Chapter 1: Prologo
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Nello spazio profondo, il tempo non scorre come nei mondi abitati.
I giorni non hanno albe né tramonti. Le stagioni non conoscono fioriture.
Là dove la luce si spegne e il silenzio regna, ciò che è stato non muore mai davvero.
Cinque anni erano passati dalla sconfitta di Honerva.
Cinque anni dalla fine di un’era di dolore e controllo, spezzata dall’unione dei cinque Leoni e dei loro Paladini.
Cinque anni in cui la galassia aveva tentato, con mani tremanti e cuori stanchi, di ricostruirsi.
L’Alleanza dei Pianeti Uniti era sorta su fondamenta fragili: patti forgiati in fretta, rivalità antiche mascherate da strette di mano, cicatrici profonde coperte da parole diplomatiche.
Un’utopia in costruzione, figlia della cooperazione tra civiltà che un tempo si guardavano con sospetto o timore. Pianeti distanti, ora vicini. Ex nemici, ora alleati.
Ma la pace non è mai silenziosa.
È fatta di voci spezzate, di vecchi rancori mascherati da sorrisi cordiali. Di promesse che nessuno ha davvero intenzione di mantenere.
E tra quelle voci… qualcosa ha iniziato a sussurrare. E a tramare.
Poi, accadde.
In un settore dimenticato, oltre le vecchie rotte Galra, qualcosa si aprì.
Un’anomalia tra le nebulose di Kelura e il settore morto di Viros. Un varco privo di coordinate, che attirava ogni cosa al suo interno: navi, satelliti, segnali.
Le prime sparizioni passarono inosservate. All’inizio, nessuno ci fece caso. Lì non c’era nulla. Solo detriti. E silenzio.
Poi, una nave da esplorazione scomparve.
Poi due. Poi quattro.
Le sonde inviate riportarono solo frammenti dei registri di bordo: voci sovrapposte, messaggi spezzati, urla smorzate dal tempo.
«Luci… violacee… stanno…»
«Le pareti… si stanno muovendo…»
«Rimanete uniti…»
Qualcuno comprese che non si trattava di un fenomeno naturale. Non era un buco nello spazio.
Era una presenza. Una coscienza collettiva, nata dai resti di una tecnologia che l’universo non ha mai veramente compreso. Scarti Galra. Quintessenza corrotta. Ricordi spezzati.
Un’entità che non vive. Non pensa. Ma ricorda. E tra quei ricordi… c’è un nome. Cancellato dalla storia.
Uno che non dovrebbe più esistere.
E tra le interferenze… parole sconnesse. Nomi dimenticati. Immagini confuse. Quattro parole, ripetute ossessivamente, come un’eco nella mente degli ultimi superstiti: «Voltron… avrebbe potuto proteggerci!»
Ma i Leoni erano muti da cinque anni.
Come se avessero chiuso gli occhi. Come se si fossero voltati dall’altra parte.
C’è chi dice che dormissero. Chi crede che avessero scelto il silenzio.
Ma chi li ha conosciuti, sapeva la verità: i Leoni non obbediscono a nessuno.
Non sono armi. Non sono veicoli. Sono esseri senzienti, custodi di un potere che va oltre ogni comprensione. E ora… sentono l’eco di qualcosa che li turba. Un’ombra antica. Un errore che non hanno mai perdonato.
Ma l’universo non resterà immobile.
I Paladini, un tempo dispersi tra le stelle, sentiranno il richiamo. Saranno messaggeri, guerrieri, portatori di luce… o semplicemente uomini e donne in cerca di redenzione.
Perché ciò che sta arrivando non vuole dominare. Vuole essere riconosciuto. Vuole ciò che crede di aver perso.
E non si fermerà finché non lo avrà ottenuto.
Chapter 2: Capitolo 1 - Il richiamo dei Leoni
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Lance
Fattoria McClain, Varadero, Cuba – Pianeta Terra
Il sole era già alto quando Lance finì di legare l’ultimo ramo di pomodori al sostegno.
Aveva le mani sporche di terra e il cappello calato sugli occhi, ma il sorriso – quello non lo aveva mai perso del tutto.
La vita da contadino non era mai stata nei suoi piani. Eppure, col tempo, aveva trovato una strana forma di pace in quella routine: alzarsi presto, lavorare sotto il sole, ascoltare il mare in sottofondo.
Niente combattimenti, niente flotte, niente quintessenza.
Solo la terra. Solo casa.
Terminato il giro dell’orto, si avvicinò al piccolo altare che aveva costruito sul bordo della scogliera.
Niente di solenne: qualche pietra, una conchiglia, una fotografia incorniciata con legno locale di lui e Allura, insieme durante il loro primo – e unico – appuntamento.
Ogni tanto le portava un fiore, non per devozione ma per affetto.
«Ehi, principessa…» mormorò, sedendosi sull’erba accanto all’altare. «Il tempo oggi è perfetto. I pomodori stanno finalmente dando segni di vita. E mamma non ha ancora scoperto che ho rovinato la sua padella preferita, ieri sera. Sto migliorando.»
Restò a lungo a guardare il vuoto. Il vento gli scompigliava i capelli.
Era invecchiato, certo. Non fuori – dopotutto aveva solo venticinque anni – ma dentro sì. Aveva smesso di cercare gloria. E, lentamente, aveva iniziato a perdonarsi.
Si alzò, batté le mani sui jeans e fece per tornare verso casa, quando un suono – lontano, quasi impercettibile – lo fece voltare. Un rombo ma non era né un aereo, né una nave terrestre.
Era… familiare. Troppo familiare.
Alzò lo sguardo. Un punto luminoso tagliava il cielo azzurro, lasciandosi dietro una scia bianca. Strano! Nessun passaggio orbitale era previsto quel giorno.
Lance socchiuse gli occhi e allora lo sentì. Non era una voce, non erano parole… era un richiamo. Breve, intenso e profondo come se qualcosa lo avesse sfiorato da dentro.
Portò una mano al petto. Non aveva paura. Solo un pensiero, limpido come l’acqua.
Blue?
Quella notte il vento soffiava dal mare. Lance dormiva con la finestra aperta, la brezza salata che muoveva appena le tende ma il sonno, che di solito arrivava rapido, si rivelò inquieto. I sogni lo presero piano, con mani fredde e immagini sbiadite.
All’inizio, solo buio.
Poi si ritrovò immerso completamente in acqua. Lance fluttuava in un’enorme distesa azzurra, profonda, immobile, ma non respirava. Non ne aveva bisogno… era come essere a casa.
Una luce calda e familiare poi lo attirò verso il fondo.
BLUE!
Il suo Leone. La sua ragazza giocherellona, che lo aveva scelto quando era ancora un ragazzino pieno di paure, era lì, sul fondale. Immensa e silenziosa.
Gli occhi spenti, ma non vuoti. Come quando si erano incontrati la prima volta, Lance sentiva che lo stesse osservando.
E sentiva che qualcosa – o qualcuno – stava cercando di svegliarla.
Una figura emerse dalle profondità dell’oceano, danzando eterea tra le correnti.
I capelli bianchi fluttuavano come fili di seta, intrecciandosi all’acqua come in una coreografia dimenticata.
Il viso era sereno, dolce… proprio come lo ricordava.
Come se gli anni, il dolore, il sacrificio… non avessero mai sfiorato il suo volto.
Allura.
Non era reale, Lance lo sapeva. Eppure il cuore si strinse lo stesso.
La riconobbe non solo con gli occhi, ma con ogni fibra del suo essere… come si riconosce una melodia amata. Come si riconosce casa.
«Stai bene?» chiese piano, con voce rotta, incapace di trattenere le lacrime.
Lei non rispose subito.
I suoi occhi, brillanti come il cielo di Altea prima della guerra, si posarono su Blue. La Principessa si avvicinò, sollevando una mano. Le sue dita sfiorarono il muso meccanico del Leone, con la stessa delicatezza di un addio.
Blue si mosse appena, come in risposta a quel tocco. Un suono basso, profondo, vibrò nell’acqua, come un canto sommerso da troppo tempo.
«È ora, Lance…» disse infine. La sua voce era calda, decisa. Viva. «Devi tornare.»
«Per cosa?» domandò lui. «Voltron è scomparso. Tu… tu non ci sei più…»
Allura si voltò verso di lui, sorridendo. Non era il sorriso solenne della principessa, né quello malinconico dell’addio. Era il sorriso di chi ha capito, e perdonato.
«Io non sono il motivo per cui sei stato scelto.» fece una pausa. «Ma forse… sono il motivo per cui hai smesso di lottare.»
Una crepa attraversò il fondo dell’oceano. La luce tremolò e Lance capì che il sogno stava per finire. Il silenzio divenne pesante, pieno di presagi.
Blue emise un suono profondo, quasi un lamento.
«Lei ti aspetta.» sussurrò Allura, cominciando a dissolversi. «Non perché ha bisogno di un pilota.» le sue parole erano leggere ma taglienti. «Ma di un cuore. Di qualcuno che ricordi chi è davvero.»
Lance mosse un passo verso di lei, la mano tesa. «Aspetta… non andartene…»
Ma il sogno stava ormai cedendo.
Le onde si sollevarono, violente, il cielo sopra l’oceano si aprì in uno squarcio violaceo, come una ferita.
Una presenza oscura si agitava ai margini della visione, ancora informe ma in crescita. Qualcosa che guardava. Qualcosa che aspettava.
E poi – come un tuono lontano, come un’eco dentro la testa – una voce si alzò. Una voce lontana, distorta, fatta di molte voci fuse insieme: «Rimanete uniti…»
Lance si svegliò di colpo, madido di sudore, il respiro spezzato, le mani strette nelle lenzuola umide.
Per un attimo non capì dove fosse – il sogno lo tratteneva ancora.
La stanza era ancora immersa nell’ombra. Solo il ronzio di un vecchio ventilatore rompeva il silenzio, ma il cuore gli martellava nel petto, sordo, insistente, come se stesse cercando di uscire.
Si alzò lentamente, ogni muscolo ancora contratto, e andò verso la finestra. Fuori, la notte era calma. Il cielo sereno. Le stelle brillavano – così tante, così lontane.
Eppure…
Da qualche parte, lassù, tra le costellazioni, tra le orbite dimenticate e i portali dormienti, dal fondo di un oceano, Blue lo stava cercando.
Lance stava sistemando gli ultimi attrezzi nel capanno quando un improvviso soffio d’aria calda lo avvolse. Non c’era una nuvola in cielo, eppure quel vento gli scompigliò i capelli come quando si trovava sulla scogliera di Varadero.
Un lampo di luce azzurra sfiorò la sua mente, accompagnato da un suono sordo e profondo, come un’eco che usciva dall’interno del petto. Senza pensarci, portò la mano al cuore e, per un attimo, vide la sagoma di Blue: immensa, silenziosa, vibrante come mai, che lo chiamava.
Lance sentì un legame antico, una promessa non mantenuta, un’eco di battaglie e sogni lontani. Poi, la sua mente visualizzò un punto luminoso in mezzo alle stelle catturò la sua attenzione: un’orbita nascosta, segnata da un’energia potente e misteriosa.
Il richiamo si fece comando: «Trovami.»
Lance si ammutolì, il cuore che martellava forte, gli occhi colmi di un’ardente determinazione. Non era più solo un contadino a Varadero. Era un Paladino. E qualcosa nell’universo gli stava chiedendo di tornare.
