori di testa, » sbottò Aldebaran sotto voce. « Io a volte ti ho visto teletrasportarti da me per non fare le scale. E ogni volta rischi così? »

« Ma no, quando hai imparato hai imparato. È che ero giovane ».

« Capito, perché ora è un vecchio, » osservò Shura rivolgendosi ad Aldebaran. 

« Lo ammazzi te o lo ammazzo io? »

Mu rise di nuovo dolcemente alle battute dei due cavalieri più grandi. « Beh… più giovane di ora ». 

« Scusa, e Kiki? » insistette Aldebaran, molto allarmato. « Non fa altro che apparire e sparire da tutte le parti, e tu glielo lasci fare tranquillamente? »

« Beh, è molto più bravo di com’ero io alla sua età, » rispose Mu con semplicità. 

« Io boh, » commentò il Toro.

« E dai, non fare il mammo, » lo rimproverò Shura. « A me a otto anni mi hanno abbandonato in mezzo ai Pirenei con una bussola insieme ad altri cinque candidati. Come vedi, sono ancora qui ».  

« E gli altri cinque candidati? »

« Non li ho più visti, » ammise Shura. 

« Beh, ad ogni modo, com’è andata di preciso? Dai, siamo curiosi, » riprese Aldebaran, tornando a rivolgersi a Mu.

Si misero ad ascoltare tutti e due, addirittura cambiano posizione per mettersi più attenti. I retroscena da parte del cavaliere dell’Ariete erano cosa molto rara.

« Avevo dodici anni o giù di lì, non era da tanto che ero arrivato, » raccontò Mu. « A quell’epoca frequentavo spesso le terre di Ioannis ». 

« Il vecchietto che aveva addestrato tanti cavalieri dell’Auriga? Quanti anni aveva allora, cento? »

« Uno più, uno meno. Ma li portava molto bene ».

« E aveva i cavalli più belli di Arcadia, » osservò Aldebaran. 

Non era un mistero che Mu cavalcasse spesso, ma solo lui sapeva quanto era profondo l’amore per i cavalli del suo collega. Munendosi di una buona scorta di mele e carote, o qualche volta del miele, passava spesso la mezza giornata alle terre di Ioannis, e non lo disturbava pulire le stalle o spazzolare gli animali — era anche piuttosto bravo a ferrarli. Fabbricava i ferri lui stesso, neri e lucidi come ossidiana, con la stessa perizia che impiegava nel riparare armature. A volte lui e Aiolos, un altro ammiratore di quegli animali, uscivano a cavallo insieme, a cimentarsi in qualche prova di tiro con l’arco in sella.  

« Tutti i suoi cavalli, già allora, erano Akhal-teke, » spiegò Mu. « Il cavallo d’oro di Alessandro Magno. Brillavano al sole come fuoco. Ioannis all’epoca mi promise che ne avrei avuto uno se fossi diventato cavaliere d’oro. Temo che la cosa mi abbia motivato ad applicarmi più di tante esortazioni del mio maestro, ma questo rimanga tra noi, » aggiunse con un sorriso malizioso. 

« Quindi quello che monti sempre è quel cavallo? »

« No, è la figlia di quel cavallo, Shani ».

Aldebaran ridacchiò sotto i baffi. Se solo avesse mai parlato di una donna o di uomo con lo stesso tono amorevole e sognante con cui parlava della sua cavalla. Una volta era sicuro di avergli visto gli occhi lucidi per l’emozione, mentre guardava i cavalli galoppare liberi nel paddock. 

« Ad ogni modo, amavo molto quei cavalli. È lì che ho imparato a cavalcare. Perciò, quando all’epoca scoppiò un’incendio presso le stalle, non ho dovuto rifletterci. Mi teletrasportai dentro e liberai i cavalli, e in effetti loro si salvarono, ma io, poi, rimasi intrappolato nel fuoco. Tentai di teletrasportarmi fuori, ma immagino che fossi un po’ spaventato. Mi ero dimenticati tutto quello che sapevo, non so come spiegarlo. Il tentativo fallì, e a causa della ferita e del panico mi accasciai, con il corpo in stato di shock ». 

« Mi piace sempre sentire queste storie di noialtri da piccoli. Irriconoscibili. Mu nel panico! » esclamò Shura. 

« Com’è che non sei pieno di ustioni? » chiese Aldebaran. 

« Ne ho riportate solo di abbastanza leggere da potersi rigenerare da sole. Immagino che possa suonare strano, ma… sono stato protetto ». 

« Protetto? »

« Le fiamme non mi hanno quasi toccato. In effetti, non mi è bruciato neanche un capello. Poi è accaduto un fatto straordinario. Ho sentito qualcuno issarmi in sella a un cavallo, come se fossi pesato un chilo. Là sopra mi sembrava di essere tanto in alto, come in cima a una torre. La persona sconosciuta montò dietro a me con un salto, diede di sprone, e il cavallo… partì, come un fuoco d’artificio, sfondando il soffitto delle stalle e volando nel cielo ». 

« Allora era Pegaso, con Atena in groppa? » disse subito Shura.

« Non saprei dire, » ammise Mu, evasivo. « Non era un cavallo alato, però ». 

« Perché, chi altro poteva essere? »

« Hai ragione, non avrebbe senso. È solo che ho sempre avuto la convinzione irrazionale che si trattasse di qualcun altro ».

« Com’era fatto questo cavallo? » chiese Aldebaran. 

« In quel momento il fumo mi aveva quasi accecato, ma l’animale si è soffermato un istante di fronte al mio maestro. Lui dice che aveva la mole e il portamento di un enorme stallone da guerra ancora odoroso di sangue, muscoloso, zampe massicce, petto largo… forse più di due metri al garrese ». 

« Diamine… un vero gigante ». 

« Il mio maestro ne parla ad oggi come di un titano gentile, ma con la strana capacità di muoversi come acqua che scorre, malgrado la spaventosa stazza. Raggiunse le sue stanze saltando le Dodici Case come si salta un fosso, galoppando in cielo. Ma non ho mai rischiato di cadere. Malgrado stessi per svenire, il suo galoppo era estremamente facile da seguire, e quella persona, che purtroppo non ho visto, mi reggeva stretto e mi diceva di rimanere sveglio ».

« Di che colore era l’animale? »

« Non se ne poteva dire il colore né l’aspetto preciso, perché appariva più come… una distorsione dello spettro dell’iride. Dopo avermi riconsegnato al mio maestro, è scomparso. Per un istante, mentre si impennava per poi sparire, si è visto come un arcobaleno. L’ultima cosa che ho visto prima di perdere conoscenza e risvegliarmi all’ospedale ».

« Decisamente una manifestazione divina, » concluse infine il Toro.

« Ma tu dici che non fu Atena. Allora cosa senti? Era un dio maschile? »

« Non saprei. La sensazione era maschile, è vero, ma in groppa a quel cavallo, malgrado stessi per svenire, ho sentito la presenza di un cavallerizza che mi portava, e ricordo la forza del braccio che mi reggeva. Poteva appunto essere Atena, non fraintendetemi. Ma se era lei, non l’ho riconosciuta. Piuttosto imbarazzante ». 

« Oh, andiamo. C’è qualcosa che non ci stai dicendo. Qualche altro retroscena. Era davvero la prima volta che avevi una visione simile? »

Ma Mu sorrise e basta, senza rispondere. Ci fu una breve pausa nel discorso, e Aldebaran lasciò che ci fosse silenzio. Non lo disse per non fargli pressioni, ma era molto compiaciuto. Si era trattato di un resoconto molto aperto e sincero — anche se sicuramente mancava qualche pezzo che probabilmente sarebbe rimasto un segreto… però, Mu stava finalmente iniziando a fidarsi un po’ dei propri compagni.  

« Beh, sai chi è che ha un cavallo famoso per galoppare nel cielo, sulla terra e sull’acqua — un cavallo da guerra capace di viaggiare sull’arcobaleno? » disse poi Shura con una certa passione. 

« Oh, ma dai ». 

« Odino. Quello era Sleipnir. Nessuno me lo leva più dalla testa ».

Aldebaran controllò l’espressione di Mu con la coda dell’occhio: immutata, perfettamente tranquilla. 

« Non ha senso, » ribatté quindi. « Prima di tutto, Sleipnir ha otto zampe ». 

« Ma va’. Non prendere il mito alla lettera. È la leggenda che dice così, ma sicuramente se la sono inventata i popoli antichi per giustificare che fosse capace di viaggiare velocemente su qualunque terreno ».

« Adesso sei un esperto di mitologia? » Lo prese in giro bonariamente Aldebaran. « Mu ha percepito una donna in groppa al cavallo, Odino è un vecchio guercio con la barba, nonché un cappello talmente brutto che una donna non se lo metterebbe mai ».

« Ah-a, come no, » insisteva Shura « E la visione che hanno avuto ad Asgard della sua reincarnazione… in una donna con un occhio in fiamme? È una donna a montare Sleipnir in questa epoca, quindi non fare il maschilista ».

Aldebaran si sentiva quasi irritato, e non tanto perché ormai, malgrado fossero alle terme, i toni si fossero alzati: la questione stava iniziano a sembrare un’insinuazione bella e buona. « D’accordo, ma stai dimenticando l’aspetto più cruciale della vicenda: perché Odino avrebbe dovuto salvare la vita di un cavaliere di Atena? Non starai accusando— »

Mu intervenne con voce pacata, senza smettere di sorridere. « Vi prego, vi prego. Non pretendo di aver incontrato un dio in persona. Forse solo uno spirito che per qualche motivo si è interessato alla vicenda. In fondo, parecchi esseri soprannaturali di ogni genere popolano l’Arcadia, e tutte le mitologie del mondo abbondano di cavalli piuttosto straordinari. Non sarebbe neanche strano che lo spirito di un cavallo divino, senza scomodare Colui che Scivola, si aggiri per i terreni di Ioannis ». 

Aldebaran raccolse con gratitudine l’occasione di smontare la tensione di quel discorso. Mu era bravo in quel genere di cose. Probabilmente con quel suo atteggiamento conciliante sarebbe riuscito a calmare anche Odino in persona, il dio del furore, come calmava i cavalli imbizzarriti di Ioannis. « Basta che non venga fuori che appartieni a un altro dio. Ormai ci ho fatto l’abitudine ad averti come vicino di Casa. Non sono pronto a cederti ad altri. Men che meno a quei lupi maledetti ». 

« Non credo che succederà. Preferisco il clima mediterraneo, » rise Mu. 

« Tu ti sei innamorato di quel bestione, vero? Ti conosco ».

« Era un animale formidabile, e senza dubbio un dio fra i cavalli. Sarei onorato di incontrarlo di nuovo e ringraziarlo, anche se probabilmente la sua mole richiederebbe una mezza tonnellata di mele, » rispose Mu serenamente. Fece una pausa, durante la quale sembrò pensare a qualcosa di molto intenso che si riflesse per un solo istante nei suoi occhi — ma poi lo lasciò passare. « Non so chi sia stato a salvarmi… ma chiunque sia stato, viveva nella luce e aveva un cuore gentile. Non era un nostro nemico ».

« Allora non era Odino, » concluse Shura.

« Questo è certo, » fece eco Aldebaran, lieto di lasciarsi alle spalle quella piega assurda del discorso. 

Mu sorrise senza rispondere. Era chiaro che non avrebbe aggiunto altro. 

 

*

 

Due giorni dopo

 

Per il primo pomeriggio di giugno era stata prevista, sull’Arcadia, un’eclissi totale di sole. La cosa non capitava dagli anni ’60 e tutta la regione la aspettava con impazienza — un’innocua, naturale eclissi voluta dal cielo, senza nessuna implicazione preoccupante. Perciò la città di Eunoia aveva organizzato dei festeggiamenti in grande stile: un festival di quattro giorni che si stava tenendo nella valle ai piedi della montagna, chiamata valle dei Colossi, e che avrebbe culminato col pomeriggio dell’evento. 

Il terreno del festival, vegliato notte e giorno dalle gigantesche teste di pietra emergenti dalla terra o scolpite nel fianco della montagna chissà quante migliaia di anni prima, era molto esteso ed era colmo di eventi e manifestazioni a ogni angolo. C’erano luna park, mercatini di cibo e bar temporanei unici nel loro genere, rappresentazioni teatrali, riti magici eseguiti in onore delle divinità della terra e del fuoco, installazioni artistiche di ogni genere, e molti palcoscenici sparsi dove si tenevano concerti o DJ set. I prati dedicati erano pieni di tende dove si accampavano disordinatamente i partecipanti al festival, venuti da ogni parte dell’Arcadia, e tutte le notti si tenevano spettacoli pirotecnici e installazioni luminose al suono di intensa e folle musica elettronica. 

Gran parte degli abitanti del Santuario si era unita a quelli del resto di Arcadia per i festeggiamenti. Alla gente di Eunoia capitava spesso di vedere i cavalieri in borghese in giro per la città a vivere normalmente, specialmente adesso che erano quasi tutti riuniti, ma, per chi veniva da fuori ed era abituato a sentire soltanto parlare di loro quasi come angeli, quello era un evento davvero irripetibile. Qualcuno era venuto anche attrezzato nella speranza di farsi autografare questo o quello, o magari una parte del corpo, dal cavaliere della sua costellazione preferita o forse addirittura dal cavaliere d’oro della propria costellazione di nascita. Dall’altra parte del portale, intanto, la Grecia nel mondo normale iniziava la sua stagione turistica senza sospettare di nulla. 

Quasi tutta la valle si presentava come un caos di persone a vari livelli di intossicazione nei loro migliori outfit da festival, fra tintinnanti gioielli colorati, travestimenti assurdi, copricapi sciamanici, tessuti iridescenti, mantelle rappresentanti ali di farfalla, treccine di tutti i colori e tanti che si erano dipinti metà volto di nero per onorare l’eclissi. La musica e le intense grida dei teatri dove si rappresentavano commedie e tragedie risuonavano dappertutto, e gli applausi e le risate sembravano come rombi di tuono. 

Un angolo del festival aveva attirato l’attenzione di un gruppetto di cavalieri di bronzo adolescenti, oltre che di un gran numero di curiosi: era stato installato un gioco da luna park, un high striker, uno di quelli fatti a colonna dove era necessario colpire con un martello un disco alla base del macchinario con abbastanza forza da far suonare la campana posta in cima. Solo che la macchina era stata calibrata a misura di cavaliere, con la campana collocata in cima a una colonna altissima che culminava con un ritratto luminoso piuttosto intimidatorio di Odino e il numero 300, e nessuna persona normale era riuscita a far salire il disco di nemmeno due tacche, figurarsi arrivare a colpire il mento del Dio Corvo. Un cavaliere, invece, doveva metterci tutta la forza che poteva metterci senza però arrivare a distruggere l’intero macchinario. 

« Che figura di merda, » fu il commento sardonico di Hyoga, appoggiato a una colonna della tettoia con le braccia conserte. 

Naturalmente, si scatenò subito una scenetta goliardica. Seiya, il recentemente nominato cavaliere di Pegasus, il quale si era cimentato nella prova ottenendo un punteggio così basso che anche in futuro non lo avrebbe mai rivelato a nessuno, raccolse immediatamente la provocazione dell’amico e cominciò a bisticciare con lui. 

Per lo meno, Hyoga si stava divertendo. Otto mesi prima aveva fatto ritorno alle Isole Anzhu accompagnato dal suo maestro e da Isaak, il suo compagno di addestramento; lì aveva ricevuto infine il cavalierato, ma doveva essere successo qualcosa di molto grave, perché Isaak non era tornato in Grecia con loro. Hyoga da allora era stato di umore nero malgrado i più volenterosi tentativi dei suoi nuovi amici di tirarlo su; non aveva mai parlato di cosa era successo ed era chiaro che non desiderava farlo, e spesso si comportava da vero solitario, tanto che avevano iniziato a temere che stesse iniziando a somigliare un po’ troppo al suo maestro. 

Seiya e Hyoga stavano dunque fingendo di bisticciare, col primo che sfidava il secondo a cimentarsi nella prova, se era tanto bravo. La disputa si aggravò quando il cavaliere della Fenice, un altro del quale non si riusciva mai a capire cosa gli passasse per la testa, si fece avanti per mettersi alla prova con un sorriso arrogante e tutta l’intenzione di umiliare il suo collega più giovane; ottenne in effetti un punteggio molto più alto, ma comunque troppo basso per i propri gusti, come dimostrò l’espressione sdegnata che rivolse al faccione strafottente di Odino sul tabellone. Ripresero subito le provocazioni e le scenette, con l’atteggiamento freddo di Hyoga che non faceva altro che mandare Seiya più in escandescenze, malgrado i tentativi del cavaliere di Andromeda di farli ragionare tutti e due.

« Potreste voler smettere di farvi sempre riconoscere, » intervenne a quel punto con gravità il cavaliere del Dragone. « Siete in presenza di due cavalieri d’oro ».

Seiya si azzittì e perfino Hyoga arrivò a interrompere il proprio contegno per guardare nella direzione cui Shiryu accennava col mento: e non aveva detto bugie. Eccoli lì, il Sagittario e il Capricorno, con in mano una birra e tutti variamente spruzzati di colorante spray, cosa che segnalava che erano venuti dal palco nord, dove da tutto il giorno si svolgevano concerti psichedelici. Parlavano tranquillamente fra loro e stavano a guardare i vari cavalieri più giovani che si cimentavano nella prova. 

Era un po’ strano vederli così, considerando che normalmente, quando uno di quei due si aggirava per il Santuario, cadeva subito il silenzio interrotto soltanto da saluti ossequiosi e mormorii di completa ammirazione; d’altra parte il festival dell’eclisse era una buona occasione per ricordarsi che sì, i cavalieri d’oro ricoprivano il rango più elevato e staccavano tutti loro non di un paio di semplici gradi ma di veri e propri anni luce, ma contemporaneamente erano anche dei trentenni. 

Sotto lo sguardo quasi ammutolito dei cavalieri di bronzo presenti, il Sagittario venne avanti dopo essere stato ripetutamente provocato dal Capricorno; sembrava che volesse cimentarsi anche lui nella prova, e tutti gli fecero spazio. C’era anche un gruppo di ragazze lì nei pressi, interessate a guardare le performance dei cavalieri, e ognuna di loro aveva l’aria di essere stata trafitta da un fulmine: con Aiolos lì davanti, non vedevano più i loro coetanei. 

Il cavaliere d’oro finì per ottenere un rispettabile punteggio di 255, cosa che aggravò ulteriormente il più completo rapimento sul volto delle ragazze lì presenti; perciò, nemmeno lui fu in grado di far suonare la campana — il che era un pensiero confortante, anche se i punteggi di Seiya e Ikki letteralmente scomparivano al confronto. Il Sagittario prese il fallimento in maniera molto sportiva, anche se il Capricorno cominciò a prenderlo in giro; alla fine, erano lì per divertirsi. 

A quel punto le ragazze iniziarono a fare baccano, e sembrava che stessero cercando di convincere una del gruppetto a mettere alla prova la propria forza. 

La ragazza in questione era una giovane davvero molto bella, con un naso greco, una spolverata di lentiggini, lunghissimi ricci castani e gli occhi chiari di un colore davvero impressionante, che indossava dei semplici pantaloncini corti di jeans e una maglietta con scritto “I support gay rights and gay wrongs”. Al pensiero di competere dopo un cavaliere d’oro, la ragazza sembrava letteralmente terrorizzata; era rossa come un pomodoro e sembrava che, se avesse potuto, sarebbe scomparsa sotto terra. 

La piccola folla circostante cominciò a fare casino, incoraggiando la ragazza al grido di “Ammazza il Guercio!”, cosa che, per qualche motivo, sembrava metterla ancora più a disagio. 

« Ma dai, oh, » protestò la ragazza, imbarazzata, cercando di scomparire in mezzo al gruppo di amiche che invece la stava spingendo avanti. 

« Dai, Ele! »

« Fagli vedere cosa vuol dire avere le ovaie! »

« Uh— »

La ragazza venne infine spinta fino a davanti il macchinario, e le venne messo il martello in mano; davanti a lei c’era il cavaliere d’oro, e la cosa sembrava metterla terribilmente in crisi. 

Aiolos le fece un sorriso incoraggiante. « Dai, è divertente. Non stare mai a pensare a chi ti sta guardando ». 

Vista dall’esterno la cosa non dovette durare più di un secondo o due. Lui le sorrideva, e lei, tutta rossa in viso, gli stava rispondendo con un sorriso incerto. Ma alla fine il sorriso della ragazza si distese e divenne fiducioso, e i suoi occhi di quell’azzurro argentato scintillarono di fiducia. La ragazza annuì. Anche l’espressione di Aiolos era cambiata, come se in quel momento fosse successo qualcosa. Ma, appunto, dopo un secondo o due era già finita. 

Comunque, l’episodio sembrò dare coraggio a quella ragazza così timida. 

Quindi, alla fine, si decise. Un movimento fluido di tutto il corpo e la ragazza abbatté con forza il martello sul disco. 

Non si sentì bruciare alcun cosmo e non si udì provenire da lei alcun verso di fatica, eppure il disco schizzò letteralmente per aria dopo il rumore di un botto inaudito, e saltò su come un razzo suonando forte la campana; il volto di Odino sul tabellone luminoso mutò in una comica faccia offesa e il macchinario produsse un’imprecazione in lingua asgardiana: era stato sconfitto. 

La folla rimase muta per un secondo, incapace di credere all’accaduto. Poi esplosero altissime grida giubilanti, applausi e fischi entusiasti. La ragazza stava guardando il volto di Odino morto sul tabellone, e non si riusciva a capire come mai se ne sentisse tanto stranita — forse non lo capiva nemmeno lei. Ma non ebbe tempo di rifletterci, perché subito fu circondata da una gran folla di gente, inclusi i cavalieri di bronzo, che si congratulava con lei per aver battuto un cavaliere d’oro. 

« La forza di un toro! »

« Nemmeno Efesto batte il martello in quella maniera! »

« Girl power! »

La ragazza non riusciva nemmeno a reagire a tutti quei complimenti, perché quello che era appena successo sembrava averla terribilmente confusa. Alla fine, il gestore dell’high striker le disse di scegliere fra i peluche a disposizione come primo premio, e la vincitrice sembrò prendere molto seriamente quella decisione, concentrandosi a fondo per valutarli. Alla fine, ne indicò uno dalla pila di quelli più piccoli. 

« Vorrei il gatto di Pallas, per favore, » disse al proprietario in un rarissimo istante in cui la timidezza era sparita.

« Uh— il gatto di…? » ripeté quello, confuso. 

Lei di nuovo si imbarazzò a morte. « Emh— »

Fortunatamente, a suffragio della povera disgraziata, intervenne quella che doveva essere la sua amica estroversa. « Il gatto tondo col culone, quello là, grazie, » disse al proprietario. 

« Ma puoi avere quelli giganti! »

« Eh— ma— »

« A lei piace quello, scusi, eh, » insistette l’amica, categorica. 

Finalmente la ragazza ricevette il suo gatto di Pallas di peluche, e se lo strinse subito al petto come misura di sicurezza per l’imbarazzo di trovarsi così tanto al centro dell’attenzione. 

« Visto? Hai sempre i dorsali più sodi di tutta l’Arcadia! » si congratulò con lei una delle amiche del gruppetto, dandole un gran bacio sulla fronte. 

« Oggi il Pallas, domani l’investitura a cavaliere! » disse un’altra. 

I due cavalieri d’oro stavano guardando da lontano la scenetta; Aiolos era tornato da Shura senza dire niente alla ragazza, per non imbarazzarla ulteriormente. 

« Dici che il gioco è truccato? » chiese Shura, che non staccava gli occhi dalla vincitrice — e sapeva benissimo che avrebbe dovuto evitare, perché quel genere di cose ad Aiolos non sfuggivano mai. 

« E perché? Le shieldmaiden della guardia di Odino pare che siano capaci di smontare a mani nude un ghiacciaio e rimontarlo da un’altra parte, cos’hanno di diverso le ragazze greche? » 

« Per esempio perché hai fatto una figuraccia ».

« Senti, vacci a parlare, fammi il favore ».

« Ma che stai dicendo? »

« Vai, che se la fissi ancora un po’ la consumi ». 

Mentre Aiolos spingeva Shura verso la ragazza, lei veniva spinta a sua volta verso Shura dalle amiche, che si erano immediatamente rese conto dello sguardo involontariamente insistente del Capricorno. 

Naturalmente la ragazza non aveva nessuna intenzione di andarci a parlare, anzi, era così rossa che sembrava si sentisse male, ed era chiaro che in quel momento avrebbe preferito trovarsi in Antartide. 

« Ma sei cretina? È un cavaliere d’oro, quando mai ti ricapita? Tieni, fatti uno shot, » le disse l’amica di prima, mettendole in mano uno shot di liquore comparso da chissà dove. 

Così, dopo qualche secondo di intensa confusione da ambo i lati, i due si ritrovarono uno di fronte all’altra. Shura era in imbarazzo: la ragazza sembrava terrorizzata. 

« Uh— » balbettò lei. 

« Uhm… ciao. Una prova davvero notevole, » le sorrise il cavaliere. 

« Eh, eh… no, cioè… »

La ragazza si accorse che Shura stava per scusarsi e andarsene, non volendo metterla così tanto in difficoltà, così cacciò da chissà dove il coraggio di pronunciare una frase di senso compiuto. 

« Uh, io mi chiamo Elena. Credo. Cioè— sì, è così, ecco. Elena, » ripeté, tendendo una mano tremante per fare le presentazioni. Con l’altro braccio si teneva ancora stretto il gatto di Pallas, che stava stritolando a tal punto quasi da dividerlo in due. 

« Shura, » rispose il cavaliere. « È un piacere conoscerti ».

Shura le strinse la mano con la massima delicatezza possibile, cercando di tenere sotto controllo la sua solita stretta di mano ferrea e formale; la mano di Elena tremava molto. In effetti, lui non era meno imbarazzato di lei. Era davvero molto bella; probabilmente al suo confronto il miele sembrava amaro; e quegli occhi avrebbero potuto risucchiare come un vortice marino un’intera nave da crociera. Avrebbe potuto tenere quella mano nella propria anche per tutto il giorno. 

« Uuh— emh… uh… » riprese a balbettare lei. « Uh… sssscusa, io… emh… non sono molto… ah… come dire… non sono molto brava a parlare… »

« Mi dispiace, non voglio metterti a disagio ».

« No, no! Va bellissimo, cioè!, voglio dire, va benissimo— voglio dire… insomma… è solo che… Ci conosciamo? » 

Shura rimase interdetto. Eppure non interdetto quanto avrebbe dovuto. Era stata una domanda improvvisa, completamente fuori posto; e nello stesso tempo non era stata una domanda strana. 

Cosa stava succedendo? Perché si sentiva così… esaltato?

« Come? No, non credo. O meglio… »

Si sentiva nelle orecchie il fischio del sangue che galoppava nel collo e nella testa. E allo stesso tempo si sentiva esattamente nel posto in cui avrebbe dovuto stare; e si sentiva come se, da quel preciso momento in avanti, tutto sarebbe andato bene, e ogni dolore sarebbe finito. Possibile aver sofferto un simile colpo di fulmine, come un ragazzino? Eppure si sentiva perfettamente razionale, per niente in balia di passioni strane, ma semplicemente… a casa. 

Ma non era il solo a sentirsi strano. Elena sembrava davvero in crisi… fisicamente. In effetti, Shura era talmente rimbambito che si accorse solo un secondo troppo tardi che la ragazza sembrava sul punto di svenire. 

Fu salvata dalle amiche, che si resero conto della situazione e si precipitarono a sdrammatizzare, portandola via con un gran numero di sorrisi e battute. Fu di nuovo provvidenziale l’intervento dell’amica estroversa, la quale, per niente intimidita dal rivolgere la parola a un cavaliere d’oro, si soffermò un attimo con Shura mentre portava via Elena a braccetto. 

« Ehi, noi siamo di Philoxenia! Vienila a trovare, ok? » gli disse allegramente, ma al contempo con un tono abbastanza autoritario, come per fargli capire che non aveva paura a tentare la salita alle Dodici Case se Shura non si fosse presentato a Philoxenia entro la fine del mese. « Lavora al Leucò. Mi raccomando, non te lo dimenticare! »

Noctua fu quindi accompagnata via dalle amiche del gruppetto, mentre ricominciavano le sfide all’high striker per raggiungere il suo record. Aiolos raggiunse Shura. 

« Devo averla offesa, » disse il Capricorno. Fece il vago, ma non riusciva a mostrarsi più di tanto disinteressato. Quell’incontro, all’improvviso, l’aveva scosso nel profondo. Gli dispiaceva un po’ troppo che fosse andata via. 

« Ma no, era solo timida. Del resto sei intimidatorio ». 

« Ma cosa dici? »

« Dai, che le piaci. Si è voltata ».

« Si è voltata? »

Aiolos fece un sorriso angelico. « Dovresti andarci davvero a Philoxenia. Non c’è un cazzo lì, ma qualcosa mi dice che improvvisamente è diventato il centro dell’universo, o sbaglio? »

Shura lo ignorò compostamente. « Philoxenia non è uno di quei villaggi ai piedi del Parnassus? »

« Sì, perché? »

« Magari ci dovrò anche passare ».

« Mh? Perché? La cosa per cui il Sacerdote ti ha chiamato giorni fa? »

« Ma è possibile che tu sia così pettegolo? »

« Informato. Si dice informato. E non sono nemmeno il peggiore dei dodici ». 

« Ti sbagli, sei decisamente il peggiore ».

« Allora, sputa il rospo »

Shura non rispose subito. Sentirsi improvvisamente così lieto era irriguardoso nei confronti della missione. Alla fine sospirò. Era il suo migliore amico, prima o poi doveva dirglielo. « Il Sacerdote vuole che venga interpellato l’oracolo di Delfi. Mi ha ordinato di andarci dopo l’eclissi ». 

Aiolos fischiò in tono di ammirazione. « Ma veramente? Da solo? Tanta roba. Decisione un po’ estrema, comunque. Da quant’è che l’oracolo non risponde a una domanda? »

« Non è possibile formare un gruppo, » rispose Shura. « La montagna lo interpreterebbe come un assalto e non lo gradirebbe ».

« La montagna non gradisce mai un cazzo. Ne ha scacciata di gente… nel migliore dei casi ».  

« Beh, non sarà il mio caso, se Atena lo vorrà ».

« … Tu sei venuto qui oggi per salutare, vero? »

Shura non rispose.

« Normalmente saresti chiuso in riflessione da giorni per prepararti, » insistette Aiolos. « Invece sei venuto a un festival che non credo ti interessi molto. Stai salutando, caro. Perché non sai se torni ».

« Sei veramente troppo sentimentale, come al solito, » lo rimproverò Shura, voltandosi dall’altra parte. « Sono solo stato attratto dallo street food ».

« Beh, le tue precauzioni sono inutili. Hai detto se Atena lo vorrà. Figurarsi se vuole morto proprio te. Quindi vai tranquillo, » tagliò corto Aiolos con fiducia. Era sicuramente fiducia sincera, il suo tipico ottimismo.

Ma Shura ci stava ancora ripensando. « Come ha fatto Elena a far suonare la campana? »

« Non lo so. Ma c’è un sacco di gente in Arcadia che discende alla lontana dalle Amazzoni o addirittura dai giganti. Ti ricordi quel bambino di Eunoia tre anni fa che ha fermato quella macchina a mani nude per salvare il suo cane? Poi l’hanno testato, ma non era un cavaliere. Nell’area di Delfi ne hanno censite diverse di persone che probabilmente discendono da Tifone. Eravamo tanti cavalieri lì davanti, no? E nessuno ha avvertito niente, nemmeno nel momento del colpo. Nessun cosmo, nemmeno un filo ». 

« Probabilmente hai ragione, » ammise Shura. « Ma ammetto di sentirmi comunque curioso ». 

« Beh, vaglielo a chiedere. Solo, tanto per darti un consiglio, la prossima volta non andare da lei tipo “una prova notevole (tono aulico)”, sennò tanto vale che le fai i complimenti per i bicipiti ». 

« Beh, erano molto ben fatti ».

« Santo cielo, quanta pazienza, sei peggio di mio fratello. Gli occhi, i capelli, quello che ti pare, ma per cortesia, su ».  