Rimase immobile per qualche istante, la mano ancora posata sul petto, come se potesse aggrapparsi a quella voce silenziosa che gli aveva parlato dentro. Il richiamo di Blue non era soltanto un’immagine o un suono, ma un sentimento profondo che riaccendeva in lui ciò che credeva sepolto sotto strati di terra e solitudine. Non era solo un’eco, era un comando chiaro: doveva andare. Doveva ritrovarla.
Una parte di lui voleva ignorare tutto, voltarsi e tornare al capanno, ai pomodori, alla tranquillità. Era più facile. Più sicuro. Ma un’altra parte, quella più nascosta, che tremava nei ricordi delle battaglie e delle risate con i compagni, gli sussurrava che non poteva più tirarsi indietro.
Non era solo nostalgia a muoverlo, ma una nuova consapevolezza, una responsabilità che lentamente prendeva forma dentro di lui.
Guardò il cielo limpido sopra Varadero, cercando una risposta. Sapeva che era arrivato il momento di partire, di lasciare la terra e il mare per tornare a volare, almeno dentro di sé.
Inspirò a fondo, il respiro che si mescolava con la brezza di Varadero. Non sarebbe stato facile, non poteva saperlo. Ma quel richiamo era più forte di ogni paura.
Lance non aveva fatto in tempo a chiudere il portello della piccola nave attraccata dietro al capanno. Il motore ruggì con un suono familiare, profondo e vibrante, un richiamo che sembrava risvegliare ogni fibra del suo corpo. Le mani gli tremavano leggermente sui comandi, non per paura, ma per l’adrenalina che scorreva impetuosa, mescolata a un’inspiegabile eccitazione. Non aveva preparato nulla: nessuna scorta, nessun piano, nessuna destinazione memorizzata. Solo quell’impulso irrefrenabile dentro di sé, una spinta che sfidava ogni ragione e che non poteva ignorare.
Davanti a lui, l’orizzonte marino di Varadero svanì lentamente, lasciando spazio all’oscurità totale dello spazio. Le stelle sembravano lontane, fredde, ma Lance sentiva il calore pulsante di Blue che lo guidava. Non era solo un viaggio fisico: era un salto nel vuoto, un atto di fede.
Improvvisamente, come se il cosmo stesso volesse metterlo alla prova, una tempesta elettromagnetica si scatenò lungo la rotta. Nubi azzurre, scintillanti e turbinanti, si infrangevano contro lo scafo della nave con un fragore muto e inquietante. I sensori iniziarono a impazzire: luci lampeggiavano, dati si sovrapponevano confusi, il radar sparì come inghiottito da un’oscurità elettrica.
Lance strinse i denti, il volto contratto in una maschera di concentrazione e determinazione. Nessun calcolo poteva salvarlo ora, nessuna mappa o strategia. Doveva affidarsi solo a un senso antico, un battito che pulsava dentro il suo petto, il richiamo di Blue che guidava i suoi movimenti. Ogni volta che virava, come per magia, le nubi azzurre della tempesta sembravano aprirsi, lasciando una stretta via libera davanti a lui, un sentiero luminoso attraverso il caos.
Il sudore gli imperlava la fronte, le mani tremavano, ma Lance non esitava. Ogni istante era una sfida, una danza tra il controllo e l’istinto. La tempesta sembrava viva, un guardiano che metteva alla prova la sua volontà. E lui, con il cuore che batteva forte, si faceva strada nel buio, guidato dalla voce silenziosa di Blue che gli diceva di non fermarsi.
Pidge
Laboratori Garrison – Stazione orbitale di Varnex
Katie Holt non credeva nei miracoli.
In realtà, all’inizio non credeva nemmeno nei mostri spaziali, nei leoni meccanici o nei portali interdimensionali, ma si era dovuta ricredere.
Credeva nei dati. Nei grafici. Nelle prove.
Ogni cosa, nella sua vita, doveva avere una spiegazione. Ogni emozione? Un file da archiviare. Ogni silenzio? Una variabile da analizzare.
Forse era per questo che, ormai da cinque anni, non aveva più dormito davvero.
Varnex non era casa.
Ma le somigliava abbastanza da sembrare un compromesso.
La stazione orbitante era fredda, silenziosa, piena di pannelli da riprogrammare. Perfetta.
Katie viveva lì ormai da tempo, a capo di un progetto di mappatura quintessenziale nei settori periferici. La consideravano un’esperta. Dicevano che nessuno ne capisse quanto lei.
Ma la verità era diversa. La verità era che nessuno sapeva davvero niente. La tecnologia Galra non era solo macchine e connessioni ma un sistema nervoso vivente, un’eco di coscienza e potere.
E Katie c’era dentro fino al collo.
Il laboratorio era illuminato da luci fredde, di quelle che ti entrano sotto pelle e cancellano il tempo. Katie – o meglio, Pidge, come continuavano a chiamarla – digitava veloce su una tastiera, circondata da schermi olografici che mostravano rilevamenti e traiettorie di quintessenza residua.
Non stava cercando qualcosa in particolare. Solo… qualcosa da decifrare.
A volte, nella stazione, le capitava di sentire qualcosa. Un battito, un eco metallico lontano, ma quando provava a registrarlo, spariva. Quando cercava di tracciarlo, si dissolveva.
Non era razionale. Eppure… c’era.
Una parte di lei sapeva che non era solo nella sua testa.
«Stai ancora lavorando su quel segnale?» Matt entrò con due caffè. Ne poggiò uno accanto al monitor principale.
«Non era un segnale…» rispose lei, senza alzare gli occhi. «Era un impulso. Decisamente artificiale. Non ne ho mai visti così, Matt. E ora… si sta ripetendo.»
Lui si sedette, sbuffando. «Ti stai aggrappando ai fantasmi.»
Pidge si fermò solo un istante, poi tornò a digitare.
«Katie, hai dormito stanotte?» sospirò suo fratello.
Lei non rispose subito. Stava fissando un monitor. Una frequenza stava oscillando in modo anomalo. Un impulso debole, ricorrente. Ritmico. Ma non abbastanza da sembrare artificiale.
Una volta, una parte di lei avrebbe pensato: è Lei.
Ma era passato troppo tempo dall’ultima volta che Green le aveva risposto. O l’aveva anche solo… sentita.
“Cosa vuoi da me? Perché mi hai lasciata sola?”
Domande che non aveva mai pronunciato ad alta voce.
Preferiva disegnare nuovi circuiti. Ripulire dati. Tenere le mani occupate. I sentimenti erano solo un glitch nel suo sistema.
Matt sospirò, stavolta più forte. «Stai lavorando da diciotto ore. Prenditi una pausa.»
«Ancora cinque minuti.»
«Lo hai detto anche tre ore fa.»
«E infatti, mi sono presa una pausa, no?»
«Sì, di due minuti e quarantatre secondi.»
Katie rimase in silenzio. Sapeva che suo fratello stava sbuffando. Lo faceva spesso, ultimamente.
Forse era stanco di parlare con un’ombra. Ma era più facile così… era più facile quando nessuno si aspettava che tu sorridessi.
Cinque anni.
Erano bastati quelli per allontanarsi da quasi tutto: da Voltron, dai Leoni, dai Paladini… dalle risposte.
Aveva provato a tornare alla normalità, almeno per un po’. Aveva ripreso a lavorare con la Garrison e si era riavvicinata alla sua famiglia.
E a James Griffin.
La loro storia era stata complicata dall’inizio. Non per passione o grandi drammi – quelli c’erano stati, certo – ma per quella costante e silenziosa esigenza reciproca, di sentirsi meno soli.
Più bisogno che amore. Più abitudine che desiderio.
James era stato lì quando tutto sembrava troppo: troppo grande, troppo vuoto, troppo lontano dai giorni in cui Voltron era ancora realtà e i Paladini una famiglia.
Quando ognuno aveva scelto la propria strada, lui era rimasto.
E la capiva. O almeno così sembrava.
Da quando la famiglia Holt aveva iniziato a formare una nuova generazione di Difensori, lei e James avevano cominciato a parlarsi con la stessa lingua fatta di report, missioni, protocolli.
A volte bastava quello. A volte, Katie si convinceva che fosse abbastanza.
James accettava la sua rabbia, le sue ossessioni, la necessità di restare in silenzio per giorni. Non faceva domande. Non cercava di aggiustarla.
E per un po’ era stato comodo ma ogni volta che sembravano trovare un equilibrio, qualcosa si rompeva: una discussione, un malinteso, una distanza improvvisa.
A volte era lei a chiudersi. Altre volte, era lui a sparire.
Poi tornavano entrambi, come due satelliti fuori orbita, attratti da una forza che non era amore.
Solo la paura di perdersi del tutto.
A volte Katie si chiedeva se fosse colpa sua. Se la quintessenza l’avesse cambiata o se anni di guerra e assenza dalla sua famiglia, l’avessero resa troppo tagliente e distante. Dopotutto, aveva trascorso tre anni della sua adolescenza nello spazio, combattendo guerre che nessun ragazzo della sua età avrebbe dovuto nemmeno immaginare.
Adesso erano “in pausa”.
Un’espressione sospesa tra vigliaccheria e tenerezza. Non avevano avuto il coraggio di chiudere davvero… ma nemmeno la voglia di ricominciare.
E forse andava bene così.
Forse, in fondo, Katie sapeva che non sarebbe mai bastato. Da mesi era troppo presa da un linguaggio che nessuno parlava più, ma la verità era che non riusciva a smettere. Non finché qualcosa continuava a vibrare nel profondo dell’universo.
Non finché, nel silenzio, una parte di lei… sentiva.
Su Varnex, Katie Holt era immersa in una montagna di dati, i suoi occhi scivolavano veloci tra grafici, codici e rilevamenti quintessenziali. L’aria nel laboratorio orbitante era fredda, illuminata da luci bluastre che sembravano quasi assorbire il tempo stesso, un luogo sospeso fuori dal mondo, dove ogni suono sembrava distante, ovattato. Il silenzio era rotto solo dal ronzio sommesso delle macchine e dal ticchettio leggero delle sue dita sulla tastiera, un ritmo costante che la ancorava a una realtà fatta di numeri e formule.
Improvvisamente, uno strano impulso attraversò i suoi monitor: non un segnale preciso, ma un richiamo frammentato, una sequenza irregolare di impulsi quintessenziali disordinati e incompleti. Le linee dei dati ondeggiavano, si contorcevano e per un momento tutto sembrò sfuggire al controllo dei sistemi. Katie rimase immobile, il respiro leggermente affannato, come se quell’eco lontano l’avesse colta di sorpresa.
Nel suo cervello si formò l’immagine di un punto luminoso, isolato, sospeso nel nero infinito dello spazio. Quel bagliore pulsava con una forza antica, come un cuore dimenticato che batteva nel silenzio cosmico, un richiamo potente che sfidava il vuoto attorno a sé. Prima che potesse afferrare il significato di quella visione, essa svanì, dissolvendosi nell’oscurità come una stella cadente troppo fugace per essere afferrata.
Katie sentì un nodo stretto alla gola, un peso improvviso e inspiegabile che le serrava il petto. Il cuore cominciò a battere più forte, quasi a volerle comunicare qualcosa di urgente, di vitale, come se qualcosa di molto più grande di lei cercasse di farsi sentire. Era come se Green, il suo Leone, stesse cercando di raggiungerla attraverso il silenzio dello spazio, la sua presenza vibrante e invisibile, un richiamo che attraversava le distanze e il tempo, un legame indissolubile.
Senza volerlo, portò una mano al petto, come a voler afferrare quell’eco profonda, quell’emozione antica che da troppo tempo aveva cercato di ignorare. Nella sua mente, una domanda ronzava insistente, senza risposta: doveva andare? Doveva rispondere a quel richiamo che la chiamava lontano, oltre ogni sicurezza, oltre ogni dubbio?