« Ok, ok, ascolterò l’esperto, » ridacchiò Shura scuotendo la testa. « Che però in questo momento mi sembra un po’ in difficoltà a sua volta ».

« In che senso? » 

Fare il finto tonto era spesso la sua strategia per prendere tempo quando non voleva rispondere. Di solito affrontava tutti gli argomenti direttamente, ma aveva anche lui una debolezza fatale, e quella debolezza si chiamava Saga. 

« Tu sei… sicuro che vada tutto bene con Saga ultimamente? »

« Sì, perché? »

Appunto.

« Niente. Un’impressione ».

« Beh, ad ogni modo andiamo a farci la doccia da persone serie e dopo facciamo un’uscita a bere come si deve ».

« Ok, ok ».  

 

*

 

Le terre di Ioannis
Il giorno prima dell'eclisse

 

Aiolos inclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi per due secondi,  forse tre, assimilando il sole. Solo due secondi di fotosintesi improvvisata, ma in quello spazio ridotto di tempo gli stava ripassando davanti tutta la sera prima. 

Non era inusuale che Saga iniziasse, quando lo facevano; in effetti non era strano che certe volte saltasse su e si prendesse quello che voleva, cosa che Aiolos aveva sempre trovato molto eccitante. Negli anni, a dire il vero, era sempre stato un saltare avanti e indietro rispetto a una linea di confine fra due stati opposti; così non era per niente strano che a volte Saga lo volesse fare dolcemente dopo aver iniziato lui stesso in maniera alquanto aggressiva, oppure il contrario; o che di colpo abbandonasse l’atteggiamento dominante e chiedesse di essere dominato; e a volte le cose potevano cambiare anche due o tre volte nel corso della stessa nottata. Nemmeno del sesso violento c’era da stupirsi, perché qualche volta capitava, e a Saga, a seconda delle giornate, piaceva trovarsi a entrambe le estremità della punizione. Del resto avevano la loro parola di sicurezza, ma non era mai stata usata, perché a quel punto si conoscevano così bene che qualsiasi tipo di sesso facessero era praticamente una cosa telepatica. 

Però quello che era successo poche ore prima era una cosa completamente diversa. Stanza buia, con ogni singola luce spenta — quella era una novità. Ma Saga voleva farlo ancora più al buio. In effetti, sembrava dell’umore di provare qualcosa di un po’ più pericoloso. Aiolos non era contrario. Sentiva, sì, che c’era qualcosa di strano — che un pianeta malefico stava oscurando la persona che conosceva. Però non era più razionale. Non attaccato alla parete in quel modo, con quella violenza, mentre Saga gli mordeva il collo e gli sussurrava come un demone con le labbra che gli sfioravano l’orecchio. Non quando Saga lo afferrò per le guance, un pizzicotto piuttosto forte, e gli sputò in bocca strappandogli un gemito. Saga gli aveva chiesto con una voce strana, una voce che in quel momento era fin troppo sensuale, se si sentiva coraggioso. Aiolos era già troppo duro e troppo eccitato per aver bisogno di rifletterci, e gli aveva sussurrato di sì. 

Il buio completo che Saga voleva quella notte, dopotutto, era da intendersi in senso letterale. Aiolos sentì che un nervo nel suo cranio veniva toccato e iniziava a bruciare, e si accorse con una vertigine di non vederci più. L’eclissi si stava avviando a completezza. Saga era aggressivo — non aggressivo come era stato altre volte, era indemoniato. Avevano lottato al buio per un po’, presumibilmente sfasciando la camera. Era un qualcosa di stranamente sospeso fra l’amore e la morte, era vagamente sgradevole e terribilmente eccitante. Aiolos avrebbe dovuto, probabilmente, sentire il desiderio di andarsene. Invece sentiva il desiderio di vedere quanto poteva sopportare da lui. Così quando Saga gli chiese se avesse intenzione di sottomettersi, disse di nuovo di sì. 

Ricordava ancora il senso di eclissi completa. Non aveva la minima idea di chi fosse quella persona nella stanza. E a un certo punto, nemmeno ci sentiva più: riusciva a sentirsi gemere soltanto attraverso il proprio cranio, il resto era un silenzio da uscire matti. C’era da dire che ne avevano provate di cose negli anni, ma la deprivazione sensoriale… beh, era decisamente intensa. Aiolos stava sudando fuoco freddo mentre Saga, o chiunque fosse, spingeva nella sua bocca con ben poco riguardo. Lo schiaffeggiò una volta quando si permise di fermarsi per tossire. Gli si stava squagliando il cervello.

Era andata avanti per un bel po’. I sensi rimasti erano confusi, a volte sovrastimolati, a volte sospesi completamente. Ma l’andamento della cosa fu irregolare, fuori di testa, una serie inconcepibile di capovolgimenti continui. Era un po’ come se la Luna si fosse messa a girare come una trottola, esponendo ogni minuto una faccia diversa. A volte era dolce, dolcissimo, e disperato. A volte era una forma più oscura. In quello stato, davvero Aiolos non riusciva a capire in quanti fossero dentro quella stanza che non poteva vedere. E nel frattempo una stella si contraeva e gli esplodeva dentro mentre Saga lo scopava, il suo stomaco si stava ribaltando in un piacere insopportabile, la sua testa girava come un uragano. 

… Aiolos riaprì gli occhi dopo quei due secondi, e guardò la sabbia e le staccionate del maneggio. 

Erano già le undici. Era stata una mattina complicata. 

Si era svegliato presto, decisamente dolorante da tutte le parti, strofinandosi gli occhi che sembravano due sassi, e osservando nello specchio un bel grappolo di succhiotti e il segno residuo delle unghie sul petto. Per non parlare, naturalmente, del male al culo. Era tornato in camera. Saga stava ancora dormendo. La stanza era ridotta a un macello totale; l’avevano distrutta. 

Aiolos aveva cercato di svegliare Saga, ma non ci era riuscito. Saga aveva solo mugolato, ma non era riuscito ad aprire gli occhi e nemmeno, in generale, a strapparsi dal sonno, come se fosse stato intrappolato in un incubo che si rifiutava di lasciarlo libero. L’eclisse di sole era prevista per il giorno dopo. Forse la sua vicinanza gli faceva male?

C’era la questione dei suoi capelli. Aiolos li aveva accarezzati quella mattina — metà bianchi, metà blu. La situazione era stata particolarmente instabile negli ultimi pochi anni. Saga aveva dato ad Aiolos delle spiegazioni razionali e sensate — troppo razionali e troppo sensate. Aiolos non se l’era bevute. E pensare che tutto era iniziato da un semplice capello bianco anni prima, a cui nessuno aveva fatto nemmeno caso. Adesso, più erano bianchi, più Saga provava dolore. Era molto bravo a fare lo stoico, ma non poteva ingannare lui. Aiolos stava aspettando che confessasse di sua iniziativa, perché era sicuro che ci fosse una ragione se aveva deciso di tenerglielo nascosto. Faceva del suo meglio, nel frattempo, per stargli vicino quando soffriva; ma Saga sembrava essere in preda alla vergogna più nera, e si chiudeva o addirittura lo respingeva. A volte, quando litigavano — e ultimamente succedeva spesso — Saga sembrava voler suggerire di chiudere la relazione; la cosa, segretamente, spingeva Aiolos sull’orlo delle lacrime, perché sembrava davvero che volesse lasciarlo… o fare di peggio. In qualche modo facevano sempre pace. Ma stava diventando sempre più difficile, e intanto il sacco Saga non lo vuotava mai. 

Perciò quella mattina Aiolos aveva deciso che bastava così. In fin dei conti la confessione l’aveva avuta la notte prima, anche se nessuno aveva parlato. Non sarebbe però servito a niente mettergli pressione addosso — Saga reagiva male quando si sentiva spinto contro il muro e poi, pensò Aiolos, quello di cui aveva veramente bisogno era capire, in quella testa di granito, che non era in pericolo. 

Così quella mattina Aiolos era tornato a letto, si era sdraiato dietro di lui e lo aveva abbracciato. Non si era messo a dormire. Aveva vegliato, col viso immerso nell’odore dei suoi capelli. E così aveva continuato a fare fin quando non l’aveva sentito muoversi fra le sue braccia; Saga si era voltato verso di lui, finalmente sveglio… e sembrava sinceramente sorpreso, e particolarmente pieno di vergogna, nel constatare che Aiolos non se n’era andato. 

Senza sentire ragioni, Aiolos l’aveva portato lì, alle stalle di Ioannis. Aveva sellato il suo Chirone e, una volta che lo ebbe condotto nel recinto, aveva detto a Saga di salirci sopra. Saga non aveva mai cavalcato in vita sua. Ma Aiolos era dell’opinione che molti problemi potessero essere risolti proprio in quel modo. 

Saga guardava il cavallo nero e lustro come se fosse stato uno strano macchinario malfidato. 

« Io magari non me ne intendo, ma dov’è il morso? » disse, dando un’occhiata alla cavezza. 

« Il morso fa male. L’hanno inventato apposta. Non la uso quella roba ».

« L’hanno inventato per fargli capire cosa deve fare, » osservò Saga. Si vedeva che era un po’ più “metà e metà” rispetto a quando si erano conosciuti: in passato non avrebbe mai fatto un discorso simile, così venato di autoritarismo, specialmente nei confronti degli animali. 

« Non ce n’è alcun bisogno, » lo corresse Aiolos. « Se usi il corpo come si deve, il cavallo capisce tutto. Bastano poche pressioni leggere. Vuoi comunicare con lui, non importi con la violenza ».

Saga inarcò un sopracciglio. « Siamo appena entrati in una metafora? » chiese, guardingo. 

« Forse. Avanti, monta ». 

Aiolos sapeva bene che Chirone non era un tipo tanto paziente — la sua era stata una scelta ragionata proprio per questo; una volta che Saga fu in sella partì subito avanti di qualche metro, infastidito dalla rigidità e dal sospetto che percepiva nel cavaliere. Saga reagì subito tirando le briglie come se fossero state un freno a mano.

« Non ti innervosire. Chirone non è un cavallo da maneggio, di quelli che hanno pazienza qualsiasi cosa combini là sopra. Non gli interessa affatto renderti la vita facile. Ma tu non metterti in testa di poter controllare con precisione ogni passo che fa. Guarda, l’hai rifatto. Proprio adesso ». 

« Rifatto cosa? »

« Si è spostato leggermente a destra e tu subito hai cercato di rimetterlo esattamente dove stava prima ». 

« E quindi? »

« E quindi se fai così esci pazzo e non ottieni nulla, » sorrise Aiolos. « È un animale, non una macchina, si muove da solo e ha un cervello separato dal tuo, sai? Allora, proviamo a andare al passo. Ma se accelera… non ti preoccupare, ok? Prova a andargli dietro invece che frenarlo ». 

Fra una battuta e l’altra per prendere in giro Saga, le prove andarono avanti per un po’. Alla fine stava iniziando a capirci qualcosa, ma continuava a sentirsi molto a disagio. L’aspetto positivo della questione è che era davvero bellissimo. Naturalmente era sempre bellissimo, ma a cavallo sembrava disceso direttamente dall’Olimpo.

« Ok, adesso, trotto. Mentre il cavallo fa un passo avanti, sposta leggermente il peso all’indietro e fai una leggera pressione in avanti coi polpacci sulle costole ».

« E lo capisce solo così? »

« Gli vuoi fare un disegnino? Dai, » sorrise di nuovo Aiolos strizzandogli l’occhio. 

Se Chirone avesse potuto parlare, probabilmente avrebbe fatto qualche osservazione sarcastica. Ma si fidava di Aiolos, anche se probabilmente in quel momento lo stava un po’ maledicendo, quindi tutto sommato si prestò a quella seduta. Il trotto non andò malaccio, almeno fino a quando Chirone fu infastidito dalla troppa tensione che Saga gli trasmetteva con le gambe, e iniziò a sgroppare leggermente. Aiolos intervenne prendendolo per le briglie e facendolo fermare.

« Hai visto cos’hai fatto? Hai perso l’equilibrio e ti sei aggrappato alle redini. Se il cavallo avesse avuto il morso, gli avresti fatto male. Immagina lo mettessero a te ». 

« Adesso siamo di nuovo nella metafora ».

« Non ne siamo mai usciti, » confermò Aiolos con un sorriso dolce. « Il cavallo sfuggirà al tuo controllo sia che tu lo esasperi come un maniaco del controllo sia che tu gli lasci fare quello che vuole ». 

« Quindi sfuggirà al mio controllo a prescindere ».

« Se le cose stessero così nessuno andrebbe a cavallo, ti pare? Si tratta di prendersi tempo e imparare a comunicare con lui anche se ovviamente non parla il greco. È una questione di fiducia. Ti vuoi imporre sul cavallo o preferisci convincerlo che con te può stare tranquillo? Adesso calma, ascoltami, » aggiunse con tranquillità: Chirone stava iniziando ad incazzarsi sul serio. Orecchie indietro, zoccoli che pestavano nervosamente, scatti della groppa. Anche Saga si stava innervosendo. Ovviamente non aveva paura di cadere da cavallo — era infastidito che Chirone facesse come gli pareva. « Come vedi, è nervoso. Ti sente rigido, gli fai paura. In questo momento vi state sul cazzo a vicenda. Quindi, visto che non mi sembra il caso di mettersi a fare a botte con un cavallo, l’alternativa rimasta è che tu cerchi di calmarlo ».

« Come? » fece Saga, stizzito. 

« Mettiti nei suoi panni. Come, secondo te? Pensa un po’ a come faccio io con te quando scleri ». 

Ci volle qualche lungo secondo perché Saga si rassegnasse a rilassare le mani sulle briglie e a smettere di aggrapparsi con le gambe come una piovra a uno scoglio. Ma alla fine mise da parte l’orgoglio — e fu uno spettacolo davvero magnifico. Saga rinunciò a cercare di restare immobile a tutti i costi e cominciò a seguire di più i movimenti di Chirone coi fianchi; si chinò in avanti e accarezzò il collo del cavallo. Gli dava dei colpetti leggeri, e lo grattò perfino dietro l’orecchio. Era talmente assorbito da quell’incredibile momento di comunicazione che non si accorse neanche di Aiolos che lo guardava come se Cupido l’avesse trafitto in fronte per l’ennesima volta. 

Chirone si calmò un po’. Aiolos si avvicinò a lui, cominciò a dirgli sciocchezze, lo accarezzò sul muso e gli offrì uno spicchio di mela. Adesso toccava a Saga fissare e sentirsi un po’ squagliare dentro. 

« Posso scendere, adesso? » disse, sarcastico.

« Va bene, va bene ». 

Si avviarono entrambi a piedi per accompagnare Chirone alle stalle, in modo da poterlo sbardare per portarlo a brucare un po’ d’erba. 

« Senti, cerchiamo di essere chiari, » disse improvvisamente Saga, che non riusciva più a tenersi. « Non so che idea ti sei fatto di— »

« Non sei da solo lì dentro, vero? » lo interruppe Aiolos.

Saga esitò. « Ch— » Si ricompose subito. « Kanon ti ha detto qualcosa? »

« Giusto, perché Kanon lo sapeva e io no. Al solito, » ironizzò Aiolos. Poi si voltò di lato, dove camminava Saga, per ammirare, trattenendo una risata, il suo perfetto esempio di broncio offeso. « Non mi ha detto niente di niente. L’hai fatto tu ».

« Io? »

« Sì, ieri notte. Non eravamo tu ed io. Era un threesome. Sono cose abbastanza difficili da non notare, non credi? »

Saga non rispondeva. Arrivarono alle stalle, e Aiolos cominciò a sbardare Chirone, che continuava a lanciare a Saga delle occhiate di traverso. 

« Esattamente perché stai perdendo il cervello nel tentare di nasconderlo? »

Saga sembrava oltraggiato. « Che dici? È ovvio che devo nasconderlo! »

« Non è colpa tua ».

« E allora? La responsabilità è mia. Cosa vuoi che faccia? Lo rendo pubblico? Vado in giro con un cartello con scritto “sono clinicamente pazzo”? »

« Non hai niente di cui vergognarti ».

« E tu che ne sai? »

« E smettila di dire che sei pazzo. Siamo nel 1990, non si dicono più queste cagate ».

« Urgh! »

Saga gli diede rabbiosamente le spalle e non rispose. Aiolos lo lasciò stare per un minuto, continuando il suo lavoro. Sapeva di dover scegliere bene le parole… ma in fondo aveva solo voglia di dire quello che gli veniva in mente semplicemente. 