Pidge dimenticò addirittura di spegnere il banco di lavoro, così immersa era stata nel richiamo improvviso che l’aveva colta di sorpresa. Il laboratorio orbitante rimase a luci accese, con il ticchettio degli strumenti e il ronzio sommesso delle macchine a fare da sottofondo, mentre lei si precipitava verso la navetta più vicina, senza voltarsi indietro. Nessun messaggio di addio, nessuna parola di spiegazione: il cuore le batteva così forte nel petto che sembrava voler uscire, e una mappa invisibile si formava davanti ai suoi occhi, tracciata da una forza che solo lei poteva percepire.
La rotta la guidò dritta in una cintura di asteroidi, un intrico caotico di pietre spaziali avvolte da radici sottili e fiori luminescenti che ondeggiavano nell’oscurità come creature vive. I sensori di bordo, confusi da quell’ambiente unico e quasi magico, non riuscivano a distinguere con precisione la materia solida dalla vegetazione pulsante, e ogni piccolo errore di traiettoria rischiava di intrappolarla in una rete di rocce e piante intrecciate, un labirinto pericoloso e insidioso.
Katie rallentò, trattenendo il respiro mentre i bagliori verdi pulsavano intorno a lei come un respiro calmo e regolare, un ritmo vivo che sembrava scandire il tempo stesso. Lentamente, la sua mente si sincronizzò con quella luce vibrante, e capì che non era un ostacolo da evitare, ma una guida gentile e determinata. Era Green, il suo Leone, che con quel bagliore misterioso le indicava la via sicura attraverso l’oscurità, un faro invisibile fatto di luce e vita.
Hunk
Tunnel minerari – Pianeta Balmera
Quando Hunk decise di restare su Balmera, tutti pensarono che fosse per amore, e avevano ragione. Ma non solo.
Fu anche per respirare. Per fermarsi, finalmente, Dopo anni trascorsi a correre da una galassia all’altra, a rischiare la vita ogni giorno per proteggere qualcuno – o qualcosa – tra guerre interstellari, salvataggi disperati e battaglie in cui un errore poteva significare la fine di un intero pianeta, Hunk aveva bisogno di pace. Di radici. Di silenzio.
Non il silenzio che schiaccia, quello che ti fa sentire piccolo e solo nello spazio infinito, ma il silenzio che ti rimette insieme. Quello che ti permette di ascoltare chi sei diventato, senza dover essere un eroe ogni minuto della giornata.
E Shay gli aveva dato quel tipo di silenzio. Lo aveva accolto senza aspettative, senza doverlo capire per forza.
Con lei, la vita era diventata più semplice. Più lenta. Più vera. E insieme avevano imparato a costruire.
Non solo strutture o impianti minerari – quelli erano il minimo – ma veri e propri ponti tra culture, strade nuove per comunicare, per accogliere, modi per unire popoli che, fino a pochi anni prima, si lanciavano addosso cannonate al plasma con occhi pieni di paura.
Shay aveva la forza delle montagne e la pazienza delle stelle. E Hunk… Hunk era diventato qualcosa che non pensava sarebbe mai stato: una guida. Un ambasciatore. Un simbolo di connessione.
Aveva imparato la lingua delle Balmera, aveva assistito a cerimonie antiche, aveva cucinato con ingredienti che mai avrebbe immaginato potessero stare nello stesso piatto – eppure, tutto funzionava.
La cucina era diventata il suo strumento diplomatico, un modo per sedersi a un tavolo e abbattere le barriere, un pasto condiviso era più potente di qualsiasi trattato. Più sincero. Più umano.
Un dolce creato con alghe di superficie aveva siglato un accordo tra due colonie minerarie rivali. Una zuppa piccante a base di gul pernek fermentato (che incredibilmente ricordava il kimchi coreano) aveva sciolto tensioni diplomatiche che nemmeno tre giorni di negoziati erano riusciti a spegnere.
Nel suo piccolo, Hunk cercava di ricostruire, un piatto alla volta, ciò che la guerra aveva lasciato in frantumi. Ogni spezia mescolata, ogni sapore condiviso, era un tentativo di guarigione.
Un gesto semplice, quasi infantile, eppure profondo. Come se cucinare potesse davvero cambiare qualcosa, come se la pace avesse bisogno anche di odori buoni e tavole imbandite per reggere il peso della memoria.
Ma anche lì, nel cuore pulsante di una nuova civiltà, le crepe cominciavano a farsi vedere.
Tre navi minerarie erano scomparse nell’ultima settimana. Nessun segnale di emergenza. Nessuna richiesta di aiuto. Solo… silenzio. Un silenzio pesante, come quello prima di una tempesta.
Una delle Balmera minori – piccola, giovane, quasi appena nata – aveva iniziato a collassare dall’interno. I guaritori si erano riuniti, avevano letto le vibrazioni, consultato i canti antichi. Ma nessuno riusciva a spiegare il motivo.
Shay lo aveva guardato con occhi preoccupati e gli aveva detto che “qualcosa si era spento” sotto la superficie, che il cuore del pianeta batteva più piano, che c’era un’assenza, un vuoto impossibile da riempire.
E Hunk sapeva perché… lì, sotto la roccia, nascosto nei tunnel più antichi, c’era lui: Yellow.
Era immobile, silenzioso, addormentato da cinque anni.
All’inizio, ogni mese, Hunk scendeva nei cunicoli per parlargli. Gli raccontava della sua nuova vita. Di Shay, dei loro piccoli riti quotidiani.
Della salsa speziata a base di muschio blu che stava cercando di brevettare (anche se alcuni dicevano che odorava vagamente di carburante per motori).
Gli portava aggiornamenti sull’Alleanza, sulle riforme in corso, su cosa combinavano i vecchi amici – quando ne riceveva notizie.
Parlava per ore. A volte rideva da solo. A volte restava in silenzio accanto alla parete di pietra, solo per sentire l’eco dei suoi stessi pensieri.
Ma non aveva mai ricevuto risposta, nessun battito, nessuna vibrazione nella roccia.
Solo quel silenzio denso e profondo, come se il tempo stesso si fosse fermato a trattenere il respiro.
Una volta, in un impeto di frustrazione, aveva colpito la parete del tunnel con un pugno. Si era fatto male. E aveva pianto.
Aveva pianto come un idiota – o almeno così si era sentito – ma forse, in quel momento, era stato solo umano.
Era stato l’unico istante in cui si era concesso di sentire davvero quanto gli mancava tutto il resto. Quanto gli mancavano loro.
I suoi amici. I Paladini. Il caos, il rischio, perfino la paura. Quella famiglia strana e sgangherata con cui aveva condiviso anni impossibili, ma veri.
Da allora non era più sceso nei tunnel. Fino a quel giorno.
Era tornato, quasi per caso, seguendo una sensazione che non riusciva a spiegare.
E lo aveva sentito.
Un suono sordo, profondo, come un respiro trattenuto troppo a lungo.
Ma non era il Leone… era la Balmera stessa.
La roccia e il cuore. Qualcosa sotto la superficie si stava spegnendo davvero, non era solo un sintomo.
Era un segnale. E Hunk lo sapeva.
Sapeva che se Balmera stava morendo, allora stava per accadere qualcosa di molto più grande.
Hunk era piegato su uno dei terminali di controllo nei profondi tunnel minerari di Balmera, la luce fioca delle lampade a batteria che illuminava a malapena le pareti rocciose attorno a lui. L’aria era densa di polvere e umidità, mista all’odore acre del metallo e dei minerali estratti. Il ronzio costante delle macchine si mescolava al silenzio solenne delle profondità del pianeta, un ritmo ipnotico che aveva imparato a conoscere come il battito stesso di Balmera.
Improvvisamente, un ronzio più profondo si insinuò dentro di lui, un suono che sembrava provenire dal suo stesso petto. Era lento, potente, un respiro primordiale che vibrava sotto la superficie della roccia e dentro le sue ossa. Quel suono non apparteneva a nessuna macchina, né a nessun fenomeno naturale che avesse mai sentito. Era come se il pianeta stesso stesse parlando, chiamandolo a sé.
Poi, un sapore metallico e forte gli riempì la bocca, un retrogusto che gli ricordava qualcosa di antico, qualcosa che aveva assaggiato solo una volta nella vita: il ricordo della quintessenza, dolce e pungente, un sapore che parlava di potere e di energia. Un ricordo sopito da troppo tempo, che ora tornava a galla in modo brusco e inaspettato.
Hunk chiuse gli occhi e lasciò che quella sensazione lo attraversasse. Davanti a lui, come un’immagine impressa nella mente, apparve Yellow. Immenso, avvolto da rocce e radici minerarie, immobile e silenzioso, come se stesse dormendo in un sonno profondo, ma ancora vivo, ancora vibrante. Intorno a quella colossale figura, un canto antico sembrava risuonare, una melodia sommessa fatta di echi e vibrazioni, quasi un invito a svegliarsi.
Quel canto gli parlava di un luogo specifico perso nell’universo. Il cuore di Hunk si serrò, un misto di nostalgia e di un peso profondo, come se ogni fibra del suo corpo sapesse che era arrivato il momento di rispondere a quel richiamo.
Non era più solo un minatore, un diplomatico o un amico. Era un Paladino, e quella voce, quel canto, era destinato a guidarlo verso qualcosa di nuovo.
Il respiro di Hunk si fece più lento, più consapevole. Sapeva che quella chiamata non poteva essere ignorata. Balmera, con tutte le sue ferite e i suoi segreti, stava parlando, e lui doveva ascoltare.
Hunk lasciò Balmera con un nodo allo stomaco che sembrava stringergli il petto, improvviso e scomodo come un peso invisibile. La piattaforma mineraria si rimpiccioliva lentamente dietro di lui, e con essa svanivano anche i volti familiari, i rumori del lavoro, la vita semplice e concreta a cui si era aggrappato per sentirsi ancorato al mondo. Non aveva avuto tempo di salutare nessuno, e quel pensiero gli pesava più di quanto volesse ammettere. Ma non era abbastanza da fermarlo. Dentro di sé sapeva che quella chiamata era più forte di qualsiasi paura o rimpianto.
La sua nave virò lentamente e la rotta lo condusse verso una zona pericolosa: vecchie miniere sospese in un campo gravitazionale instabile, un territorio traditore e imprevedibile. Ogni errore, ogni piccolo spostamento sbagliato poteva farlo cadere in un vortice oscuro e senza ritorno, inghiottito per sempre da quelle forze invisibili che giocavano con la gravità e la materia.
Con le mani salde ma attente sui comandi, Hunk inspirò a fondo, sentendo il peso del momento e il battito accelerato nel petto. Si muoveva lento, centimetro dopo centimetro, come se ogni millimetro conquistato fosse una piccola vittoria. Il ronzio basso e profondo che vibrava dentro di lui cresceva ad ogni manovra corretta, un sussurro silenzioso e confortante. Era più di un semplice suono: era un incoraggiamento, una presenza che gli dava forza e fiducia.
Sapeva, senza dubbi, che Yellow lo stava aspettando da qualche parte lì dentro, nascosto tra quelle rocce e quei detriti. Era lì, immobile ma vivo, pronto a risvegliarsi al richiamo del suo Paladino.
Keith
Nave Kharil – Spazio di confine
La Kharil era una nave piccola, veloce e brutta da morire. Perfetta per Keith.