« Tu per questo parli sempre di lasciarsi, vero? » disse poi. « Anzi, tu… stai cercando di anticiparmi. Perché pensi che, ora che lo so, ti voglia lasciare io ».

Saga continuava a non rispondere.

« È così grave? »

« Sì ». 

« Come si chiama? »

« Chi? »

« Lui ». 

Saga si voltò di nuovo verso Aiolos. Era esterrefatto. Aiolos voleva parlare della cosa che cercava disperatamente di ignorare, guardare quello che lui cercava di nascondere. « Non— non è un’altra persona. È l’altro. Voglio dire… l’altro me ». 

« Hai paura di lui? »

« … Sì ». Come aveva fatto prima in sella a Chirone, Saga iniziò a innervosirsi. Ad Aiolos piaceva quando diventava un po’ bisbetico. « Perché fai tutte queste domande su di lui? »

« Beh, per capirci qualcosa. Immagino che dovrò passarci per forza un po’ di tempo in futuro ». 

Saga non disse niente, ma stavolta non perché non volesse rispondere, ma perché era troppo stupefatto per farlo.

« Sei un cretino. Un completo cretino, » disse Aiolos. « Il tuo piano era questo? Nasconderlo finché puoi? A me, a tutti? E poi quando non potrai più… cosa succederà? »

« Lo posso imparare a controllare ».

« Sì, certo. A condizione che nessuno ti rompa i coglioni, che tu non abbia mai in vita tua nessun motivo di stress, che le condizioni siano ideali per sempre, che non entriamo davvero in guerra contro Dioniso… come no, » disse Aiolos. Un po’ gli dispiaceva, ma Saga aveva bisogno di essere strapazzato un po’. « Tu non vuoi imparare a controllarlo, tu stai cercando di imparare a mutilarti, cazzo. E devi smettere adesso. Cosa credi? Di riuscirci davvero, per sempre? »

« Sì, » disse Saga, cocciuto come una capra.

« Così che non succeda mai niente di male, giusto? »

« Esatto ».

« E se succede, Saga? »

Lui si limitò a guardarlo dritto negli occhi, con l’espressione grave e la fronte aggrottata. Aveva una guerra in testa, si vedevano le esplosioni nei suoi occhi.

« Dici che è grave. Quanto grave? Perché tu abbia così paura, dev’essere un problema bello grosso. Quindi che succede se perdi il controllo, lo lasci libero, e uccide qualcuno? Sai, una volta o l’altra ci cadi da cavallo per quanto tu sia bravo, è matematico, non esiste che non succeda mai ». 

Saga voltò leggermente la testa di lato. Era ferito a sangue. Aiolos gli stava snocciolando una dopo l’altra tutte le cose che non voleva ammettere. 

« E quando questo succederà, » proseguì Aiolos, « io voglio essere con te ». 

Sentì chiaramente Saga trattenere il respiro. Tanto per sdrammatizzare, iniziò allegramente a spazzolare Chirone. 

« Quindi, ora che questo aspetto è chiarito, sappi che vorrei parlarci con quest’altro, quando c’è la possibilità ».

« Ma cosa stai dicendo? »

« Che problema c’è, scusa? Non abbiamo fatto sesso? Quindi possiamo anche parlare. Cioè… normalmente suppongo che prima avremmo parlato e poi avremmo fatto sesso, ma diciamo che stavolta abbiamo seguito la scuola di Kanon ».

Guardò Saga con la coda dell’occhio. Eccolo lì: le labbra che si arricciavano leggermente, e lui che cercava con tutte le sue forze di appianarle. Non voleva ridere. Non se lo voleva permettere. Era ancora più bello quando faceva così. 

« Ti ha fatto male, non è vero? »

« Beh, uh— » esitò Aiolos, continuando a spazzolare. « È stato un po’ intenso. Ma non lo chiamerei male. Ci potrei anche fare l’abitudine. Oh, e piantala di guardarmi così. Non sono fatto di vetro. In realtà, il tuo coinquilino ci sa fare ».

« Quindi più di me ».

Toccò ad Aiolos reprimere una risata. Era una piccola scenata di gelosia. 

« Ok… questa è una trappola da cui non posso uscire vivo, giusto? »

Finalmente, si arresero tutti e due e si misero a ridere. Saga aveva quel modo di tenere la mano davanti alla bocca che lo faceva impazzire. La tensione si abbassò. Aiolos aveva voglia di toccarlo… ma quello non era il momento. A Saga davano fastidio le smancerie quando si faceva un discorso serio. 

« Gli hai permesso di toglierti i sensi, cazzo, » disse Saga. 

« Ssssì, in effetti ho fatto così. Però ero sicuro che li avrei riavuti indietro ».

« Sei un idiota! Come ti è venuto in mente di fidarti di lui come— »

« Come mi fido di te? » lo interruppe Aiolos. Saga era leggermente arrossito. « Beh, come vedi ci vedo, ci sento, e tutto ».

« Per miracolo! Perché c’ero comunque anch’io! Sei un incosciente! »

« Sì, me lo dicono, a volte, » ammise lui, facendo spallucce. « Comunque la mia opinione non cambia. Voglio incontrare questo gemello malvagio ».

« Perché cazzo— »

« Perché non ti lascio indietro… coglione. E se mi dici che l’altro fa parte del pacchetto, non lascio indietro nemmeno lui. Non mi importa quanti siete. Tanto fin dall’inizio mi sono praticamente dovuto fidanzare anche con tuo fratello, quindi, uno più uno meno… »

« Perché? Perché ti interessa di lui? »

Aiolos smise di spazzolare il cavallo e si fece davanti a Saga. Non resisteva più. Con solo un dito gli toccò la fronte sotto i ciuffi disordinati. « Perché vive qui dentro. Mi piace tutto quello che esce da qui, lo sai ».

« Tu non sai di cosa mi riempie la testa, » sbottò Saga. Sembrava che non sapesse nemmeno lui come sentirsi. Offeso? Confortato? « Stai dicendo tutte queste cose da… bravo ragazzo senza sapere un cazzo, Aiolos. Non lo conosci. Non lo sai cosa pensa— cosa mi fa pensare di fare ».

« Di uccidermi? » 

Saga tacque. Qualche piccolo tremito alle guance mentre serrava i denti. 

« Di… tiro a indovinare, prendere il potere? Ascendere a divinità? Le cose da cattivo. E immagino… perfino fare del male a tuo fratello ». Lo vide stringere i denti più forte, si vedeva da quanto gli si era teso il collo. Era impallidito e stava facendo uno sforzo sovrumano per nascondere una smorfia di dolore. Centro perfetto. « Saga, sei una testa di legno. Lo vedi o non lo vedi che tutto questo è al di fuori della tua volontà? Credi che non lo sappia che perderesti letteralmente il cervello se succedesse qualcosa a Kanon? Tu sei sempre il solito, Saga. È solo che… ce n’è un altro. Ecco. E bisogna trovare un sistema per conviverci. Tutto qua ».

« “Tutto qua”? » alzò la voce Saga. Non la alzava quasi mai, o meglio, non l’aveva alzata quasi mai in passato… ma da quando l’altro aveva iniziato a uscire in superficie, quella era un’altra cosa che era cambiata di lui. « Non puoi dirmi che non ti importa. Di tutto quello che ti ho detto, di tutta la merda che ho in testa ».

« Mi importa. È un casino, certo che è un casino. Se tradisci, certo che diventiamo nemici. Se torci un capello ad Aiolia, certo che ti ammazzo. Però, in qualsiasi modo vada a finire, devi mettermi in condizioni di agire onorevolmente, e non dirmi un cazzo non mi ci mette per niente in condizioni, » spiegò severamente Aiolos. Di nuovo cedette alla tentazione irresistibile, e gli pose le mani sulle guance. « Io la mia decisione l’ho presa diverso tempo fa con te. Bella figura ci farei con la dea se abbandonassi l’uomo/gli uomini che amo per due o tre capelli bianchi e diciamo… un mio leggero problema di andatura stamattina ».

« Leggero problema di andatura? Cammini come un granchio ».

Di nuovo scoppiarono a ridere, con le fronti che si toccavano e le mani di Aiolos ancora sulle guance di Saga. La risata si spense gradualmente, trasformandosi in un dolce mugugnare. Aiolos col pollice giocava con le sue labbra. Lo sentiva più tranquillo, molto più tranquillo di quanto fosse mai stato in cinque anni. Gli bastava questo. 

Poi, giocando a fare l’altezzoso, Saga si scansò da lui. « Devi pur avere delle condizioni. Perché se tutta questa fiducia è incondizionata, sei veramente un deficiente ». 

Aiolos, per tutta risposta, gli mise in mano la spazzola e lo spinse davanti a Chirone, per invitarlo a riprendere lui la spazzolatura. Dapprima, Saga lo guardò come se gli avesse chiesto di mungere una mucca. Poi, ormai irrimediabilmente addolcito, si lasciò convincere. Era vero che Aiolos non riusciva mai a dire di no a Saga; ma era vero anche che nessun altro sapeva prendere Saga come lui. 

« Sì che ce le ho, le condizioni, » rispose infine, mentre Saga spazzolava, un po’ incerto, controllando il movimento delle orecchie del cavallo. « Tu mi devi parlare. Non devi aver paura di dirmi quello che ti succede. Se pensi una cosa che ti fa schifo, dimmela. Anche se fa davvero schifo. E la prossima volta che siamo insieme e lo senti… fallo uscire ».

« Non lo so cosa farebbe! »

Chirone si offese di quell’alzata di voce e sferzò Saga in faccia con un colpo di coda, al che di nuovo Aiolos dovette sforzarsi di non ridere. Stavano iniziando ad andare d’accordo. 

« Oh, senti, sei forte e tutto quanto ma non sono una mezza sega. Fidati di me. Lo possiamo fare insieme. Non deve finire in tragedia per forza ».

Saga spazzolava lentamente, poi smise del tutto, preso dai suoi pensieri. Per esortarlo a riprendere il lavoro, Chirone inclinò il grosso capo nero verso di lui e cominciò a brancicargli i capelli col labbro, producendo un’altra scena involontariamente comica. 

« Saga, qualcosa faremo, hai capito? Te lo prometto. Ma non ti posso vedere che soffri così, e non ci posso nemmeno pensare a quanti anni sono che lo fai e io qui come un coglione a non capirlo. Se te ne frega qualcosa di me… smettila di farti del male ».

« La vuoi piantare? » sbottò Saga. E in quel punto gli si ruppe la voce. 

Aiolos non si avvicinò subito: Saga era molto orgoglioso. Guardava dritto davanti a sé, evitando di voltarsi verso di lui, mentre le lacrime iniziavano a scendergli dagli occhi. Tutto il suo corpo era teso. Alla fine, però, non riuscì più a restare immobile: un lamento gli sfuggì dalla bocca e le spalle ebbero un sussulto. Da quel momento in avanti non sarebbe riuscito a smettere di piangere. 

Aiolos fece due passi fino a lui e lo abbracciò senza fare commenti. Lasciò che piangesse col volto affondato nel suo collo, e intanto gli accarezzava i capelli. Ebbe l’impressione che quel pianto avesse aspettato degli anni, forse anche parecchi più anni degli ultimi cinque. L’impressione che non fosse stato tanto l’incontro con la Menade, ma una negazione durata tutta la vita. Si rese conto che fino a quel momento l’aveva visto qualche volta commosso o emozionato, ma non l’aveva mai sentito piangere in quel modo, come un vitello. 

« Non vado da nessuna parte. Fattene una ragione, » gli disse. 

Saga lo strinse molto più forte, continuando a singhiozzare. « Grazie ». 

« Smettila. Per così poco ».

Quando ebbe finito, Saga si staccò, si asciugò gli occhi e cercò di fare finta di niente, tornando a fare il serio. Era così bello il suo viso dopo aver pianto; gli occhi un po’ gonfi, le guance rosse, quella rara espressione vulnerabile. 

« Io non… insomma, non credo che sia giusto che Aiolia non lo sappia per niente, » disse Saga, un po’ incerto. « Non sei al sicuro quando sei con me, e questo lo dovrebbe sapere ».

Aiolos sorrise, un caldo sorriso sincero. E forse si sentiva perfino un po’ commosso. Comunque non bisognava farglielo capire: si sarebbe offeso da morire. « Certo che glielo puoi dire. Non si sconvolge facilmente, e ti vuole bene. Solo… credo dovrai aspettare che finisca il festival. Non credo sia reperibile prima che abbiano smontato l’ultima console ».

Aiolos stette a guardare mentre Saga gli prendeva dalla tasca uno zuccherino e andava ad offrirlo a Chirone. Probabilmente i guai erano appena cominciati, ma in quel momento, a torto o a ragione, si sentiva pronto a qualunque schifezza. Anche a Dioniso. 

Chapter 12: Eclipse, 2

Notes:

Right so I said there was gonna be some fighting in this chapter but turns out it's gonna be the in the next, because I always lose fucking control of dialogues lmao
Btw, I don't really draw or paint anymore for now, but here's a doodle of Hrami!
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Chapter Text

L’ultimo giorno di festival era il più carico, a motivo del fatto che l’eclissi era attesa alle sei di quel pomeriggio. Così, malgrado cominciasse a sentirsi aria di sfinimento dopo tre giorni ininterrotti di festa, tutti aspettavano quel momento, e i concerti di quella notte, i più attesi. L’affluenza era dunque massima. Sembrava che ci fosse tutta l’Arcadia.   

In un punto della valle c’era un lago irregolare, tutto rami e anse, intorno al quale sorgeva un parco ricco di ponti curvati e angoli nascosti; il lago era famoso per essere stato creato da Atena in persona in tempi mitologici, come un ampio specchio d’acqua purissima che però non era collegato a nessun fiume, e di conseguenza non era abitato da alcun pesce; a misura precauzionale, era da sempre vietato anche immergervisi — ma in effetti, nessuno aveva mai detto che non vi si potesse pattinare sopra, solo che in Arcadia non cadeva mai la neve e l’acqua non ghiacciava mai. 

I partecipanti al festival, perciò, erano a dir poco entusiasti che il cavaliere dell’Aquario, in maniera davvero inattesa, avesse congelato tutto il lago. Questo era successo il primo giorno di festeggiamenti, e da allora il ghiaccio non si era minimamente sciolto neanche sotto il sole di giugno, mentre tutto intorno la vegetazione era rigogliosa di lavanda e ortensie — uno spettacolo davvero magico. 

Camus si era comunque rifiutato di farsi fare troppi complimenti. La sua presenza al festival era stata quasi un’apparizione misteriosa, e in molti lo guardavano da lontano senza osare infrangere la barriera, invisibile ma invalicabile. Adesso si stavano tutti divertendo a pattinare sul ghiaccio, cosa che gran parte di loro non aveva mai fatto in vita sua; e, quando sfrecciavano accanto al gazebo del bar dove il responsabile di quella magia stava bevendo un calice di vino col cavaliere dello Scorpione, guardavano in quella direzione per un attimo, verso la persona tanto sfuggente e dallo sguardo tanto duro che aveva creato una magia tanto bella. 

I due cavalieri d’oro si godevano una bottiglia di bianco che, naturalmente, era ben ghiacciata. Nel tavolo accanto quattro signori un po’ ubriachi, armati di dadi e bicchieri, stavano giocando a perudo, così la conversazione tra i due era intercalata dai frequenti sfottò che i giocatori si rivolgevano a ogni giro. 

« Mi sono sempre chiesto, riguardo ai tuoi poteri meteorologici… » disse Milo. « Oltre a far nevicare, puoi anche far piovere? È lo stesso principio a temperature diverse, giusto? »

Camus stava seduto a gambe accavallate e giocherellava distrattamente con uno dei lunghi ciuffi di capelli che gli ricadevano liscissimi sul petto. « Sì, posso far piovere. E, come posso far scendere le temperature, potrei farle anche salire. Era utile coi ragazzi durante l’addestramento in caso di congelamenti, ma non gli trovo altra utilità ».

« Giusto, Atena ce ne scampi dal farlo per divertimento, » ironizzò Milo.

« Un uomo saggio una volta mi disse che non bruciamo il cosmo per farci gli affari nostri ».