Niente cabine comode, nessuna vera cucina, solo un impulso di manovra che avrebbe fatto impallidire anche le corvette più moderne dell’Alleanza.
L’aveva rimessa in sesto da solo, pezzo dopo pezzo, con le mani sporche e la mente svuotata. Ogni bullone, ogni cavo ricablato era servito a tenerlo lontano da sé stesso.
O almeno, ci aveva provato.
Da cinque anni si muoveva ai margini. Lontano dai pianeti principali, lontano dall’Alleanza, perfino lontano dalle Lame di Marmora, che continuavano a chiamarlo Comandante anche quando non comandava più nessuno.
Recuperava informazioni, scortava convogli, faceva sparire minacce prima che diventassero problemi.
Il tipo di lavoro in cui non servivano parole. Il tipo di vita che non lasciava spazio a pensieri pericolosi.
Perfetto per lui.
Non parlava quasi con nessuno. Non perché non volesse, ma perché non ne sentiva il bisogno.
La galassia continuava a muoversi, a combattere, a ricostruire.
Lui no. Lui restava in volo, come se atterrare significasse ammettere qualcosa. Una resa. Una perdita.
Negli ultimi cinque anni, Keith aveva imparato che non esisteva un “dopoguerra”. Esistevano solo macerie, e chi aveva il dovere di aggiustare le cose.
Lui era diventato uno di quelli. Un ricostruttore silenzioso, il volto che si mostrava dopo che le navi erano ripartite e gli eroi se ne erano andati. La divisa delle Lame non era più un’armatura, ma una seconda pelle.
Non c’erano più missioni suicide o operazioni sotto copertura. Solo villaggi da salvare, terre da bonificare, famiglie da aiutare a seppellire i propri morti.
E Keith era bravo in questo. Forse troppo.
Perché quando lavori abbastanza a lungo tra le rovine, smetti di chiederti se è giusto. Cominci a pensare che è quello che ti meriti.
E poi c’era Acxa.
Si erano incrociati una sola volta, due anni prima, su Daen 6. Missioni diverse.
Poche parole. Uno sguardo lungo. Dopo, si erano rivisti… non per nostalgia, né per romanticismo, ma perché era più facile affrontare alcune cose quando sei in due.
Con Acxa, le cose erano tranquille. Non semplici, ma vere. Condividevano lo stesso sguardo, la stessa memoria, la stessa colpa. Non parlavano molto. Non serviva.
A volte Keith si svegliava e lei era già in piedi, seduta sul bordo del letto, con lo sguardo fisso nel vuoto, come se stesse cercando qualcosa che non c’era più. Altre volte era lui ad alzarsi per primo, in cerca d’aria, come se tutto fosse troppo stretto.
Si amavano? Forse.
O forse stavano solo cercando di non affondare da soli. Di non cedere alla parte di sè che voleva smettere di provarci.
Poi, un giorno, era finito tutto.
Non c’era stato un addio, né una rottura vera e propria. Semplicemente, a un certo punto avevano smesso di cercarsi.
Una distanza silenziosa, che nessuno dei due aveva avuto la forza – o il coraggio – di colmare.
Eppure, sotto tutto quel silenzio, c’era qualcosa che bruciava. Un nome che Keith non diceva mai. Un legame che non riusciva a spezzare.
Red.
Non lo vedeva da cinque anni.
All’inizio lo cercava. Gli parlava. Aspettava.
Poi aveva smesso.
Ora si limitava ad ascoltare.
Ogni tanto, nei sogni, vedeva il fuoco, ma non quello che brucia. Quello che si spegne.
Il segnale era arrivato il giorno prima.
Un impulso energetico isolato, frammentario, proveniente da un settore morto, abbandonato da decenni dopo l’ultima offensiva Galra.
Keith ci era volato sopra per ore, scrutando rovine fuse, orbite crollate, campi di detriti congelati.
Non c’era nulla di vivo. Solo quintessenza residua, contorta, come se fosse stata bruciata e poi spinta a sopravvivere.
Sembrava… un respiro trattenuto.
Poi l’aveva sentita. Non una chiamata, non un messaggio… una voce. Distorta. Spezzata.
Non era Acxa, non era Red.
Solo una parola: «Rifiutato.»
Keith aveva trattenuto il fiato. C’era qualcosa là fuori.
Qualcosa che conosceva i Leoni. Qualcosa che lo odiava per essere stato scelto.
Era tornato sulla Kharil senza dire nulla al comando delle Lame. Nessun rapporto. Nessuna richiesta. Aveva solo iniziato a preparare i dati.
Avrebbe mandato tutto a chi poteva capirli meglio di lui. Forse Pidge, forse Shiro… forse nessuno.
Non si aspettava risposte, solo… altri segnali.
Come Red. Come il silenzio.
Quel giorno aveva aperto un vecchio file. Un diario di bordo di una missione.
La voce di Acxa, registrata tempo fa, gli era piombata addosso con la forza di un pugno. «La lealtà è una scelta…» diceva. «Anche quando ti ferisce.»
Keith si era seduto nel piccolo cockpit, circondato da pulsanti opachi e lamiere stanche, e si era chiesto, ancora una volta, se l’aveva tradita scegliendo di andarsene. O se, forse, quella era stata l’unica volta in cui era stato davvero leale a sé stesso.
Keith si trovava nel piccolo cockpit della Kharil, la sua nave silenziosa e malridotta, circondata dal buio dello spazio infinito. Le stelle scintillavano con indifferenza, mentre lui fissava il vuoto, perso nei pensieri che cercava di scacciare da troppo tempo. L’aria era ferma, rarefatta, e il lieve ronzio dei sistemi di bordo si fondeva con il ritmo lento del suo respiro. La Kharil vibrava sotto di lui, ma quella sensazione familiare non riusciva a colmare il vuoto che portava dentro: un’assenza che neppure le missioni solitarie riuscivano a riempire.
All’improvviso, un ruggito lontano gli attraversò la mente. Non un suono reale, ma qualcosa di più profondo: un’eco antica che pulsava nel petto e nella sua anima, come se ogni fibra del suo corpo fosse stata chiamata per nome. Era il richiamo di Red, il suo Leone, immobile da troppo tempo. Quel richiamo era insieme un grido di dolore e di speranza, un invito a tornare… e una promessa di qualcosa che andava oltre la semplice nostalgia.
Keith serrò le mani sul bracciolo, le nocche bianche per la tensione, il cuore che accelerava come in vista di una battaglia imminente. Un’immagine si accese nella sua mente: Red avvolto in un alone fioco, sospeso nello spazio, che puntava con lo sguardo verso un punto preciso della mappa stellare. Non era solo una visione: vide coordinate, traiettorie, luci che si accendevano come costellazioni disegnate apposta per lui, fino a convergere su un’orbita lontana, ignota. Quel luogo emanava un’energia calda e tagliente, familiare eppure misteriosa, come una lama rovente nascosta nell’oscurità.
Il respiro gli si fece irregolare. Non era soltanto un richiamo emotivo: era un ordine. Una direzione. Red non stava chiedendo – stava dicendo dove andare.
Keith chiuse gli occhi, lasciando che quell’impulso lo attraversasse come una scossa, e sentì una scintilla riaccendersi in lui, la stessa che lo aveva guidato attraverso anni di battaglie. Non sapeva cosa lo aspettasse in quel punto remoto dell’universo, ma sapeva che non poteva ignorare la chiamata.
«Arrivo amico.» mormorò Keith a bassa voce, come se quelle parole fossero un giuramento personale. Senza indugiare un attimo, la Kharil si staccò dal punto di stazionamento, scivolando via nell’oscurità dello spazio. Keith quasi non realizzò cosa stesse facendo, preso da un impulso così forte da oltrepassare ogni logica o pianificazione. Era come se la nave avesse una volontà propria, rispondendo al richiamo di Red più di quanto non rispondesse al suo.
La rotta che seguì non era tracciata su alcun sistema di navigazione convenzionale: era impressa nella sua mente, un percorso segnato da coordinate che solo lui poteva vedere. Ma quello spazio non era affatto sicuro. Si addentrò in un territorio infestato da predoni, pirati dello spazio noti per colpire senza pietà.
Non passò molto prima che due intercettori nemici apparissero dai radar, tagliandogli la strada con manovre aggressive. Keith non ebbe esitazioni. Il combattimento esplose in un turbine di luci laser e manovre rapide, un caos di suoni e vibrazioni che risvegliò in lui il sangue caldo dei vecchi tempi. Ogni istante era vita o morte, ogni scelta poteva significare la salvezza o la fine.
Il cuore di Keith batteva all’impazzata, il sangue scorreva nelle vene con una nuova energia, come se ogni colpo ricevuto o sfuggito fosse un messaggio da Red: “Non fermarti. Non mollare. Io sono qui, e ti sfido a farti avanti.”
Più rischiava, più la visione di Red nella sua mente diventava nitida, solida, viva. Non era più solo un’immagine: era un segno, una sfida diretta, un richiamo a dimostrare che era ancora degno di comandare quel Leone.
Shiro
Accademia Garrison, Area 51, Nevada – Pianeta Terra
L’Accademia della Garrison si estendeva nel mezzo del deserto del Nevada, tra hangar camuffati da strutture militari e torri di controllo che puntavano al cielo. Da fuori sembrava un complesso qualunque, ma al suo interno si forgiavano i futuri piloti dell’Alleanza.
Lì dove tutto era cominciato.
Le sue pareti brillavano di bianco e blu, i corridoi pieni di giovani cadetti, volti nuovi, vite che non avevano mai conosciuto il peso della guerra.
Shiro camminava tra di loro con passo sicuro, il volto sereno, la voce calma. Ma dentro, c’era ancora una tempesta.
A volte si svegliava e non sapeva più chi fosse. Non in senso drammatico – non più, almeno – ma in senso pratico.
Takashi Shirogane: Comandante in congedo, Ambasciatore militare dell’Alleanza dei Pianeti Uniti, marito, mentore, sopravvissuto… ma non più un Paladino.
Cinque anni… cinque anni senza i Leoni, senza Allura, senza battaglie, senza risposte.
Aveva vinto – avevano vinto – eppure, si sentiva ancora spezzato.
Con Curtis, le cose erano stabili. Un amore silenzioso, fatto di piccoli gesti, pazienza, presenza. Ma anche lì… qualcosa si era assottigliato.
La scintilla. La fiamma che ti fa sognare, lottare, sperare.
Restava il rispetto. La cura. Ma anche un filo sottile di distanza, piena di silenzi che nessuno voleva rompere.
A volte Curtis lo guardava come se aspettasse che Shiro tornasse davvero, ma Shiro non sapeva nemmeno da dove.
Aveva smesso di combattere. O almeno, aveva cambiato campo.
Missioni diplomatiche. Accordi. Alleanze da ricostruire. Una guerra fatta di parole, concessioni, compromessi.
Eppure, certe notti, la sua mano protesica formicolava.
Un riflesso. Un ricordo. Un richiamo.
Black taceva da anni. E lui si era convinto che andasse bene così, che fosse giusto così.
Aveva fatto pace con quel silenzio, con l’assenza improvvisa di quella presenza familiare nella mente. Nessun ruggito. Nessuna guida. Solo un vuoto quieto.
Ma, ogni tanto, gli mancava.
Gli mancava quella forza che lo aveva spinto avanti anche quando non aveva più niente da dare. La sua vita ora era fatta di tavoli rotondi, strette di mano e parole misurate in tre lingue.
Curtis diceva che era bravo in questo. Che aveva il dono di far sentire tutti ascoltati.
E lui ci provava. Per Curtis, ci provava.
Vivevano in un appartamento nei dormitori dell’Accademia. Una casa semplice, luminosa. Ordinata.
Una quotidianità costruita con pazienza… quasi vera. Ma c’erano alcuni giorni – sempre di più, in realtà – in cui Shiro guardava fuori dalla finestra e vedeva qualcosa muoversi del cielo. Un’ombra, un eco, un’impressione.
Come se qualcosa stesse tornando.
Il primo segnale era arrivato silenzioso: un rapporto scientifico, freddo e neutro.
Un’anomalia spazio temporale, dicevano. Un buco instabile, apparso e scomparso ai margini della cintura di Parnyx. Un fenomeno raro, ma non sconosciuto.
Eppure, leggendo le trascrizioni, Shiro aveva sentito un brivido corrergli lungo la schiena.
Non era solo un’anomalia, era quintessenza corrotta. Un’energia viva e contorta. Familiare. Troppo familiare.
Pianeti scomparsi. Trasmissioni interrotte. Una galassia che sembrava trattenere il fiato.
E Voltron… non c’era.
Curtis lo aveva trovato seduto sul pavimento dell’ufficio, due notti dopo. Aveva aperto la vecchia valigia. Quella con l’uniforme nera da Paladini. L’aveva richiusa subito, come se bastasse a tenere lontano tutto il resto.
Curtis non aveva detto niente, ma Shiro aveva notato lo sguardo preoccupato e protettivo di suo marito. E aveva avuto paura… paura di perdersi di nuovo.
Eppure… se loro stavano tornando – se lui stava tornando – non poteva restare fermo.
Black non aveva mai risposto. Nemmeno una volta.
Ogni volta che passava davanti al vecchio hangar – vuoto, silenzioso – sentiva un nodo salire in gola.
Era lì che una volta atterrava Voltron. Era lì che, un tempo, tutto cominciava.
Chiudeva gli occhi, respirava e lasciava che i ricordi lo attraversassero: i compagni, le battaglie, Allura… luce e dolore, intrecciati.
A volte sognava la sala del trono. Altre, la propria morte.
Ma l’immagine che tornava più spesso era diversa: un leone nero, immobile, sommerso in un abisso. Occhi spenti. Ali spezzate.
E una voce. Una voce che non era più un ricordo. Una voce che, l’ultima notte, parlò con chiarezza: «Raduna i Paladini.»
Shiro si era svegliato di colpo. Il cuore in gola, la pelle fredda.
E una sola certezza in mente: qualcosa stava tornando. E avrebbe richiesto tutto ciò che restava di lui. Per la prima volta, dopo anni, Black gli aveva parlato.
In Nevada, la notte era calma e il cielo limpido si stendeva come un tappeto di velluto nero trapuntato di stelle. Shiro si trovava sul portico di casa, una tazza di tè tra le mani, il vapore che gli sfiorava il viso. Il silenzio era quasi assoluto, rotto solo dal frinire lontano dei grilli e dal vento che muoveva appena le foglie. Era una pace che aveva imparato ad apprezzare… ma che a volte pesava come un ricordo di qualcosa che non avrebbe mai più potuto rivivere.
Fu allora che sentì un fremito nel petto. Non un battito irregolare, ma una vibrazione profonda, che sembrava partire dal cuore per diffondersi fino alle dita della mano meccanica. Il respiro gli si bloccò. Un’ombra familiare attraversò la sua mente: Black, maestoso e imponente, avvolto in un’aura oscura che scintillava di bagliori argentei. I suoi occhi lo fissavano, severi e fieri, e in quello sguardo c’era un richiamo innegabile.
L’immagine cambiò in un lampo. Vide un settore dello spazio che non riconosceva, una stella pallida e distante, attorno alla quale orbitava un punto preciso: un pianeta o forse una stazione, difficile dirlo. La percezione di Shiro si strinse su quelle coordinate, nitide come incise nella mente, mentre una sensazione di urgenza gli stringeva lo stomaco.
Non era un sogno, non era un ricordo. Il Leone gli stava dando una direzione.
Shiro si alzò lentamente, lasciando la tazza a metà, e inspirò a fondo. Sentì il vento cambiare, come se anche la Terra, in quel momento, avesse smesso di respirare per ascoltare.
«Non ti ho mai ignorato prima…» sussurrò, con un mezzo sorriso amaro. «Non inizierò adesso.»
Senza una parola, in pochi minuti la sua nave era già in orbita. Shiro si sedette nel cockpit, le mani poggiate saldamente sui comandi, i muscoli tesi come corde di violino. Il respiro era calmo, ma il cuore martellava nel petto con un ritmo che sembrava farsi sempre più forte, quasi volesse farsi sentire attraverso la corazza di calma che cercava di mantenere.
La rotta appariva tranquilla… troppo tranquilla. Il silenzio che avvolgeva la cabina era quasi palpabile, interrotto solo dal sussurro ovattato dei sistemi attivi e dal leggero tremolio dei pannelli di controllo. Quando spense i motori secondari, il brusio elettronico svanì, lasciando un vuoto quasi irreale, un silenzio ovattato che sembrava inghiottire ogni altro suono. In quel momento, Shiro si sentì esposto, come se il cosmo stesso fosse in attesa.
Poi, segnali distorti cominciarono a lampeggiare sui monitor: falsi richiami, eco di aiuti inesistenti che tentavano di ingannarlo, trascinandolo verso rotte sbagliate, lontano da ciò che sentiva dentro.
Shiro serrò i denti, le mani che si chiudevano a pugno attorno al bracciolo della sedia, mentre chiudeva gli occhi. Fece un respiro profondo, lasciando che il mondo esterno svanisse. Tutto il rumore, ogni dato, ogni illusione svanì, e restò solo quella vibrazione profonda che partiva dal cuore.
Quando riaprì gli occhi, la rotta era nitida e pulita, come tracciata da una mano invisibile. Non era la tecnologia a guidarlo, ma Black. Il suo Leone, presente in ogni fibra del suo essere, lo stava conducendo personalmente, attraverso il silenzio dello spazio.
Chapter 3: Capitolo 2 - Di nuovo uniti
Chapter Text
Lo spazio era silenzioso, ma non immobile. Nel vuoto infinito, un piccolo punto di luce restava sospeso, fragile e solitario come un faro dimenticato in mezzo a un mare nero e profondo. Quel punto era la destinazione di Lance, guidato da coordinate che parevano più un richiamo che una semplice rotta. La sua navetta, presa in prestito frettolosamente senza tempo per prepararsi, avanzava lenta ma decisa, mentre il motore emetteva un ronzio sottile, quasi esitante, come un cuore incerto che fatica a trovare il proprio ritmo.
«Strano… non c’è nulla qui.» sussurrò Lance, gli occhi fissi sul parabrezza, scrutando un vuoto siderale senza traccia di vita, di stazione o di qualunque segno di presenza.
Poi, d’improvviso, un lampo di luce attraversò il vetro, folgorante e vivido come un fulmine naturale, illuminando per un istante l’oscurità attorno a lui. Non era un segnale digitale né una trasmissione: era qualcosa di vivo, quasi consapevole, che vibrava nell’aria come un respiro.
Pochi istanti dopo, sul radar apparve un’ombra in movimento. Lance si irrigidì, il respiro diventò corto, la mente correva a scenari peggiori: un attacco improvviso, una pattuglia nemica. Ma quando la sagoma divenne chiara, la sua voce si bloccò, incredula e quasi incredula.
Era la Kharil.
Attraverso le comunicazioni, Keith fu il primo a farsi sentire. La sua espressione, dura e concentrata, tradiva però un lampo di sorpresa e un velo di emozione nascosta. «Lance?» disse, la voce tesa ma con un fondo di sollievo e meraviglia.
«Keith? Aspetta… non dirmi che…» La frase di Lance si perse in un silenzio improvviso, mentre un’altra navetta si materializzava sul lato opposto, illuminata da luci verdi pulsanti.
«Pidge?»
«Keith? Lance?»
Seguì un attimo di incredulità condivisa, rotto solo da un nuovo segnale di avvicinamento sul radar. Una presenza massiccia e lenta comparve: un trasporto minerario.
«Hunk!»
La sua voce esplose nella comunicazione comune, vibrante di sorpresa e incredulità. «Non ci credo! Ma che… siamo tutti qui?!»
Poi, infine, la piccola sagoma di una nave terrestre emerse dal nulla. Quella di Shiro.
Per qualche secondo nessuno parlò. Lo spazio sembrava trattenere il fiato insieme a loro, come se l’intero universo fosse consapevole di quel momento fragile e cruciale.
«Ok… qualcuno di voi sapeva di questa riunione improvvisata?» disse Lance, cercando di mascherare l’emozione intensa e strana che gli serrava il petto.
«Io no.» rispose Keith, la voce ferma ma carica di stupore.
«Nemmeno io.» aggiunse Pidge, gli occhi ancora incollati ai monitor, cercando qualcosa.
«Neanche per sogno.» concluse Hunk, con un tono incredulo.
Si scambiarono sguardi attraverso gli schermi olografici, un’intesa silenziosa che non aveva bisogno di parole. Tutti capirono nello stesso istante che non era un caso. Quella convergenza improvvisa, quel raduno inaspettato, non era frutto del destino, ma la volontà inequivocabile dei loro Leoni.
Come a confermare la verità di quel legame, un’onda di energia percorse il punto esatto in cui si trovavano, scuotendo le navi con una vibrazione profonda, antica, che sembrava penetrare fin nelle ossa. Non era una minaccia né un attacco, ma un respiro solenne e potente, un richiamo vitale e immortale.
Shiro serrò la mano sulla console, lo sguardo fermo, carico di una determinazione nuova e incrollabile. «Qualunque cosa stia succedendo… non è finita. E sono sicuro che i Leoni lo sanno.»
Per un lungo istante, nessuno parlò.
Erano solo cinque volti sospesi nello spazio, collegati dalle comunicazioni delle loro navi. Si fissavano attraverso gli schermi come se faticassero a credere che fosse davvero reale.
Cinque anni.
Cinque anni di silenzi, di vite separate, di battaglie interiori combattute lontano gli uni dagli altri. Ora, contro ogni logica, erano tutti lì, nello stesso punto, senza sapere il perché.
Fu Hunk a rompere l’imbarazzo. La sua voce, calda e familiare, tremava appena.
«Non so voi… ma io sicuramente so una cosa. Yellow non è qui. Si trova nelle profondità di un tunnel su Balmera, l’ho visto.»
Gli altri lo fissarono in silenzio, colpiti da quella certezza.
Lance si passò una mano tra i capelli, un sorriso nervoso sulle labbra. «Beh, se siamo in vena di confessioni, io… ho sognato Blue. Era sul fondo di un oceano. E c’era anche Allura che mi chiedeva di andarla a cercare. Sembrava proprio che Blue mi stesse aspettando.»
Katie abbassò gli occhi, sorpresa da quella rivelazione. La sua voce, stranamente, si fece più tagliente del solito. «Hai sognato Allura? Ma era un sogno… o una visione?»
«Cambia qualcosa?» domandò Lance, più per difesa che per altro.
Keith sospirò, visibilmente irrigidito al posto di comando della Kharil. «Ci stanno guidando, ma non da loro… se ognuno di noi ha una destinazione diversa, allora perché ci hanno fatto venire tutti qui?»
Shiro abbassò lo sguardo, riflettendo. La luce dei pannelli si rifletteva nei suoi occhi grigi. «Forse questo è solo l’inizio. Forse… ci stanno preparando.»