« Ma hai congelato il lago per fare tutti contenti, e ti sei divertito. O mi sbaglio? »

Camus sorrise senza rispondere e riprese a gingillarsi coi propri capelli. Milo si perse per un po’ a guardargli la mano, davvero ipnotica con quelle dita sottili e quelle unghie dipinte di rosso. Per qualche secondo non fece nemmeno troppo caso al fatto che il suo cosmo stesse bruciando di nascosto, ma poi dovette voltarsi verso il prato quando tutti si misero a vociare: un abbondante scroscio d’acqua era appena caduto sulle bancarelle del mercatino, causando il panico generale. Finì com’era iniziato, di colpo, quando tutti furono completamente zuppi. 

Milo gli rivolse un sorriso ironico, e Camus fece una di quelle affascinanti smorfie che faceva quando stava reprimendo un sorriso. 

« Siamo arrivati quasi a fine bottiglia, quindi è ora di prendere delle decisioni, » osservò Milo. 

« Ora mi pesa il culo di alzarmi, » rispose Camus, arricciandosi distrattamente i capelli intorno all’indice. 

« Anche a me, in realtà. Però sono nervoso ».

« Nervoso? »

« Non lo so. La giornata di oggi ha qualcosa che non va ».

« Vorresti elaborare? »

« E che ne so. Ho un brutto presentimento, tutto qui ».

Col gomito sul tavolo, Milo avvicinò la mano a Camus con noncuranza, per esortarlo a porgergli la mano che non aveva fatto che guardare fino a quel momento. Guardandolo negli occhi con aria un po’ ammiccante, se la portò alle labbra e la baciò sulle dita. Camus sorrise come a dire “ma piantala”. 

Era molto più a suo agio, adesso. La vita non si era certo semplificata, ma la sua mente stava meglio. 

Subito dopo l’arrivo al Santuario, le cose non erano andate molto bene. Camus avrebbe già dato nell’occhio a prescindere, considerando che era stato l’ultimo a presentarsi all’appello e che tutti sapevano che aveva passato anni a fingere di non aver sentito la chiamata; dopodiché si era fatto ulteriormente riconoscere quando, interpellato in proposito, aveva affermato che esisteva la possibilità che Atena fosse morta. Non aveva mai detto di esserne sicuro, perché non lo era, ma la razionalità innegabile dei suoi sospetti era stata da molti trascurata per lo scandalo che era seguito a questa dichiarazione. Era quindi diventato quasi subito la pecora nera della situazione — quindi non sorprendeva che l’unico a parte Milo con cui inizialmente avesse voglia di sostenere una conversazione fosse Kanon. 

Dopodiché, a parte a loro due, non aveva dato particolare confidenza a nessuno; non che fosse mai stato sgradevole con qualcuno, ma aveva tenuto tutti quanti, con gelido garbo, a un chilometro di distanza. Milo si era già accorto in Siberia quanto fosse difficile guadagnarsi la sua fiducia, ma in effetti l’aveva sentito ancora più chiuso al suo arrivo al Santuario. Si era accorto subito che non stava bene. 

Per cominciare, anni prima erano arrivati in estate: il caldo aveva subito iniziato a dargli fastidio. Come i suoi allievi (ma con meno visibile entusiasmo) sembrava felice del cambio di scenario, della vegetazione, del cibo e tutto il resto — ma per tutti i primi tempi, come se di colpo avesse perso la capacità di regolare la propria temperatura, aveva sofferto occasionalmente di veri e propri colpi di calore. In un’occasione, stette davvero male di cuore. La cosa non gli aveva fatto bene alla testa. 

Per qualche mese, anche per Milo era stato difficile farci un discorso. Camus si era chiuso in sé stesso come se fosse entrato in modalità sopravvivenza. Milo sapeva benissimo che stava male con la sua malattia, quel genere di star male che rifiuta, o piuttosto diventa incapace, di curarsi. Cercare di stargli vicino era come tentare di afferrare il vento per dirgli di fermarsi. Per giunta, Camus detestava sentirsi trattare da malato, e il problema era che interpretava in questo modo qualsiasi forma di premura. Ma Milo non si era arreso.

Alla fine, Camus aveva iniziato una terapia. Dalla psichiatra era andato da solo, ovviamente, perché farsi accompagnare sarebbe stato inaccettabile. 

I primi tempi che prendeva le medicine, veniva a dormire tardissimo e poi dormiva fino a dopo mezzogiorno, alzandosi da letto sentendosi un vegetale, ma rigido in tutto il corpo, per quasi tutto il giorno. Svegliandosi molto prima di lui, Milo a volte rimaneva per un po’ a guardarlo nella penombra dell’alba, nudo e disordinatamente scoperto com’era. Una schiena perfetta che avrebbe potuto guardare per un’ora di fila; e una cascata di capelli rossi sotto i quali si trovava una testa piena di incubi avvelenati che si rifiutava di esprimere a parole. Le confessioni bisognava strappargliele di bocca con le pinze. 

Paradossalmente, all’inizio della terapia aveva sofferto di allucinazioni molto più di prima. E, anche quando lo lasciavano in pace, il suo stato d’animo aveva sempre qualcosa di instabile. Milo lo sentiva gemere come un disperato quando facevano l’amore, poi lo vedeva sedersi sulla sponda del letto in preda a un violento malessere. Mentre venivano fatti diversi tentativi per trovare la terapia giusta, con le medicine aveva avuto grossi problemi a raggiungere l’orgasmo e la frustrazione a un certo punto si tagliava col coltello. Per un certo tempo avevano smesso di farlo, e Milo immaginava benissimo che tutte quelle cose lo preoccupavano. Ma cercare di fargli capire che quella lunga pausa non era un problema per lui peggiorava solo le cose, perché lo faceva sentire consolato e quindi lo feriva nell’orgoglio. 

Milo gli stava vicino, cercava di aiutarlo, di farsi raccontare cosa pensava, soprattutto di farlo mangiare almeno una volta al giorno, ma doveva stare in equilibrio su una linea sottile; se Camus si metteva in testa di essere diventato un problema, un infermo o un fardello — e la questione del sesso era stata un brutto colpo in quel senso — cominciava a parlare di soluzioni drastiche, e di chiuderla lì. La contraddizione di quella situazione era che aveva bisogno di affetto ma, fondamentalmente, se ne sentiva in colpa e allora si ostinava a soffrire da solo, e parlava spesso di smettere di prendere le medicine, affermando che prima di prenderle aveva avuto tutto perfettamente sotto controllo; e probabilmente si sentiva fortemente diminuito sia come uomo che come guerriero a causa di tutti quei problemi. 

Le crisi più forti avvenivano sempre in casa. All’esterno Camus era un vero stoico, e si negava qualsiasi cedimento: bisognava avere davvero occhio per capire che le espressioni dure che aveva in volto erano espressioni di dolore. Tant’è che l’addestramento dei suoi ragazzi non si era mai interrotto, come neanche la loro edificazione — malgrado questo iniziasse nel primo pomeriggio invece che alle prime luci del mattino come prima. Camus era fermamente convinto di avere il dovere assoluto di non mostrare cedimento. Insisteva che i ragazzi erano in una fase delicata e dovevano occuparsi solo di sé stessi, e così con loro negava tutto con grande abilità. Ma quando rientrava la notte, iniziava a star male sul serio.

Ci era voluto circa un anno e mezzo, ma alla fine la situazione si era stabilizzata. Da un lato si erano trovati gli antipsicotici che gli davano meno fastidio, dall’altro si era abituato al clima. Dormiva ancora parecchio, ma aveva cambiato atteggiamento su tante cose. 

Aveva un rapporto di maggior confidenza con Shion malgrado un inizio davvero gelido — e spesso veniva chiamato da lui per poter leggere le stelle insieme, perché Camus era l’unico individuo fra di loro, o così si credeva, ad aver visto Atena. Non era più così freddo nei confronti degli altri cavalieri; effettivamente non è che facesse chissà quali sforzi per entrare in sintonia con loro, ma aveva iniziato ad accettare gli inviti se c’era qualche serata. Allora rimanevano tutti sorpresi del suo senso dell’umorismo e del suo modo di essere fuori dalle righe, che inizialmente era stato interpretato solo come snobismo. Erano cambiate tante cose anche sessualmente. Superato il periodo degli orgasmi che rimanevano sempre dolorosamente in sospeso, gli era venuta una voglia improvvisa di provare cose nuove, e anche da quel punto di vista aveva rivelato la sua natura, che Milo era deliziato di constatare fosse decisamente sporca. 

Tutto bene, quindi, specie da quando i suoi sintomi si erano ridotti insieme con gli effetti collaterali delle medicine. Se non che, circa sei mesi prima, Camus aveva fatto ritorno in Siberia in compagnia dei suoi allievi, perché era arrivato il momento dell’ultima contesa per l’armatura del Cigno. Da quel viaggio Camus era ritornato con un solo allievo, Hyoga, insignito sia dell’armatura che di una tremenda faccia da funerale. 

Ne aveva parlato a Milo in compagnia, anche in quell’occasione, di una bottiglia di vino. 

In tutto il mese che avevano trascorso alle isole Anzhu, Isaak e Hyoga non avevano fatto altro che litigare, così come, del resto, era avvenuto in Arcadia poco prima della partenza: o meglio, era stato più un accanirsi del primo mentre il secondo si ostinava a testa bassa. A Camus risultava che fossero venuti qualche volta alle mani — ma anche in quel caso si era trattato piuttosto di una reazione violenta di Isaak, che Hyoga aveva solo subìto per coscienza sporca. 

In base a cosa gli aveva raccontato Camus, nessuno dei due, crescendo, aveva mostrato di avere motivazioni accettabili per ottenere l’armatura: per uno era una sete di giustizia a dir poco fondamentalista, per l’altro era l’unico desiderio di avere la forza necessaria per tuffarsi nell’abisso artico, sotto una crosta di ghiaccio di cinque metri e in mezzo a correnti infernali, in modo da cercare i resti di sua madre. Ma Camus, che teneva, sia per sé stesso che per loro, molto più all’indipendenza che a qualsiasi altra cosa, aveva adottato un atteggiamento distaccato: alla loro età ci si aspettava che sbagliassero per conto proprio e ne pagassero le conseguenze da soli, e del resto la decisione l’avrebbe comunque presa l’armatura. 

E di questo senza dubbio si pentiva, anche se non lo ammetteva. Negli anni in cui erano stati insieme, Camus aveva fatto diverse concessioni ai propri principi quando si trattava di Milo — specialmente le più grosse concessioni di tutte, cioè appoggiarsi a lui quando aveva bisogno di farlo e parlargli di gran parte di quello che pensava. Ma questo pensiero probabilmente se lo sarebbe portato nella tomba: non essere intervenuto fra i suoi due allievi. Così che Hyoga si era tuffato, e Isaak gli era andato dietro per salvarlo. Il secondo non era tornato indietro. 

Camus insisteva che Isaak non era morto. Riguardo a questo, non sentiva ragioni. Milo lo conosceva troppo bene per pensare che la sua fosse una maniera di lenire il proprio senso di colpa: Camus, infatti, non aveva mai fatto una cosa del genere, anzi, non solo era un perfezionista ma era anche spietato con sé stesso. Invece, su questo, sembrava davvero convinto di quello che diceva. Milo si augurava che avesse ragione. Ma l’altro ragazzo, Hyoga, non sembrava pensarla nello stesso modo. Milo negli anni ci aveva instaurato un rapporto decente, e riusciva a vedere molto bene che si stava torturando. 

« Adesso come sta Hyoga? » chiese Milo, facendo oscillare il calice per decantare.

« Alcuni dicono che l’educazione possa determinare il modo in cui una persona finirà per diventare, » disse Camus, senza rispondergli. « Altri dicono che questa è un’illusione, che lo sviluppo di discepoli e figli è indipendente. Mi chiedo dove stia la verità. Forse saperlo sarebbe utile per capire cosa diavolo è successo ». 

« Senti, non so su cosa ti stai arrovellando adesso, ma i tuoi ragazzi ti hanno sempre voluto un gran bene, il che è davvero notevole considerando tutto quello che gli hai fatto passare, » osservò Milo. « Perché ti preoccupi dell’educazione che gli hai dato? »

Camus prese la bottiglia e riempì il calice a tutti e due — con un gesto che non lasciava alcun dubbio riguardo che fosse protetto dalla costellazione del coppiere degli dei. « Uno è finito a pensare alla giustizia come a un’ossessione, tra l’altro un’ossessione che vale la pena di garantire con la violenza e innaffiare col sangue. Un altro… non ci pensa nemmeno a tutte queste cose. Già dai primi anni il pensiero della madre non gli dava pace, ma era così piccolo, finito a fare una vita così impietosa… pensai che fosse normale. Invece è cambiata poco questa cosa negli anni. L’unica cosa che voleva era fare quel tuffo. E dopo che l’ha fatto… non solo non è rinsavito, ma è peggiorato ».

« Sì, beh, non darti la colpa, » disse Milo. « Sono ragazzini. Tutto quello che provano lo provano in modo radicale. Eri tanto diverso? È chiaro che poi è ancora peggio quando si addestrano per un’armatura sacra. Gli adolescenti prendono qualsiasi cosa e la trasformano in un tratto estremo della personalità ». 

« Hyoga rischia seriamente di finire fuori strada, » disse Camus. Estrasse una sigaretta dal pacchetto, la picchiettò una volta e se la accese. « E questa cosa prima o poi andrà corretta ».

« Non ti sembra di aver finito il tuo lavoro? »

« No, » rispose lui mentre sputava il fumo. « Se lo lascio a spaccarsi la testa contro un muro, non serve a niente che l’abbia vestito di un’armatura, perché è come se fosse nudo ».

« Ma dimmi… » sorrise dolcemente Milo, « non è che stai pensando alla successione dell’undicesima Casa? Sei giovane ».

« Bisogna vedere quanto a lungo lo rimango. Eri tu che avevi un brutto presentimento, o sbaglio? » 

« Cos’hai intenzione di fare? »

« Adesso niente. Ha quindici anni. Crede che il suo migliore amico sia morto per colpa sua, » rispose lui. Il modo in cui teneva la sigaretta era, francamente, troppo sensuale per non farsi venire un pensiero o due.« Qualsiasi cosa adesso sembrerebbe una punizione per la scomparsa di Isaak, o peggio ancora uno scatto di rabbia da parte mia. Ma verrà il momento in cui questo suo cordone ombelicale andrà tagliato. È troppo giovane per vivere incatenato a un cadavere ».

« Mi piace che tu non abbia detto cose come “Niente lo deve distrarre da Atena”, » sorrise Milo, scherzando. « Perché a tutt’oggi non te ne frega un cazzo ».  

« Non è così, » rispose Camus. « Penso solo che non ha firmato un patto a vita. Atena richiede un servizio assiduo che può anche concludersi con la morte, e questo può essere fatto solo volontariamente, non per obbligo, altrimenti non saremmo altro che militari, » spiegò, imponendo alla parola “militari” tutto il disgusto di cui era capace. « Se un giorno Hyoga abbandonasse la fede e l’armatura, non sarebbe la fine del mondo. Ma se rimanesse tutta la vita legato a una donna morta… quello sarebbe un danno irreparabile ». 

« Wow. Sei tipo… super saggio ».

« Sono maestro di due allievi. Non posso permettermi di essere un coglione, ti pare? »

Milo sorrise. Era così che Camus accettava i complimenti: se li scrollava di dosso.

« Sì… »

« Che c’è? »

« Eh? Nulla ».

« Hai detto un “sì” strano ».

« Ma figurati ».

Camus spense la sigaretta nel portacenere. Spesso non le finiva — si stufava prima. « Trovo molto interessante il modo in cui io ho la reputazione di chiudermi in me stesso, essere “enigmatico” e altre fesserie, ma poi il peggiore dei due in questo senso sei palesemente tu ».

Milo gli diede un leggerissimo calcio sul polpaccio sotto il tavolo e cambiò discorso. « Vuoi aspettare l’eclisse qui o la vuoi vedere dal Santuario? »

« Perché temi che, essendo un eremita rincivilito, io abbia fastidio delle folle e dei rumori forti e questo possa causarmi un episodio? »

Milo non si scompose: sarebbe stato un grave errore. Era stato colto in flagranza di reato — ovvero, beccato a preoccuparsi per lui — e mettersi a discutere sarebbe stato un errore da principianti. 