«Preparando a cosa?» chiese Pidge, la luce dei monitor che accentuava la tensione sul suo volto.
La risposta non arrivò da nessuno di loro.
Anche perché, in quell’istante, lo spazio stesso cambiò.
Uno squarcio si aprì lento, come una ferita che non voleva cicatrizzarsi. Dal varco filtrava un bagliore violaceo che divorava la luce stessa delle stelle intorno a loro.
Keith sentì un brivido gelido risalirgli la schiena. Non era semplice paura: era la certezza che qualcuno, da lì dentro, lo stesse osservando.
Poi arrivò il sussurro. Non un suono, ma un eco che vibrava direttamente nelle ossa. Parole spezzate, incomprensibili, che si fusero in una voce unica, profonda e piena di odio.
«Paladini… vi stavo aspettando.»
Keith strinse i denti. «Chi sei?!» gridò, come se quell'essere potesse sentirlo.
Nessuna risposta. Solo un ronzio basso e costante che faceva vibrare i cockpit delle loro navi. Poi lo squarcio nello spazio si richiuse, lasciandosi dietro un buio più profondo del vuoto stesso.
Il silenzio che seguì fu quasi insopportabile. I respiri dei Paladini, amplificati dalle comunicazioni, erano l’unico suono rimasto.
Shiro parlò per primo, la voce roca. «Non era un’allucinazione.»
«No!» sussurrò Pidge, gli occhi spalancati e freddi. «Era qualcuno. E ci conosce.»
Lance deglutì, le mani serrate ai comandi fino a farsi male. «Non mi piace… non mi piace per niente.»
Keith serrò i pugni, la mascella rigida, quando un bruciore improvviso gli attraversò l’avambraccio sinistro. Si piegò in avanti, trattenendo un gemito, convinto per un istante che fosse solo tensione. Ma quando abbassò lo sguardo, vide la pelle cambiare davanti ai suoi occhi.
Una linea sottile, violacea, stava comparendo come un’incisione che bruciava dall’interno. Il segno si allargava, tracciando curve e angoli, fino a formare un simbolo che non aveva mai visto, eppure che gli appariva stranamente familiare.
«Keith!» la voce di Shiro ruppe il silenzio, carica d’allarme. «Cosa ti sta succedendo?»
Keith strinse i denti, cercando di coprirlo con la mano, ma il simbolo pulsò con violenza, emettendo un bagliore scuro che illuminò il cockpit della Kharil. Per un istante, sentì Red dentro di sé: il Leone ruggiva, furioso, come per avvertirlo di un pericolo imminente.
«Io… non lo so.» la voce gli tremava, cosa che non gli accadeva quasi mai. «È come se qualcuno mi avesse… segnato.»
Pidge lo fissava, gli occhi brillanti dietro gli occhiali. «Quello non è un segno casuale. È il simbolo del Leone Rosso… ma è intriso di quintessenza corrotta. È come un marchio.»
Lance sgranò gli occhi, la voce incrinata. «Aspetta… stai dicendo che ti hanno marchiato? Che qualcuno… o qualcosa… ha scelto Keith?»
Il silenzio che seguì era denso come una lama sospesa.
Il marchio, intanto, pulsava ancora. Al ritmo lento, inesorabile, di un cuore che non apparteneva a Keith.
Laboratori Garrison – Stazione orbitale di Varnex
I cinque Paladini erano riuniti attorno a un tavolo olografico, con schermi e rilevatori sparsi ovunque, nel laboratorio di Pidge. La tensione nell’aria era palpabile: come se ognuno di loro avesse portato dentro la stanza un peso che non voleva ammettere. Erano passati cinque anni, eppure il silenzio che li circondava era lo stesso delle prime missioni: quello in cui nessuno sapeva se potesse fidarsi dell’altro.
Lance scosse la testa, scuotendo i capelli bagnati dalla doccia appena fatta. Cercava di nascondere la tensione con il suo solito tono giocoso, ma la voce gli tremò appena: «Blue… l’ho sentita. Non è stato un sogno normale, era come se mi stesse cercando.»
Pidge smise un istante di digitare, lo sguardo rapido su di lui, poi tornò alla tastiera con più velocità del solito. Proiettò sequenze di impulsi residui di quintessenza. «Io sono mesi che sto captando degli impulsi… inizialmente pensavo fosse Green, ma non tornano. Sono segnali frammentari. Alcuni deboli, altri più forti. Non hanno mai uno schema fisso, ma… sono chiaramente artificiali.»
Hunk si passò una mano tra i capelli, visibilmente preoccupato. «Su Balmera, la quintessenza sta… mutando. La roccia stessa vibra e il pianeta sembra indebolirsi ogni giorno di più… sembra che si stia spegnendo. Senza motivo, recentemente, abbiamo perso una piccola Balmera.»
Lance sgranò gli occhi, trattenendo il fiato. Pidge alzò per un istante lo sguardo, come se non volesse crederci.
Shiro rimase in silenzio, osservando i dati con le braccia incrociate: «Quindi abbiamo tutti rilevato qualcosa di anomalo.» la sua voce era calma ma lo sguardo nervoso passava da uno schermo all’altro. «Anche noi abbiamo perso diverse navi. Svanite nel nulla. Nessuna traccia, nessun segnale d’emergenza.»
Le luci degli schermi lampeggiavano appena, illuminando i loro volti tesi. Il silenzio si fece pesante, quasi insopportabile.
Keith si massaggiò il viso, come se stesse combattendo con qualcosa che non voleva dire. Restò zitto un attimo di troppo. «Keith?» domandò Shiro, inclinando appena la testa.
Lui inspirò piano, lo sguardo basso, le mani chiuse a pugno. Poi, con un filo di esitazione nella voce, parlò: «Non è la prima volta che succede. Ho già percepito qualcosa di simile.» si fermò, deglutì, e abbassò ancora di più lo sguardo. «Non era Red… ma era un qualcosa legato a lui. Una voce che ha pronunciato una sola parola: “Rifiutato”. E credo fosse stato proprio Red a farlo.»
Non servivano spiegazioni. La parola stessa diceva tutto.
Qualcosa di antico, legato a Red, era tornato. E stava osservando i Paladini.
Il tavolo cadde in un silenzio ancora più pesante. Alla fine fu Katie a romperlo, con voce incerta: «Se tutti noi stiamo ricevendo segnali diversi, non può essere un caso. È come se i Leoni… stessero provando a comunicarci qualcosa. O a difendersi da qualcosa.»
«Difendersi?» ripeté Lance, con un sorriso nervoso. «Vuoi dire che non siamo noi, ad essere in pericolo?»
«Non ancora.» mormorò Hunk, a voce bassa. «Ma lo saremo presto.»
«E se fosse una trappola?» azzardò Lance, aggrottando la fronte. «Non sappiamo cosa ci sia davvero dietro a queste chiamate.»
Keith scattò, lo sguardo duro. «Non possiamo ignorarle. Se qualcuno o qualcosa conosce i Leoni, dobbiamo ritrovarli noi prima che lo faccia lui.»
«E come?» Lance allargò le braccia, esasperato. «Non possiamo aprire una mappa stellare, puntare il dito e dire “Blue è qui, andiamo a prenderla”. Non funziona così, non vogliono farsi trovare.»
Pidge scosse la testa e proiettò sul tavolo una sequenza di impulsi. I dati si intrecciavano, creando un mosaico incompleto. «Non è del tutto vero… forse non possiamo localizzarli con precisione ma ognuno di noi ha un legame con loro. Hunk sa che Yellow riposa dentro una Balmera.» si girò verso il cubano. «Lance, tu hai sentito Blue e sappiamo che giace sul fondo di un oceano. Io sto captando segnali che solo Green potrebbe generare. Keith… tu hai già sentito Red. E Shiro… Black non parlerà con nessun altro se non con te.»
Keith abbassò lo sguardo, le mani strette a pugno. «Non sarà semplice. Se i Leoni ci hanno scelto una volta… possono anche rifiutarci. L’hanno già fatto con quell’essere.»
Quelle parole pesarono come un macigno sul gruppo.
Lance ingoiò a vuoto, senza più ironia nella voce. «E se non ci volessero più?»
Shiro inspirò profondamente, fissando ognuno dei volti davanti a sé. «Allora dovremo dimostrare di meritarli di nuovo.»
In quell’istante, un rumore acuto attraversò il laboratorio: un segnale sconosciuto, più forte dei precedenti, distorse per un attimo gli ologrammi. Sul tavolo, tra le linee di dati, comparve un tracciato improvviso, come se qualcuno avesse “ascoltato” la loro conversazione.
La voce sintetica del computer scandì: “SEGNALE NON IDENTIFICATO. ORIGINE SCONOSCIUTA”.
Un brivido gelò la stanza. Pidge corse sulla tastiera, ma il segnale era già svanito. «Non… non era un segnale casuale. Era diretto a noi.»
«È deciso. Dobbiamo dividerci.» fu Shiro a rompere il silenzio, la voce ferma. «È l’unico modo. Ognuno di noi deve seguire la traccia del proprio Leone.»
Hunk spalancò gli occhi. «Vuoi dire… da soli?»
«Non del tutto.» Shiro scosse la testa. «Ci muoveremo a coppie. Saremo più veloci, e se i Leoni stanno davvero scegliendo, allora risponderanno solo a chi hanno sempre riconosciuto.»
Keith incrociò le braccia, annuendo appena. «Ha senso.»
Pidge alzò lo sguardo dagli schermi. «Io continuo a ricevere sequenze che non appartengono a nessun codice noto. Troppo complesse per essere casuali. L’unica che potrebbe produrre qualcosa del genere è Green.»
«E Blue mi ha… chiamato.» Lance abbassò la voce, ma si fece coraggio. «Non so come spiegarlo, ma so dov’è. O almeno, sento di doverlo scoprire.»
Katie lo guardò di sfuggita, mordendosi il labbro. «Allora andremo insieme.»
Hunk si agitò un po’ sulla sedia. «Yellow è su Balmera. Devo trovare il modo di svegliarlo.»
«E non sarai solo.» mormorò Shiro, con un mezzo sorriso rassicurante. «Shay sarà lì. Ti conosce meglio di chiunque altro.»
Keith si sistemò il mantello delle Lame, lo sguardo duro. «Io e Shiro ci occuperemo di Red e Black.»
Lance si passò una mano tra i capelli, sospirando. «Quindi è deciso. Ognuno di noi va a recuperare il proprio Leone. Ma promettiamo che, qualsiasi cosa accada, ci ritroveremo nello stesso punto dove lo abbiamo incontrato per la prima volta.»
Shiro allungò una mano al centro del tavolo. Per un attimo nessuno si mosse. Poi, uno dopo l’altro, gli altri la raggiunsero.
Le ore successive furono un susseguirsi di preparativi. I corridoi della stazione rimbombavano dei loro passi, e ognuno di loro si muoveva come trascinato da un pensiero più grande. Eppure, in mezzo a tutto quel movimento, riaffioravano anche momenti di silenzio, piccole pause rubate per ritrovarsi davvero, dopo anni di strade divise.
Lance si ritrovò a camminare accanto a Katie, osservandola mentre passava da un terminale all’altro, caricando schede dati e coordinate.
«Quindi, fammi capire: Blue è sul fondo dell’oceano di un pianeta ghiacciato e Green… beh, Green potrebbe essere ovunque?»
«Non ovunque.» ribatté lei, senza smettere di digitare. «I miei segnali puntano a un settore preciso, anche se non si lascia decifrare. Green segue sempre una logica. Devo solo capirla.»
«Logica…» Lance fece un mezzo sorriso, appoggiandosi al muro. «E io che pensavo di poterla convincere con il mio fascino.»
Katie sollevò lo sguardo, gli occhi che brillavano dietro le lenti. «Magari potrà funzionare con Blue, ma se vuoi che Green ti prenda sul serio, ti servirà ben altro.»
Lui rise appena, poi il sorriso gli si spense sulle labbra. «Sai… mi fa strano. Sono passati cinque anni e tu sei sempre… tu. Solo che adesso sei praticamente la scienziata più importante dell’Alleanza.»
«E tu?» ribatté lei, abbassando lo sguardo sullo schermo. La sua voce aveva un’ombra tagliente. «Hai davvero appeso la tuta da pilota al chiodo per fare il contadino a Varadero?»
Lance si strinse nelle spalle, accennando un sorriso amaro. «Già… ma sai com’è. Volare con le navicelle terrestri non è nemmeno lontanamente come farlo su un Leone meccanico gigante.» un velo di malinconia gli attraversò lo sguardo. «E poi… non ho mai smesso di sentire la mancanza di Allura.»
Katie abbassò lo sguardo sullo schermo, mordendosi l’interno della guancia. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma l’unica risposta che le uscì fu un filo di voce: «Lo so.»
Il silenzio rimase sospeso, quasi fragile. Lance, come per spezzarlo, si schiarì la gola e tentò un sorriso. «Ehi… e con James, come va? Vi sentite ancora?»
Pidge irrigidì appena le spalle, continuando a digitare come se il rumore dei tasti potesse coprire quel nodo che le era salito in gola. «James…» ripeté piano, cercando di mantenere un tono neutro. «Sì, ogni tanto. Adesso ha preso un incarico su Arus, quindi diciamo che ci siamo presi una pausa.»
Lance annuì distrattamente. «Ah… capisco. Beh, immagino che tu sia troppo impegnata per pensare a certe cose, giusto?»
Katie accennò un sorriso sottile, che non arrivò agli occhi. «Giusto.»
E tornò a fissare i dati, lasciando che fosse la luce verde dei grafici a nascondere la malinconia che le attraversava lo sguardo.
Dentro di sé le parole rimbombavano più forti di quanto volesse ammettere. James era stato importante… avevano entrambi provato a convincersi che poteva funzionare, che forse era la scelta più semplice.
Ma ogni volta che ci provava, ogni volta che lui le sorrideva, non vedeva James. Vedeva Lance.
Intanto, in un’altra sezione della stazione orbitale, Hunk se ne stava seduto con Matt, davanti a due tazze di una bevanda fumante che somigliava lontanamente al caffè terrestre.
«Sai che non avrei mai pensato di riuscire a vivere su Balmera?» raccontava Hunk, stringendo il cristallo tra le mani. «Ma Shay… Shay mi ha insegnato a capire il pianeta, a sentirlo vivo. Quando la quintessenza ha cominciato a cambiare, è stato come se… come se stessi guardando un amico spegnersi.»
Matt lo ascoltava, il viso serio ma lo sguardo sempre acceso di curiosità. «E tu sei rimasto. Nonostante tutto. Io non so se ne avrei avuto il coraggio.»
«Non è questione di coraggio.» Hunk scrollò le spalle, abbassando gli occhi sul liquido caldo. «È casa mia adesso. E non lascio la mia casa da sola.»
Matt sorrise, piegando appena la testa. «Ehi… Pidge non lo ammetterà mai, ma è fiera di te. Tutti lo siamo.»
Hunk alzò lo sguardo, colpito da quella frase. Poi annuì piano, come se quelle parole gli fossero necessarie più di quanto volesse far vedere.
«Sai… a volte penso ai vecchi tempi.» Hunk sospirò, gli occhi persi in un punto indefinito dello spazio esterno. «Quando eravamo solo cinque ragazzi in un castello volante, con un Leone ciascuno e senza sapere davvero cosa ci aspettava. Ci sentivamo invincibili, eppure…» la sua voce si fece più bassa, quasi un sussurro. «…così fragili.»
Matt lo guardò in silenzio per un momento, poi disse: «Siamo cambiati, Hunk. Tutti noi. Ma tu sei rimasto lo stesso cuore grande di allora.»
Hunk sorrise debolmente, sentendo un misto di gratitudine e malinconia. «E tu… tu cosa hai fatto in tutto questo tempo? Ti sei mai fermato davvero?»
«Questi cinque anni non sono stati facili nemmeno per me. Ho passato molto tempo con Pidge, con i nostri genitori… cercando di mantenere viva la loro eredità. Ci siamo presi cura dei laboratori, dei progetti, dei dati… ma anche di noi stessi.»
«Davvero?» Hunk lo guardò, incuriosito. «Sembra che tu abbia fatto più di quanto chiunque sapesse.»
Matt scrollò le spalle, un mezzo sorriso sulle labbra. «È stato… necessario. Katie aveva bisogno di qualcuno che la tenesse con i piedi per terra, e io… beh, sentivo di doverlo fare. I nostri genitori ci hanno insegnato il valore della responsabilità, e io non potevo tradirli.»
Hunk annuì, comprendendo. «E Pidge? Come sta?»
«È sempre la solita. Testarda, brillante e incredibilmente determinata. Ma…» Matt abbassò lo sguardo, un po’ di malinconia nella voce. «A volte la vedo e penso a quanto questi cinque anni ci abbiano cambiati. Ci siamo persi dei pezzi l’uno dell’altra, e ora dobbiamo ritrovarli.»
Hunk sorrise debolmente, sentendo il peso e insieme la speranza nelle parole di Matt. «Sai… penso che tutti noi abbiamo fatto la stessa cosa, in un modo o nell’altro. Cercare di proteggere, di ricostruire… e adesso è arrivato il momento di rimetterci insieme, come una vera squadra.»
Matt alzò le spalle. «Ma credo che tutti noi abbiamo avuto i nostri momenti di… smarrimento. E tu, amico mio, sei stato il faro per Balmera. Non sottovalutare mai quanto sia importante quello che hai fatto.»
Hunk inclinò leggermente la testa, pensando a Shay, ai mesi passati a studiare la quintessenza, alle notti in cui la solitudine sembrava inghiottirlo. Poi guardò Matt e sorrise, un sorriso piccolo ma sincero. «Grazie, Matt. Davvero. Fa bene sentirlo dire.»
Le due tazze fumanti continuavano a emanare un odore familiare mentre il silenzio tornava a regnare, pieno di una quieta complicità. Per un istante, non c’erano guerre, nemici o Leoni da ritrovare: c’erano solo due ragazzi, seduti fianco a fianco, a riflettere sul tempo passato e sul futuro che li aspettava.
Keith, nel frattempo, si era appartato nell’hangar, controllando la propria spada e l’equipaggiamento. I passi di Shiro lo raggiunsero senza che lui se ne accorgesse, finché la voce calma del comandante non ruppe il silenzio.
«Cinque anni da solitario, eh?» disse Shiro, incrociando le braccia. «Non è cambiato poi molto.»
Keith si voltò appena, abbozzando un sorriso stanco. «Non sono mai stato bravo a stare fermo.»
Shiro lo fissò, studiandolo come se volesse leggere oltre la corazza. «Ti sei tenuto lontano da tutti, Keith. Perché?»
Keith serrò le labbra, abbassando lo sguardo. «Perché era più facile così. Perché… se qualcosa fosse successo di nuovo, volevo essere pronto. E non volevo che nessuno rimanesse coinvolto.»
Shiro sospirò, posandogli una mano sulla spalla con fermezza ma senza pressione. «Non puoi portare sempre tutto da solo. Non più. Non sei quel ragazzo perso che ho incontrato tanti anni fa. Sei cresciuto. E adesso… hai noi. Non dimenticarlo.»
Keith alzò appena gli occhi, esitante, come se stesse misurando quanto concedersi. «E tu, Shiro? Cinque anni… sempre a comandare, sempre a decidere. Non ti sei mai preso un momento per te.»
Shiro scrollò le spalle, con un mezzo sorriso amaro. «Qualcuno doveva farlo. Curtis è stato… un buon motivo per provare a lasciarmi andare un po’. Mi ha ricordato che avere accanto qualcuno non significa essere più debole, ma avere la forza di restare umano.»
Keith abbassò lo sguardo, riflettendo su quelle parole. «Io… con Acxa è stato diverso. Due testardi che non sanno cosa sia la leggerezza. Ma con lei non servivano molte parole. Mi capiva, anche nei silenzi. Non è stato facile… ma era reale.»
Shiro sorrise appena. «Forse è proprio questo che ci ha salvati, Keith. Imparare ad affidarci a qualcuno, senza sentirci in colpa.»
«O senza paura di perderlo,» mormorò Keith, quasi per sé stesso. Poi scosse la testa. «È questo che mi ha tenuto lontano da tutti. Temevo che, se fossi rimasto… se fosse accaduto ancora, avrei perso un altro pezzo di me.»
Shiro strinse un po’ di più la sua spalla, costringendolo a incontrare i suoi occhi. «E invece hai trovato la forza di tornare. Non sei da solo, non più. I Leoni ci hanno scelti per un motivo, e forse… è arrivato il momento di dimostrare che avevano ragione.»
Keith inspirò profondamente, lasciando andare parte della tensione che gli gravava sulle spalle. «Sai… non avrei mai creduto di dirlo, ma mi è mancato. Tutto questo. Perfino i tuoi discorsi da fratello maggiore.»
Shiro rise piano, e per un istante i rumori metallici dell’hangar parvero lontani. «E a me è mancato avere qualcuno che non avesse paura di dirmi in faccia quando sbaglio.»
Per qualche secondo rimasero in silenzio, fianco a fianco, come ai vecchi tempi. Non due Paladini, ma due amici che avevano imparato a cadere e a rialzarsi insieme.
Chapter 4: Capitolo 3 - Lance McClain, il Paladino del Leone Blu
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Lance fissava il vuoto davanti a sé, le mani serrate attorno ai comandi della navetta. Non era soltanto concentrazione: era un nodo che gli stringeva lo stomaco, un misto di trepidazione e timore che gli rendeva difficile persino respirare. Ogni fibra del suo corpo gli diceva che Blue era lì, da qualche parte.
Non vedeva una rotta, non riceveva un segnale chiaro: quello che sentiva assomigliava, più che altro, al battito ovattato di un cuore soffocato sotto strati di ghiaccio e silenzio, che gli indicava una direzione precisa.
«Coordinate confermate.» disse Katie, piegata sul pannello di controllo accanto a lui. Le sue dita scorrevano veloci sulla tastiera, sfiorando gli ologrammi con naturalezza, mentre controllava i dati che scorrevano rapidi sugli schermi. Alzò poi lo sguardo verso di lui, spostandosi appena gli occhiali con il dorso della mano, e la sua voce acquistò quel tono sarcastico che usava ogni volta che voleva smontare la sua sicurezza. «Pianeta NX-47. Atmosfera instabile, superficie interamente ghiacciata, oceani nascosti sotto la crosta. Ti rendi conto che stiamo per tuffarci in un freezer gigante, vero?»
Lance accennò un sorriso, cercando di sembrare spavaldo, anche se il cuore gli batteva all’impazzata. «Ehi, sono cresciuto a Varadero. Il ghiaccio e l’acqua non mi spaventano.»
Katie sollevò un sopracciglio. «Varadero non ha tempeste con venti a trecento chilometri orari, Lance. E la sua temperatura minima raggiunge i diciotto gradi. A gennaio.»