« Ma quale episodio. Sei una favola, » rispose. « No, in realtà… manca ancora un po’ alle sei, e sinceramente prima, mentre guardavi verso il lago, ho iniziato a contemplare il tuo collo e la tua mandibola e ora mi punge vaghezza di scoparti ».

« Questo è uno dei tuoi salvataggi in extremis migliori, » si congratulò Camus con un cenno del capo. 

« Ti ringrazio. Ho dovuto fare molta pratica, avendo avuto la brillante idea di fare coppia con una diva dei ghiacci ».

« Dev’essere un’esperienza davvero dura per te ».

« Guardami negli occhi ancora due secondi mentre fai l’altezzoso, ti faccio sapere cos’altro è davvero duro ».

« Suppongo che dall’undicesima Casa l’eclissi si veda molto meglio che da qui, » disse Camus, fingendo di considerare seriamente la proposta da tutti i punti di vista. « Riesci a tenerlo nei pantaloni fin lassù? Sono tante scale ».

« Beh, i colleghi sono quasi tutti al festival, tranne quelli ovvi. Se proprio non me lo tengo più, vorrà dire che ti scoperò in Casa d’altri, » fece lui scrollando una spalla.

« Questo sarebbe davvero discutibile, forse addirittura infame ».

« Sì, vero? Poi così, alla svelta prima che arrivi qualcuno… hai ragione, pessima idea ».

Si scambiarono un’occhiata maliziosa e un’alzata di sopracciglio. Dopodiché Milo si sporse verso il tavolo accanto: i quattro che giocavano se n’erano andati a finire di ubriacarsi altrove, e alcuni dadi erano rimasti sul tavolo. Milo ne prese due. 

Se li fece ballare sul palmo per qualche secondo prima di chiudere la mano e offrire scherzosamente il pugno a Camus perché ci soffiasse sopra. Dopodiché li lasciò cadere sul tavolo. 

« Decima Casa, » osservò Camus, impassibile.

« Ah, un tempio di virtù immacolata, » considerò Milo. « Posto ideale per scoparti in piedi dietro una colonna ». 

Risero tutti e due mentre si alzavano dal tavolo e si avvicinavano l’uno all’altro, facendo toccare le fronti. 

 

A una certa distanza dal lago congelato, un antico anfiteatro, troppo malridotto per poter essere sfruttato per il suo scopo originario, era in procinto di essere adibito a un piccolo torneo di lotta. 

L’evento spontaneo aveva attratto molti lottatori e lottatrici, entusiasti del fitness e membri della guardia del Santuario che nel tempo libero si dilettavano col sacco da pugilato. Si era anche creato un discreto pubblico, che aveva già occupato gli spalti in rovina. 

Ma nessuno faceva baccano. Nessuno parlava a gruppetti, nessuno vociava per salutare amici in lontananza. Il motivo era che stavano tutti ascoltando una canzone, dalla quale apparivano terribilmente rapiti — totalmente sequestrati, come se si fosse creato un canale che li aveva risucchiati verso il labirinto della galassia. 

Mu era appena arrivato in compagnia di Kiki, e aveva sentito da lontano non tanto le parole o l’esatta melodia, ma una qualità particolare in quel canto. Si soffermò dunque da una parte col proprio allievo, in piedi accanto a una colonna in rovina. Individuò subito la fonte, e si concentrò sulla musica. 

Era una voce strana, per una canzone singolare; l’andamento della melodia era orecchiabile, ricordava per certi versi un fado portoghese, con arpeggi caldi e malinconici, che ora si interrompevano, ora riprendevano con tristissima dolcezza. Le parole erano in una lingua che Mu non conosceva, ma era il timbro a essere davvero notevole: toccava con disinvoltura note caldissime e amare, da basso maschile, poi senza un tremito, dando prova di considerevole estensione, produceva luminose ed emozionanti note da soprano. 

La donna che stava cantando con una voce tanto notevole, sorprendentemente, era una signora anziana… molto anziana, forse addirittura novantenne. Se ne stava sugli spalti, curva sulla chitarra, un po’ gobba. Era vestita di nero e, malgrado il caldo, portava sulle spalle una mantellaccia di lana che sembrava antica quanto lei. Il suo viso era quasi completamente nascosto, in parte dalla tesa di un cappello — un cappello tanto brutto, secondo le parole di Aldebaran, che una donna non se lo sarebbe mai messo — e in parte da un paio di occhiali scuri. Le dita nodose erano adorne di svariati anelli zingareschi, e i capelli erano una treccia grigia. La signora era una specie di macchia d’inchiostro dimenticata così, in mezzo alla festa. E, proprio come una macchia d’inchiostro nero su un foglio variopinto, era impossibile non notarla. 

Quella visione, Mu doveva ammetterlo, l’aveva un po’ preso in contropiede. Non aveva mai visto una donna come quella: così tanto anziana, così tanto indifferente, e al tempo stesso con la schiena piegata e la musica segnata da un tale andamento misterioso; così dimessa nell’aspetto, ma capace senza fatica di calamitare l’attenzione di ogni persona sugli spalti; e in tanti la guardavano come se non avessero potuto farne a meno, malgrado in fondo avessero paura di guardarla. Ma la donna non badava a tutto questo. Cantava una storia che si poteva solo indovinare, e a tratti abbassava la voce, sussurrava, e fermava le corde con la mano artritica aperta; poi riprendeva ad arpeggiare con una profonda, e un po’ aggressiva malinconia. 

Kiki non apriva bocca, e il fatto in sé testimoniava di quanto fosse straordinario il carisma di quell’anziana signora. Gli arpeggi si facevano per un momento ossessionanti, accompagnando una strofa che era come pianto, poi allegri e brillanti come uno scherzo a bassa voce. Il pubblico era muto. Kiki, che da un po’ di tempo si era messo in testa che prima o poi avrebbe imparato a suonare la chitarra, si sorbiva ogni secondo dello spettacolo come se stesse cercando di imparare. 

Così, nessuno si accorse di niente. Dell’odore dolciastro, dell’umore che andava corrompendosi in qualcosa di strano. Semplicemente, il malessere colpì tutti quanti insieme, da un momento all’altro. 

Iniziarono tutti a darsele di santa ragione. 

Gli amici in gruppo si rivoltavano gli uni contro gli altri e iniziavano a prendersi a sberle; qualcuno caricava il vicino di posto e lo buttava a terra, per poi prenderlo a calci; qualcuno saltava come un pazzo per gli spalti, menando pugni a destra e manca senza alcuna valida ragione; i contendenti del torneo che doveva ancora tenersi ignoravano qualsiasi scaletta e si pestavano in una sensazionale ammucchiata; la gente cercava di strappare la lingua al prossimo, o mettergli le dita negli occhi, o prenderlo alla gola, o riempirgli la testa di mazzate; in parole povere, nel giro di trenta secondi avevano tutti perso il cervello. 

Mu stette a guardare pochi attimi, il tempo che gli ci volle per rendersi conto che era subentrata una forma di follia. Poi intervenne senza ulteriore esitazione. Gli ci volle un pezzo per raggiungere tutte quelle menti con la telepatia e trovare il nervo da stuzzicare perché si dessero una calmata, uno alla volta, e nel frattempo il pestaggio generale continuava e si faceva più violento… ma alla fine, furono di nuovo tutti calmi. Sanguinanti, doloranti e disorientati, con gran confusione dei paramedici accorsi sul posto. 

Mu cercò con lo sguardo la signora anziana. Della chitarra non c'era più traccia, ma la signora, in compenso, era in condizioni critiche, con il volto rugoso insanguinato e una vistosa zoppia alla gamba sinistra: per quanto sembrasse assurdo, era rimasta vittima anche lei e aveva preso parte allo scazzottamento. Ma non riuscì a raggiungerla con la telepatia: intorno alla sua mente c’era un muro di negazione talmente possente che era come se la signora non fosse nemmeno esistita in quanto essere cosciente. Mu conosceva solo Saga e Kanon che erano capaci di fare una cosa del genere. 

Mu la raggiunse senza pensarci; cosa che di solito non faceva, ma in quel momento obbedì soltanto a una sensazione impulsiva, con la scusa di sentirsi curioso. Ce n’erano diverse di persone che avevano bisogno di aiuto dopo quel piccolo disastro, e i paramedici stavano facendo fatica a stare dietro a tutti, ma lui per qualche motivo non riuscì a esimersi dal raggiungere la vecchietta, che in quel momento stava cercando molto penosamente di rialzarsi in piedi.

« Signora, la prego, mi permetta, » le disse, cercando di assisterla nel suo tentativo.

Ma la signora gli fece un cenno disinvolto con la mano come per dirgli che non aveva bisogno di aiuto. Mu notò che aveva le falangi rotte: doveva aver tirato qualche pugno bello carico. La donna si issò in piedi rifiutando il suo aiuto, e davvero sembrava stare su per miracolo. Aveva la guancia tumefatta e il labbro spaccato. 

« Lascia, lascia, caruccio. Sto bene, adesso. Fiù… era da quando avevo ottant’anni che non menavo le mani ». La signora parlava greco perfettamente, ma con un forte accento simile a quello del nord del mondo che aveva anche Aphrodite. 

Mu sorrise, conciliante. « Vedo che è in gran forma. Posso accompagnarla da qualcuno? Un suo parente? »

« Oh, sei un biscottino, » osservò leziosamente la signora. Mu notò che sotto gli occhiali da sole portava una benda, ed era quasi sicuramente cieca da un occhio. Ma la lente sinistra degli occhiali era finita in frantumi, rivelando, sotto una montagna di rughe su cui scorreva un po’ di sangue, un occhio di una mai vista, stranamente dolce sfumatura pistacchio che gli si impresse a fuoco nella mente. « Non preoccuparti. Mamma mia, li fanno belli stimolanti i cocktail a questa festa, eh ».

Mu sorrise gentilmente, dissimulando l’effetto che gli aveva fatto incontrare quell’occhio per un attimo. « È sicura di non avere bisogno? »

« A posto, a posto, non ti preoccupare. Sto meglio di quella volta che sono caduta scendendo dal tram. Beh, arrivederci, caruccio ». 

« … Ci conosciamo, signora? »

Un momento di silenzio simile a mancare un gradino scendendo le scale. 

« No, purtroppo no, gioia ». 

La vecchietta se ne andò zoppicando, ma senza servirsi di alcun bastone. La sua andatura claudicante, in quel momento, insieme al colore dei suoi vestiti, la faceva sembrare un corvo che saltellava a terra. Forse era un paragone strano. Forse no. 

Mu rimase fermo a guardarla, senza accorgersi che Kiki lo stava fissando, cercando di interpretare la sua espressione. Ma essa, come succedeva di solito, all’apparenza era serena e non lasciava trapelare nulla. 

« Ma insomma, che sarà successo? Sono tutti impazziti di colpo? E poi cos’era quell’odoraccio? »

« Molto attento, » gli sorrise Mu, riprendendosi subito dalle sue strane riflessioni. « Ho notato anch’io un odore acre e terroso. Cosa ti fa venire in mente? »

« Eh… un veleno? Ma allora il festival è sotto attacco? »

« Non saltiamo a conclusioni. Prima di tutto, anche se prendiamo per buona la teoria del cattivo odore, è necessario capire come la sostanza incriminata si sia diffusa. Questo, forse, ci dirà se sia stato intenzionale. Quali modi conosci per scatenare una reazione così puzzolente? »

« Uh… bruciare qualcosa? No, o una bomba! »

Mu ridacchiò, divertito. « Per ora escludiamo la guerra chimica. La combustione sembra una strada promettente ».

Kiki stette a guardare il suo maestro che si dirigeva verso uno dei bracieri, evitando con grazia le persone sedute sugli spalti; come sempre, quasi tutti si voltavano per guardarlo, e a qualcuno scappava anche un po’ l’espressione da trota rapita dagli alieni. Era l’effetto che facevano alla gente i cavalieri d’oro, anche se giravano per i fatti loro per la strada in maglietta e pantaloni della tuta — o con una semplice camicia bianca e pantaloni larghi color senape di cotone grezzo, come Mu quel giorno. Kiki spesso ci pensava, e si faceva una domanda: davvero si presumeva che in futuro avrebbe fatto anche lui girare tutti con fiducia, ammirazione, rapimento e anche un po’ di timore? A volte, quando guardava il portamento del suo maestro, gli sembrava impossibile assomigliargli un giorno. 

Mu non si ferì affatto quando mise la mano nel braciere acceso e rovistò delicatamente nelle braci ardenti. Kiki sapeva che aveva sempre avuto affinità col fuoco, come il suo maestro prima di lui — e magari un giorno sarebbe riuscito anche a lui fare quelle cose pazzesche che faceva Mu, come sistemare a mani nude la legna in un camino acceso senza bruciarsi. 

Mu tirò fuori la mano dalle braci con in mano uno strano oggetto, forse una sostanza organica mezza bruciacchiata, che aveva secreto sulla sua superficie una bizzarra schiuma dall’aspetto malsano. Kiki vide il suo maestro fare una leggerissima smorfia dopo aver avvicinato il naso a quella roba. 

« Non annusarlo, per carità, » disse Mu con un sorriso disinvolto.

« Ti senti bene? »

« Leggermente belligerante, » ammise lui, scrollando una spalla. « È possibile che abbiamo identificato il colpevole ».  

« Ma cos’è? »

« Un pezzetto di un fungo ». 

« Un fungo? »

« È un’ipotesi. Esistono tipi di funghi con un tale quantitativo di psilocibina da poter spiegare l’allucinazione generale ».

« Mmmh, » fece Kiki strizzando gli occhi, come per studiare il maestro. 

« Che c’è? » ridacchiò Mu. 

« Perché mai ti intendi di funghi allucinogeni? »

« Un telepatico si deve interessare di tutto ciò che influenza la mente ». 

« Per la scienza, naturalmente ».

« Naturalmente. Hai mai discorso telepaticamente, o cercato un collegamento mentale, con una persona intossicata? È un’esperienza molto particolare ».

« Tu non dovresti mica insegnarmi queste cose! » protestò Kiki.

« È vero, » ammise Mu. « Mi assumo la piena responsabilità della tua futura brutta piega ». 

« Ma com’è finito qui questo fungo? »

« Esistono tipi di funghi che non sono fuori luogo a un festival musicale, » osservò Mu.

« Ma qui la gente si è messa a suonarsele, non a essere presa bene ». 

Mu ridacchiò appena: Kiki era un bambino, ma teneva sempre gli occhi aperti ed era molto acuto. 

« Punti di vista. I guerrieri-orso del nord, ad esempio, i cosiddetti berserker, verosimilmente consumano droghe, che qualcuno ritiene siano funghi, per indurre l’estasi. E, nel mentre che staccano teste dai colli a mani nude, immagino si ritengano “presi bene” ».

« Allora qualcuno ha buttato quel fungo nel braciere per farsi una risata vedendo la gente che si menava? »

« È possibile ». 

Kiki fece una buffa faccia sospettosa. Guardò nella direzione in cui la signora di prima era già scomparsa. « Io scommetto la vecchia. Decisamente la vecchia ». 

« Adesso, di nuovo, non saltare a conclusioni. Non tutte le anziane signore eccentriche, estremamente sospette, cieche e vestite di nero sono streghe ». 

« Dai, dimmi i tuoi sospetti ».

« Non lo farei mai. I miei sospetti ti terrorizzerebbero ». 

« Aah, ma dai! » protestò Kiki. 

E stava ancora protestando mentre Mu rifletteva. Nella situazione attuale, era molto difficile credere alle coincidenze. L’accento, non islandese o finlandese… ma asgardiano. La benda sull’occhio. La poesia che aveva cantato. 

Avevano dunque davvero visto Odino? 

In parte sarebbe stato assurdo, perché era bandito dall’Arcadia e non c’era modo per lui di trovare un portale d’accesso dalla Terra, figurarsi varcarlo; per farlo, lui o i suoi guerrieri avrebbero avuto bisogno dell’espressa benevolenza di Atena. La benevolenza verso il nemico mortale di quasi un millennio, in nome del quale erano stati uccisi tanti cavalieri, non sempre con onore.

La tentazione di concludere che fosse impossibile era forte — ma Odino e Atena erano scomparsi dalla circolazione da troppi secoli perché qualsiasi mortale potesse presumere di conoscere le loro ragioni. Mu non era solito mettersi fretta nel classificare le cose come possibili o impossibili, perché raccogliere delle prove richiedeva il giusto tempo; aveva imparato anni prima a tenere sotto stretto controllo il proprio lato impulsivo. 

Ma poi ripensava a quel cavallo. Non doveva ripensarci, lo sapeva che non serviva a niente, ma non poteva farne a meno. 

Quella vecchietta era forse il dio supremo di Asgard — e l’aveva chiamato “caruccio”?

Troppe possibilità e nessuna ipotesi concreta. Ma il suo maestro avrebbe dovuto essere già arrivato al festival per presenziare in seguito al momento dell’eclissi; stando attento a non allarmare Kiki, Mu doveva immediatamente fare rapporto. 

 

*

 

« Toh, il vicino! » vociò Deathmask.

Gli amici che erano con Aiolia pensarono bene di piantarsi appena sentirono la voce del cavaliere del Cancro — come succedeva a tanta gente. Aiolia fu dunque abbandonato sulla prima linea, mentre i cinque ragazzi, quattro dei quali appartenenti al fior della milizia del Santuario di Eunoia, iniziavano a scivolare via lateralmente come granchi. 

« Lo sai, devi lavorare sulla tua guardia reale. Basta guardarli che si spaventano, » osservò il Cancro, beffardo, quando fu davanti al collega. 

« Niente guai, Deathmask, se non ti dispiace, » replicò Aiolia, severo e impassibile. 

Deathmask reagì spintonandolo come un compagnone. « Oh, e piantala di fare il nobiluomo, quanti anni avrai, quindici? Vieni qua, fammi compagnia. Tuo fratello ti lascia bere l’alcol, o l’alone generale di santità lo vieta? »

« Bada a te ».

Deathmask, che doveva essere leggermente ubriaco malgrado fossero le tre del pomeriggio, non si fece troppi problemi per il tono ostile. Indietreggiò di un passo, per prenderlo in giro, alzando le mani come se avesse avuto intenzione di costituirsi. 

« Cazzo, aspetta. Aspetta… ce l’hai un pannolone di quelli che vi mettono all’asilo? Mi sono appena cagato sotto ».

« Sei più molesto del solito. Qual è la ricorrenza? »

« Oh, caro, mi fa piacere che tu l’abbia chiesto, » si commosse profondamente il Cancro. « Ebbene, oggi è il giorno che ho deciso di non giudicare mai più dalle apparenze — perché è una cosa che non si fa — e quindi ho deciso di conoscerti meglio, malgrado la tua apparenza da montato-slash-ragazzo più popolare del liceo ».  

« È un onore troppo grande per me. Passo ».

Tanto categorico fu il tono di Aiolia che quest’ultimo, in breve, si ritrovò cinto di malagrazia dal braccio di Deathmask e trascinato via suo malgrado. 

Senza sapersi spiegare come, anche perché si sentiva piuttosto irritato, Aiolia si vide, poco dopo, seduto al bancone di una chupiteria tutta musica cubana e fenicotteri al neon, con Deathmask accanto che ordinava da bere per due — il tutto tenendo conto davvero molto poco del suo consenso, o della mancanza dello stesso. 

 

Shot bar, fase 1: principio di ubriachezza

 

« Io non so veramente cosa ci faccio qui, » ammise Aiolia più a sé stesso che al suo improbabile compagno di bevute, mentre la barista, non senza gettargli una lunga occhiata un po’ ammiccante, metteva davanti a lui e a Deathmask, seduti accanto, quattro bicchierini pieni. 

« Salute, » disse il Cancro.

Aiolia fece spallucce e butto giù lo shot insieme a lui. Dopodiché, il suo viso si accartocciò in una smorfia di disgusto. « Ma che— cos’è questa roba? »

« Sambuca. Te ne mettessero un po’ nella pappa ogni tanto, te la tireresti meno ». 

« Sembra una di quelle robe che bevono i pensionati dopo pranzo! » protestò il Leone. 

« Bene — almeno, facendo la media, la tua età sale addirittura a 18. Puoi bere tranquillo ». 

Buttarono giù gli ultimi due shot rimasti. Aiolia trovava quella specie di acetone aromatizzato all’anice davvero tremendo, ma ci sarebbe mancato solo di avanzare lo shot davanti a lui, e sorbirsi poi qualche altra battuta. 

Comunque non gli era ancora chiaro il perché di tutta quella circostanza: da quando Deathmask era diventato il suo dirimpettaio anni prima, nel migliore dei casi entrambi avevano fatto finta che l’altro non esistesse, forse nella speranza che questo sogno prima o poi diventasse realtà, mentre nel peggiore dei casi avevano litigato di santa ragione. Nemmeno Aiolos era mai riuscito a spezzare una lancia a favore di Deathmask; in particolare, riguardo alla sua malsana collezione di nemici morti. 

Sapevano tutti, a grandi linee, che c’erano stati molti veri combattimenti nel passato del cavaliere del Cancro — in effetti, aveva avuto una vita diversa da alcuni di loro, da quel punto di vista. Neanche possedere un simile dominio di potere era il problema, perché Deathmask non era il solo cavaliere a coltivare un rapporto col mondo che esisteva oltre la parete. 

Però nella quarta Casa c’erano anime sequestrate e imprigionate, che lasciavano i più perplessi; altri, come Aiolia, erano del tutto inorriditi — passandoci li sentivi piangere, e sembrava che la cosa divertisse Deathmask un mondo… e non si vergognava neanche di aver rapito, senza alcun diritto all’infuori di quello del più forte, anche donne e ragazzini. Semplicemente perché, nella sua visione delle cose, era il vincitore a prendere le decisioni senza doversi preoccupare che fossero onorevoli — e gli pareva che, se aveva la forza per farlo, ne aveva anche il diritto; e che, se qualcuno non aveva la prestanza necessaria per non farsi uccidere da lui, allora non c’era niente di sbagliato nel fatto che venisse ucciso… e non valeva nemmeno la pena chiedersi se era innocente, se aveva commesso l’errore imperdonabile di essere debole. 

La loro prima, memorabile litigata aveva riguardato proprio questo punto. Aiolia allora aveva avuto quattordici anni — veramente, secondo Deathmask li aveva ancora — e a quell’età la sua rabbia era tanto violenta e incontrollata da devastarlo dall’interno. Tra l’altro non era servito a nulla presentare argomentazioni a Deathmask, e nemmeno fargli presente che, secondo i suoi ragionamenti, allora anche caricare dei manifestanti pacifici con i manganelli o occupare con l’esercito un territorio sovrano e sterminarne gli abitanti avrebbe potuto essere giustificato: perché sì, era proprio quello che il Cancro pensava, e anzi ne andava piuttosto fiero. 

Aiolia non ricordava, letteralmente, un’altra circostanza nella propria vita in cui gli fosse preso un simile sdegno: era completamente disgustato. Avrebbe avuto, allora, un gran voglia di salire fino in cima e chiedere al Sacerdote spiegazioni su come potesse indossare l’armatura d’oro e lottare per la giustizia una simile belva, che non era diversa da tanti prepotenti assassini  di cui abbondava il mondo guerrafondaio del genere umano. Ma non l’aveva fatto per orgoglio, perché ci mancava soltanto che qualcuno pensasse che non se la sapeva cavare da solo e che era corso a dirlo alla maestra. Era uscito quella sera tremando ancora di rabbia, e cominciando a pensare, segretamente, che Atena desse i numeri. Questo pensiero, che rischiava seriamente di diventare una crisi con il tempo, lo tormentava ogni volta che pensava a Deathmask — il quale, in sintesi, era la macchia vistosa, impossibile da ignorare, sopra al colore uniforme di tutto quello in cui Aiolia aveva sempre creduto. 

Comunque, da quel momento tra loro due c’era stata una tregua gelida. Perciò, tanto per capirsi… che diavolo voleva da lui? E come mai stavano bevendo come compagni di alcolismo alle tre del pomeriggio?

Deathmask ordinò altri shot, piuttosto di malagrazia. Nonostante questo, la barista non sembrava infastidita. A dire il vero, sembrava che l’atteggiamento da cavernicolo del cavaliere del Cancro la divertisse, il che era un vero prodigio: ma Aiolia sapeva che le bariste erano le creature più temprate e indistruttibili al mondo, abituate, fin dall’inizio di ogni turno, a ogni genere di atrocità. La ragazza mise davanti a loro altri quattro shot a testa, tre pagati e uno offerto da lei. 

« Senti, il tuo fidanzatino non è geloso che vai sempre in giro? Tiene il guinzaglio bello lungo, devo dire, » chiese Deathmask, divertendosi un mondo ad assumere un tono preoccupato e apprensivo. 

« Qualsiasi cazzata tu volessi dire, l’hai detta nella maniera più irritante che si poteva trovare, » commentò Aiolia senza degnarsi di rispondergli. 

« Che c’è? Sono solo sorpreso. Te ne vai a bere e ballare, sempre in compagnia dei tuoi fan, ma il tuo ragazzo lo lasci a casa. Capisco che figuriamoci se gli interessa questa roba, ma è strano, no? I ragazzini quando si fidanzano fanno sempre così sul serio ».

Dal punto di vista del passare il tempo, Aiolia e Shaka erano come il giorno e la notte — nonostante, negli anni, si fossero influenzati a vicenda, e così Shaka si era leggermente più aperto a comunicare almeno con gli altri cavalieri d’oro, e Aiolia era molto più posato e non sentiva l’esigenza di uscire per locali tanto spesso come da adolescente. Shaka non desiderava minimamente accompagnare Aiolia quando usciva con gli amici; al contrario restava volentieri da solo, perché spesso aveva dei momenti, o giorni, o settimane, in cui non voleva essere disturbato. Era stato, quindi, raggiunto un equilibrio che soddisfaceva entrambi, anche se non era stato immediato: i primi tempi che stavano insieme, Shaka aveva avuto nuovamente delle forti gelosie, alle quali a volte Aiolia aveva reagito facendo nascere un litigio. Ma il loro rapporto era nato da un sincero patto di fiducia, ed erano passati cinque anni: erano cresciuti, avevano trovato una formula e andava sempre meglio. 

A parte che una cosa andava detta, certo. Era bastato un po’ di alcol e il solo chiamare in ballo il discorso, e Aiolia si era preso di colpo un po’ male. Adesso del festival non gliene importava più niente, avrebbe voluto essere con lui. Anche senza dire e fare niente, come capitava quando entrava alla sesta e lo trovava a meditare, e si limitava a fargli compagnia. La sambuca stava facendo diventare il suo desiderio di vedere Shaka pericolosamente malinconico. 

Invece, per qualche motivo, era incastrato a bere con Deathmask, e giunti a quel punto sarebbe impazzito se non avesse capito che diavolo di intenzioni avesse quest’ultimo. Scelse quindi di rimanere seduto, almeno per la scienza, almeno per raccontarlo ad Aiolos. 

« Vorrei ripeterti che ho ventun’anni come se tu non lo sapessi, ma lo sai benissimo ».

« Prestino per considerarti sposato, no? »

« Mi dici cosa vuoi? »

« Mi allarmo, da collega più anziano. Dovresti andare in giro a scopare a destra e manca, non fare lo schiavetto di Barbie Siddhartha ».

Come Aiolia doveva ricordare ogni volta che gli stavano per saltare i nervi, la promessa fatta a suo fratello era di non attaccar briga all’infuori del proprio ufficio. Per lo meno, senza un valido motivo. La promessa si era resa necessaria quando, nella pubertà, Aiolia era diventato abbastanza turbolento da vedere ogni insulto come un conto da regolare a pugni. Era stata una promessa molto sensata, che l’aveva aiutato a diventare un cavaliere d’oro e averne anche l’aspetto.

… Ma sì, gli saltarono i nervi. 

Spinse via lo sgabello e si mise in piedi in atteggiamento minaccioso davanti a Deathmask in un unico rapido movimento. Lo guardava negli occhi, e le mani erano già chiuse a pugno. 

« Fatti una sambuca, Deathmask. Sciacquati la bocca, e abbassa la testa. Non stai insultando qualcuno del tuo livello ». 

Il localino si era ammutolito. Tutti guardavano la scena senza battere le palpebre. 

Deathmask, dal canto suo, non aveva modificato nemmeno un po’ la sua espressione strafottente, ed era rimasto comodamente seduto. « Ehi, occhi blu. Pensi di farmi paura? Rimettiti seduto. La frigida di tua moglie disapproverebbe se ti vedesse perdere la pazienza ». 

La presenza o meno del famoso “valido motivo” restò oggetto di dibattito nella testa di Aiolia forse solo per altri due secondi, dopodiché il cavaliere perse completamente la pazienza. 

Quando indietreggiò da Deathmask di qualche passo con intento chiarissimo, quello non se lo fece ripetere due volte e si alzò a sua volta, ostentando svogliatezza. 

Intorno ai sue si era creato prontamente il vuoto, e gli altri avventori del bar li lasciarono uscire facendo spazio, per poi accalcarsi subito dopo all’esterno per vedere cosa succedeva. 

Non che videro granché: nessun cavaliere sfruttava appieno le proprie capacità in una rissa regolare, ma la cosa si svolse comunque a una velocità impressionante. 

Infatti, un minuto dopo, la scena da drammatica era diventata quasi comica. Deathmask, che era arrivato agli shot precedenti già alticcio da prima, dopo aver ricevuto due pugni ben assestati era senza fiato e ci vedeva doppio, tanto che, nel vedere due Aiolia, salutò allegramente Aiolos malgrado egli non fosse lì; e il suo avversario, che aveva ricevuto un pugno considerevole alla bocca dello stomaco, era pallido in viso, piegato sullo stomaco in preda, sembrava, alla nausea. 

« Ehi, ragazzino, » annaspò Deathmask, cercando nel frattempo il pacchetto di sigarette nella tasca dei pantaloni. « Tregua, ok? Mi scuso per il mio orribile delitto d’onore nei confronti dell’Immenso, questa notte mi percuoterò col flagello e mi inginocchierò di fronte alla Sua immagine, mansueto e contrito, e al posto del pigiama mi metterò il cilicio. Va bene? … ma devi vomitare? »

Aiolia aveva un colorito quasi verdognolo e si premeva una mano sullo stomaco. Pensava, non avrei dovuto farlo. È stato patetico. Ma quanto cazzo lo odio. « Mi torna su, cazzo quanto fa schifo la sambuca ». 

Dapprima Deathmask grugnì mentre si accendeva la sigaretta — operazione non semplice, perché doveva ammettere che il primo pugno del marmocchio gli aveva completamente levato il fiato; poi, vedendo che Aiolia continuava a essere nauseato, alla fine gli venne da ridere. Quando si mise a ridere si allentò anche la tensione da parte degli altri avventori, che capirono che la questione era risolta e tornarono al loro festival. 

« Una giornata proficua. Ho scoperto che i punti deboli del cavaliere di Leo sono la sua bella biondina e… l’anice. Buono a sapersi. Ok, beviamo qualcos’altro, allora ».

« Sì, acqua. Sei ubriaco ». 

« Vieni, vieni ».

 

Shot bar, fase 2: ubriachezza

 

Di nuovo Aiolia si ritrovò seduto al banco accanto a lui, praticamente trascinato da quella situazione assurda. La solita barista guardò con simpatia al labbro inferiore sanguinante del cavaliere del Leone e al livido già violaceo e gonfio sullo zigomo di quello del Cancro. Offrì loro dei fazzoletti, sorridendo con aria saputa. 

Come promesso da un Deathmask stranamente di parola, la sambuca fu eliminata dal menù, e a quel punto la situazione cominciò decisamente a degenerare per quell’ora del pomeriggio; via via si manifestavano sul banco  davanti a loro svariati bicchierini colorati, e Deathmask aveva anche cacciato fuori una canna, che iniziò a fare avanti e indietro fra i due improbabili compagni di bevute.

A un certo punto però Aiolia, al quale girava un po’ la testa e sfarfallavano un po’ gli occhi, non si teneva più dalla curiosità. « Che poi, in definitiva, che volevi da me oggi? »

« Ma niente, principino. Ti ho visto lì tutto tirato in mezzo ai tuoi amichetti e ho pensato, rompiamogli un po’ i coglioni ». 

« Non è che volevi… parlare? » chiese, un po’ scioccato, come se avesse appena appreso che Deathmask intendeva iscriversi a un corso di bachata. L’immagine gli attraversò per un attimo la testa ubriaca e probabilmente gli bloccò la crescita. 

« Che cazzo fai lo sconvolto? Io sono un tipo comunicativo ». Buttò giù un altro shot. 

« Sssì. Sai, ho deciso che da oggi non giudicherò più dalle apparenze. Starò a sentire i tuoi problemi anche se all’apparenza, e probabilmente anche più sotto, sei un sadico squilibrato e assetato di sangue ».

Deathmask incassò quell’invidiabile curriculum come se fosse stato una brezza d’aria fresca, poi scrollò la spalla. « Via, problemi. C’è della roba che non capisco e la cosa mi dà noia, tutto qui ». 

« Della roba o una persona? »

« Ce l’ho scritto in faccia? »

« Abbastanza ».

Giunti a quel punto, sapevano tutti che da anni succedeva qualcosa e, al tempo stesso, non succedeva niente fra Deathmask e Aphrodite. Una di quelle che vengono chiamate situazioni. Nessuno dei due era particolarmente in confidenza con altri cavalieri, quindi non c’erano notizie di prima mano; ma il cavaliere della quarta saliva talvolta fino alla dodicesima, sembrava rimanervi sequestrato per qualche tempo, e poi invariabilmente ridiscendeva dopo questo periodo con una gran brutta faccia. 

Deathmask sospirò facendo lo scocciato, passando la canna ad Aiolia, ma la sua espressione era molto cupa. « Il funzionamento è semplice. Va tutto bene per diciamo un mese. Non facciamo altro che scopare, a volte non usciamo di camera in tutto un giorno ». 

« Ok, mi fa piacere ».

« Poi non si capisce bene che cazzo succede… ma si incazza ».

« La mia teoria è che lo fai incazzare tu ».

« Ti giuro non so come ». 

« Davvero difficile da immaginare, » ironizzò Aiolia soffiando il fumo dalle narici. Si dimenticava le cose che diceva nel momento in cui le pronunciava, e forse stava parlando a voce troppo alta. 

Deathmask, tutto preso dal discorso, non sembrò assimilare la battutina. « Si incazza, inizia a dire di non sapersi spiegare come ha perso tutto questo tempo dietro a un selvaggio, e dice che non vuole più vedermi alla dodicesima se non per motivi di lavoro. Iniziamo a litigare. Tutte le volte ». 

« Quanto male? »

« Parecchio. Non ti dico che finisce a botte, insomma, non— voglio dire— »

« Non gli metteresti mai le mani addosso ».

Deathmask gli prese di nuovo la canna di mano e gli rivolse uno sguardo seccato. « Senti, ora non fare il romantico. Il discorso è questo: io mi sarei anche rotto i coglioni. Cosa vuole, che mi inchini? Figurati ».

« Già, figurati. E allora perché ci ritorni sempre? »

« Ma che cazzo ne so! Mi viene da salire di nuovo fin là, non lo so, e sono tante cazzo di scale… quante cazzo di scalini sono? »

« Fin là dalla tua saranno, mah… novemila? »

« E poi quando arrivi su ti devi scusare tutto per benino, certo, e poi ricomincia tutto da capo come sopra ».

Aiolia considerò che, al contrario, Aphrodite non era mai stato visto lasciare la sua Casa, a meno che non venisse chiamato a un’adunanza o dal Sacerdote; aveva quei due o tre inservienti che si occupavano degli aspetti quotidiani triviali, e non sentiva affatto il bisogno di uscire con la scusa di comprare da mangiare almeno per prendere una boccata d’aria; né, tantomeno, di far visita lui a Deathmask alla quarta Casa. D’altra parte, era in linea col personaggio: Aiolia non ce lo vedeva proprio Aphrodite, per quel poco che lo conosceva, a scarpinare per recapitarsi a domicilio ad alcunchì. 

« Sembra impegnativo, » riassunse.

« Vuoi che ti spacchi il bicchiere in fronte? »

« Non è che magari, la butto lì, state troppo a letto e parlate poco? »

« Hai qualche altro consiglio da nonna? »

« Sai, perché io mi riesco proprio a immaginare te che a un certo punto rovini la magia con una battuta di merda da rustico, che potresti evitare se lo ascoltassi di più ». Stava iniziando a suonare un po’ come suo fratello, a volte. 

« Senti, lo sto a sentire. Parliamo. Lo ascolto quando suona il violino. In altre parole, faccio tutto come si deve fare ».

« Fai addirittura il minimo sindacale? Sono colpito, » ironizzò Aiolia. 

« E il caffè a letto, e cucino sempre io… » puntualizzò Deathmask, comicamente offeso. 

« Vabbè, fra uno svedese e un italiano chi deve cucinare, lo svedese? »

« Sì, sì, bravo, però poi l’olio gli piace così, il sale gli piace cosà, il pesce lo mangia solo se non si vedono zampe, pinne, teste o occhi, la carne la mangia solo cotta in un certo modo, il coniglio gli fa impressione, la pasta lo fa ingrassare… »

« Sembra… intenso ». 

« Tutto questo per dirti che faccio tutto perfettamente a puntino ».

L’ultimo discorso, tradotto dal deathmaskese, ventilava una diagnosi chiara: il disgraziato ci era completamente sotto. Difficile dire se fosse innamorato — Aiolia faceva ancora un bel po’ di fatica a considerarlo capace… ma forse, in un suo modo orribile, anche lui poteva rimanere vittima di una folgorazione. Non che questo redimesse il personaggio, ma era la prima volta in anni interi che Aiolia attribuiva a Deathmask una sfumatura. 

« Evidentemente no ».

« È perché è impossibile fare la cosa giusta con lui ».

« Sei senza speranza ».

Anziché arrabbiarsi, Deathmask esitò un momento, come se si stesse facendo scrupoli. « C’ha questi sbalzi d’umore che non capisco. Non capisco, proprio. Gli cambiano gli occhi ». 

Aiolia fissò lo sguardo sul rimasuglio di canna mentre cercava di interpretare il tono del collega, e il motivo per cui sembrava così cupo — quando era un po’ fumato si fissava sempre su quella roba emotiva. Eppure, Deathmask gli sembrava un po’ di cose che non avrebbe dovuto essere: preoccupato, forse, addirittura ferito. 

« Hai provato a chiedergli di spiegarteli? »

Non gli rispose. Evidentemente, anche gli psicopatici a volte si chiudevano nei propri pensieri. 

« Beh, se ti sei rotto i coglioni smettila di tornare lassù. Sennò, la prossima volta che ci torni, devi cambiare atteggiamento ».

« Perché devo cambiarlo io? »

« Perché se tutti e due vi fate questa domanda, non lo fa nessuno e la situazione non si smuove ».  

« È che all’inizio sembra che sia tutto preso da me, poi a un certo punto non mi può più vedere e sembra che mi abbia solo usato ».

Aiolia pensò che ci poteva anche stare, considerando che si parlava di Aphrodite; ma gli parve meglio non dirlo. Adesso si sentiva fin troppo rilassato per cercare rogne. Decisamente rilassato. Avrebbe anche potuto addormentarsi lì in un angolino. « Tu ti rendi conto che questa roba la devi dire a lui, non a me? »

« Sì, hai ragione, moccioso. È solo che sei il mio vicino preferito e ti voglio tanto bene ».

Irritato, Aiolia prese l’ultimo shot rimasto da bere e glielo sbatté davanti. « Bevi e piantala ».

« Oh, andiamo, ce l’hai ancora con me? »

Aiolia non raccolse la provocazione, stavolta. Gli parve più signorile tacere. 

Del resto la situazione era assurda, perché a guardare solo quel pomeriggio Deathmask era anche divertente, e, che gli piacesse o no, era pur sempre un suo compagno, ma c’erano fin troppe cose di lui che non si potevano tollerare. Era, insomma, una situazione in cui andavano fatti tanti strappi alla regola. Non era proprio la specialità di Aiolia. 

Intanto i bicchierini continuavano a sfilare sul banco — e uno poteva avere tutta la resistenza innata di questo mondo, ma gli stava cominciando a ballare tutto. 

 

Shot bar, fase 3: sbronza conclamata

 

« Oh, ma che c’hai? La sbronza triste? » chiese Deathmask con tono beffardo, e a voce molto alta: era sbronzo. Perfettamente pieno. 

« Lasciami stare, » bofonchiò Aiolia, che non era in condizioni tanto migliori. 

Fece poi una buffa faccia risentita quando Deathmask cominciò a scrutarlo da vicino come un etologo scruta un pinguino nel suo habitat naturale. Per sottolineare meglio il fastidio, gli fece il dito medio stampato proprio in faccia. 

« Oh, no, povero… altro che triste, hai la sbornia arrapata, di quelle tutte tenere, » diagnosticò Deathmask alla fine. « Sei in procinto di fare un piccolo saltino a velocità luce fino alla sesta ». 

Aiolia non rispose. La cosa positiva era che l’avrebbe smaltita rapidamente, come il suo corpo smaltiva rapidamente qualsiasi cosa. Infatti, anche i lividi della scazzottata stavano già guarendo. 

Ma per ora si sentiva uno straccio. La testa girava, il bar ruotava attorno al proprio asse verticale e lo sgabello su cui era seduto si produceva in giri della morte. 

E sì, aveva proprio quel tipo di sbornia. Gli sembrava di impazzire. Sentiva la mancanza di Shaka come se l’avesse visto l’ultima volta otto anni prima. Più ci pensava e più il cervello gli girava su sé stesso — più pensava a lui sdraiato, che si muoveva e gemeva, o bastava pensare anche a qualcosa di molto più innocente, alle sue dita fra i suoi ricci, al suo profilo, al suo profumo. 

« Vai, vai, non ti trattengo. Ti perdi l’eclissi, ma secondo me non te ne frega un cazzo in questo momento ».

« … no, aspe’, » negò però Aiolia, cercando di avere una voce da persona normale e non da ubriacone. 

« Che è? » biasciò Deathmask.

Si verificò la scenetta, abbastanza comica vista dall’esterno, di Aiolia che piantava, tutto serio, la mano sulla spalla del collega; e quello, altrettanto compito anche se ci vedeva di nuovo doppio e oscillava pericolosamente, ricambiava il gesto cameratesco con fiducia e trasporto.

« Tu hai bisogno di aiuto, » disse Aiolia. 

« Me ne rendo conto, » ammise Deathmask. 

« Voglio dire, per cominciare sei pazzo. Sei una persona di merda, un sadico, forse sei psicopatico e non servi affatto Atena, sei solo un opportunista attaccato al potere e prima o poi, se non cambi strada, l’armatura ti lascerà in mutande ». 

Deathmask annuì con una smorfia di approvazione, come a fare un bilancio. « Che strano. La stessa cosa che dicono le facce sulle pareti. Fra te e loro, siete una lagna continua ».

« E in secondo luogo sei… praticamente il più grosso zerbino sulla faccia della terra ».

« Se lo dice il massimo esperto mondiale… »

Aiolia incassò. Un po’ se lo meritava. 

« Tu sei innamorato di lui? »

« Hai bisogno di saperlo per decidere se nel mio cuore di pietra c’è ancora qualcosa di umano, o qualcosa del genere? »

« Già ».

Deathmask fece spallucce. I due interruppero il gesto e si liberarono a vicenda dalla presa.  

« Beh, non vorrei darti una delusione, ma qualsiasi sbrodolata romantica ti sia venuta in mente adesso, sei fuori strada ». 

« Ma davvero ».

« Forse mi dà solo al cazzo essere messo da parte. Tipo ferisce il mio orgoglio virile, » ipotizzò Deathmask. 

« Mh-m, ok, allora auguri ».

Deathmask si batté un paio di volte le mani sulle ginocchia. « Ehi, marmocchio, » disse bruscamente.

« Che vuoi? »

« Cosa devo fare secondo te? »

« Sei innamorato? »

« Pfff, sì, sì. Cazzo ».

« Allora l’orgoglio ficcatelo in culo. Ogni volta che esce appena, tac, tu lo prendi, e te lo ficchi subito in culo. È importante che tu faccia questa cosa prima di aprire bocca ». 

« Tutto qui? »

« Tutto qui ».

« Bene ». 

« Ok ».

Durante la pausa che seguì, entrambi raccolsero le forze per alzarsi in piedi. In un modo o nell’altro, quel pomeriggio surreale era finito. 

Se non che, una volta che si fu messo in piedi, Aiolia si rese conto che il pavimento sgroppava come un cavallo imbizzarrito, il soffitto andava e veniva a a onde, la barista era quattro bariste, gli altri avventori camminavano a testa in giù sul soffitto; per non parlare del trapano sulle tempie.

« Scommetto che non ce la fai a correre fino al Santuario a velocità della luce. Anzi, nemmeno del suono. Scommetto che vomiti, » lo sfidò Deathmask. Bisognava ammetterlo, nonostante fosse sbronzo e camminasse a gambe larghe per non cadere continuava a non calare la cresta — era davvero uno stronzo pieno di energie. 

« Non fare il coglione. È una distanza pericolosa ».

« Ooh, è vero, è pericoloso, ma noi non glielo diciamo alla mamma, non ti pare? Anche perché, pure volendoglielo dire—  »  

« Ok, hai rotto il cazzo ».

Nessuno seppe da che parte fossero andati: a un tratto, erano semplicemente scomparsi.  

Notes:

*

- This fic is an AU, not in the sense of a high school AU or some such, but in the sense that we start from the same concept and similar premises to end up in a completely different direction. Also Saga hasn’t gone mad (yet) and Aiolos and Shion are still alive.
- This long fic is part of a series set in a multiverse of my creation based on the principles of alchemy/medieval astrology. In this multiverse, worlds were created via the power of dreaming and imagination from a Creator no one knows, but which is heavily implied to be us humans on Earth, the only world in the multiverse in which there is no magic. The main event in the past of this multiverse is the supreme god, Saturn, going mad after creating the philosopher’s stone, shutting down a universe of worlds which were once connected; the worlds become isolated, with no notion of the existence of other worlds, and they become consumed, one after the other, by the principle of Nigredo and the contamination of black bile — which is a bit of an allegory for my own struggle against psychotic bipolar disorder. The other higher gods use the remainder of the stone to create four Knights of Cydonia to kill Saturn, and this is the main quest in Knights of Cydonia, a long fic set in the worlds of Baldur’s Gate 3, the Witcher 3, Ghost of Tsushima and Final Fantasy VI. In this Dionisomachia, Saturn is very present and is behind very important events, but he’s not the main villain, because only the Knights of Cydonia can hope to kill him. Anyway the fact that we’re in the multiverse explains why the first three chapters are set in a different world, the world of demigods, and why even Elden Ring appears for a couple of scenes. As far as the Saint Seiya world is concerned, it’s not Earth though it shares almost the same history, because this world too was dreamed by a human.
- It is NOT NECESSARY to read Knights of Cydonia to read this fic, the premise I made here is more than enough I think.
- The reincarnation of Athena is not Saori, because I wanted to try a completely different character. Asgard also gets his own reincarnation of Odin. In this AU, Odin and Athena haven’t reincarnated in many, many centuries, and Athens and Asgard ended up being at war against each other due to too much corruption.
- I’m a big sucker for mythology, which I believe shows pretty much everywhere; I’m also a huge fan of postmodernism and any kind of literature which features heavy contaminations, which is why I played rather hard with Saint Seiya characters and their backstories and placed them in rather different contexts (this is especially noticeable with Camus’ backstory in soviet Siberia, or the fact that everyday normal things are included in the lives of gold saints, toning down solemnity a little bit)
- I also took my liberties with ages, because the official ages simply didn't work with the story. So everyone has a different age here.
- So overall I experimented a lot which might not be to everyone’s liking. I still tried to keep everyone in character, while they try to reconcile their being human with their holy mission.
- Please keep in mind that I’m very lazy on AO3 due to my life being a huge busy mess, so it’s very likely that, if I’ve posted like 2 chapters, I actually have 10 ready which I simply haven’t posted yet — so if you’re interested in reading more without waiting for me, just drop me a line :)
- Thank you for being here and reading all this ç_ç

NB: Gold saints appear from the start but they begin their actual journey from chapter 5. Up until then, it’s mostly the story of Athena and Odin.

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