«Dettagli.» ribatté lui, stringendo con più forza la cloche, come se la sua ostinazione bastasse a tenere in rotta anche l’intera navetta.
Non appena entrarono nell’atmosfera, lo scafo tremò con violenza, facendo vibrare ogni vite e ogni placca metallica. Lì fuori, il cielo si trasformò in un vortice di nubi scure, dense come fumo. Fulmini azzurri si contorcevano tra le correnti magnetiche, e ogni colpo faceva sobbalzare la navetta come un giocattolo troppo fragile per reggere quella furia. Lance serrò la mascella, correggendo la traiettoria a ogni istante, mentre Katie rimaneva incollata ai monitor, segnalando con voce ferma le anomalie che esplodevano in rosso sugli schermi. Ogni sobbalzo era un brivido che correva lungo la schiena di Lance. Non era paura vera e propria, ma un’energia febbrile che lo teneva in tensione, quasi eccitato dal rischio. Si aspettava, da un momento all’altro, di sentire Katie sbuffare, pronta a dirgli con quello sguardo inconfondibile: “lo sapevo, sei un idiota”.
Ma non accadde.
Per qualche istante, mentre lui era tutto concentrato sui comandi, Katie restò in silenzio ad osservarlo come se vedesse oltre quel ragazzo spavaldo. Lo osservava, e nei suoi lineamenti induriti, nelle spalle più larghe, nello sguardo più determinato, vedeva chiaramente quanto fosse cambiato. Era diventato un uomo, eppure… sotto quella sicurezza ostinata c’era ancora il ragazzo che ricordava, irrazionale, impulsivo, testardo che l’aveva fatta innamorare tempo addietro.
Quando finalmente la navetta uscì dalle nubi e trovò stabilità, davanti a loro si spalancò un panorama che mozzava il fiato. Distese infinite di ghiaccio scintillavano sotto la luce riflessa dalle nubi, bianche e azzurre come un immenso deserto cristallino. Crepacci profondi si aprivano ovunque, fenditure nere che sembravano ferite vive nella crosta del pianeta, e da quelle fessure saliva un bagliore bluastro, come il respiro stesso dell’oceano nascosto nelle profondità.
Il vento, visibile come polvere di ghiaccio sospesa, fischiava tra le fratture, trasformando la superficie in un coro inquietante. Ogni suono, ogni eco, si perdeva nella vastità immobile di quel paesaggio eterno.
Katie si avvicinò al vetro, senza riuscire a staccare lo sguardo. «È bellissimo…» mormorò. La sua voce, per un attimo, perse ogni durezza, come se quel luogo fosse riuscito a scalfire anche la sua corazza.
«Sì…» sussurrò lui in risposta, ma non stava guardando il paesaggio.
Si prepararono a uscire, avvolgendosi nelle tute termiche che si chiudevano ermetiche attorno al collo. L’aria all’esterno era spietata: ogni spiraglio che filtrava nei giunti sembrava una lama invisibile che graffiava la pelle, e il vento faceva vibrare il terreno sotto i loro stivali come se il pianeta intero respirasse contro di loro. Ogni respiro si condensava in una nube bianca che si disperdeva immediatamente, strappata via dalla bufera prima ancora di formarsi del tutto.
Avanzarono lentamente, fianco a fianco, i passi cauti sul ghiaccio che scricchiolava, come se potesse cedere da un momento all’altro. Il vento urlava tra le gole rocciose e le fenditure, un canto di sirene ostili che li costringeva a stringere i denti e piegarsi in avanti per non essere sbalzati via.
«Non so se l’hai notato…» disse Lance, stringendosi nel giubbotto e battendo le mani intirizzite. «Ma questa è esattamente la mia idea di vacanza romantica.»
Katie si voltò di scatto, gli occhiali leggermente appannati dalla condensa. «Romantica?» ripeté, come se avesse appena sentito la parola più assurda del mondo, soprattutto vista la situazione.
«Beh…» insistette lui, con un sorriso tremolante ma ostinato. «Freddo, vento, gelo… due cuori e un igloo? Potrei brevettarla come esperienza turistica. Sai, per coppie temerarie.»
Lei sospirò, scuotendo la testa. Un sospiro che avrebbe voluto suonare sprezzante, ma che si incrinò in una piccola risata soffocata. Il suo volto si ammorbidì appena, e sulle labbra le tremò un sorriso che cercò invano di trattenere. «Sei ridicolo.»
«Ridicolo ma irresistibile.» ribatté Lance, alzando le spalle con aria teatrale.
Un’altra raffica di vento coprì il suono della sua risata, ma il rossore sulle guance di Katie non dipendeva solo dal gelo.
Fu allora che lui lo sentì. Un brivido lo attraversò, netto e profondo, come se una corrente invisibile fosse passata attraverso il ghiaccio fino a raggiungere il suo cuore. Lance si arrestò di colpo, inginocchiandosi e poggiando il palmo guantato a terra. Sotto di lui, oltre lo spesso strato di ghiaccio, percepì un battito. Non era un rumore, non era una vibrazione meccanica: era un ritmo antico, familiare.
«Blue…» sussurrò.
Il suolo parve vibrare in risposta, un’eco lontana che pulsava in sintonia col suo cuore. Era come se il pianeta stesso fosse diventato conduttore di quella presenza. Guidati dal suo istinto, i due proseguirono fino a una voragine immensa che scendeva a picco verso il mare sotterraneo.
Le pareti di ghiaccio riflettevano le luci delle loro torce come specchi frantumati, creando un caleidoscopio di bagliori azzurri che ballavano sulle superfici. Lance si chinò e iniziò a scendere lentamente, cercando appigli sicuri, mentre Katie lo seguiva con prudenza, ogni movimento calibrato per non rischiare di scivolare nel vuoto.
E poi la videro.
Immersa nelle acque scure, ma luminosa come una costellazione viva, la sagoma colossale di Blue prese forma davanti ai loro occhi. Ogni linea, ogni curva, emanava luce, e i suoi occhi squarciavano l’ombra marina con due bagliori intensi e familiari. L’acqua le scorreva attorno come seta liquida, trasformandola in una creatura quasi onirica.
Il respiro di Lance si mozzò in gola. Tutto, il vento, il gelo, il dolore, sembrò dissolversi per un istante. Non c’era altro che lei.
«Ehi, amica mia… sono io.» mormorò, e la sua voce si incrinò come vetro sotto troppa pressione.
Per un istante credette che bastasse. Che Blue lo riconoscesse e lo accogliesse di nuovo.
Ma l’acqua attorno a lei si sollevò improvvisa, formando un’onda gigantesca che si infranse contro di lui con violenza. Lance fu scagliato indietro, travolto da un gelo che gli tagliava i polmoni e gli strappava via il fiato. Il ruggito che risuonò subito dopo non era di gioia: era un avvertimento, profondo e terribile, che fece tremare le pareti di ghiaccio.
Lance cadde a terra, ansimando, il respiro spezzato. «Cosa…?»
Katie gli fu accanto all’istante, inginocchiandosi e afferrandolo per un braccio. Lo aiutò a rimettersi in piedi, e per un attimo i loro volti rimasero vicinissimi, i respiri caldi che si mescolavano nell’aria gelida. Lei arrossì, scostandosi subito, cercando rifugio nel display del suo computer da polso, mentre Lance restava immobile, pugni serrati e cuore in tumulto.
Era evidente che Pidge – no, Katie – fosse cresciuta. Non era più la ragazzina di quindici anni che aveva conosciuto alla Garrison, nascosta sotto un’identità rubata per inseguire suo fratello e suo padre. Davanti a lui c’era una donna di ventitré anni: i capelli ricresciuti le incorniciavano il volto, gli occhiali non bastavano a nasconderne i tratti maturi e decisi. La timidezza di un tempo aveva lasciato il posto a una determinazione più lucida, più consapevole.
«Forse non basta presentarsi e dire “sono tornato”. Forse devi provarle che sei ancora il suo Paladino.»
Lance abbassò lo sguardo, la voce incrinata. «Ma io… io non ho mai smesso di esserlo.»
Katie fece un passo indietro, lasciandogli spazio. «Allora dimostraglielo.»
Blue rimaneva immobile, ma l’oceano attorno a lei ribolliva come se una tempesta vi fosse esplosa dentro. Lance inspirò a fondo, il fiato gli usciva a nuvole bianche che si dissolvevano subito nel vento. Si rialzò, con un gesto lento ma deciso, e strinse i pugni.
«Vuoi che ti dimostri chi sono, eh?» mormorò, la voce incrinata ma salda. «Ok, allora sfidami.»
«Lance, aspetta!» Katie allungò la mano, il volto contratto di preoccupazione. «Non sai che genere di prova ti chiederà. Potrebbe essere pericoloso.»
Lui si voltò verso di lei, e stavolta il suo sorriso non aveva nulla di sbruffone: era calmo, dolce, quasi malinconico. «Pidge… quando mai non lo è stato?»
Un ruggito profondo attraversò l’acqua, e un lampo blu esplose dalla sagoma del Leone.
La luce che avvolse Lance non era reale, eppure lo trascinò via con la stessa forza di uno tsunami. Non c’era tempo per reagire, non c’era modo di resistere: era come essere risucchiato dal cuore stesso di Blue. Quando riaprì gli occhi, non si trovava più nell’oscurità fredda dell’oceano ghiacciato, ma in un luogo che sarebbe stato impossibile raggiungere con i mezzi di un uomo. un’oasi di acqua limpida, circondata da barriere di corallo che brillavano come stelle sommerse.
L’acqua che lo circondava era limpida, così trasparente da sembrare aria, eppure calda, accogliente, quasi materna. Attorno a lui barriere di corallo brillavano come costellazioni sommerse, pulsando di bagliori iridescenti. Piccoli pesci luminosi lo sfioravano mentre nuotavano in cerchi concentrici, dissolvendosi poi come scie di polvere di stelle. Ogni respiro gli sembrava più facile, più naturale, come se il suo corpo fosse nato per appartenere a quel mondo.
Eppure, sotto la sua bellezza, quell’illusione non trasmetteva pace.
Una voce dolce, limpida come cristallo, risuonò accanto a lui. «Lance…»
Si voltò di scatto. Il cuore gli balzò in gola, gli occhi incapaci di credere a ciò che vedevano. Allura era lì. Non un ricordo sfocato, non un sogno: la sua figura si stagliava davanti a lui, eterea, luminosa, con quel sorriso gentile che lui aveva custodito nel cuore per anni.
«Allura?» balbettò, la voce spezzata dall’emozione. Non riusciva a muoversi. Ogni fibra del suo corpo oscillava tra il desiderio di stringerla e il terrore che si sarebbe dissolta al minimo tocco.
Lei lo osservava con una tenerezza infinita, ma nei suoi occhi scintillava una tristezza profonda. «Perché continui a portarmi dentro come una ferita?» mormorò, la sua voce che vibrava come un’eco tra le correnti. «Non hai colpa di ciò che è accaduto… ma ti sei condannato da solo per ciò che non ti permetti più di trovare.»
Quelle parole lo colpirono come una lama, più dolorosa di qualsiasi accusa. Lance spalancò la bocca, ma non riuscì a parlare. Prima che potesse rispondere, l’acqua attorno a lui si increspò e da essa emersero altre figure, una dopo l’altra.
I suoi compagni.
Pidge, Hunk, Keith, persino Shiro. Tutti erano lì, sospesi davanti a lui, sorridenti ma lontani, come riflessi dietro un vetro che non poteva infrangere. Poteva quasi sentire il calore dei loro sguardi, eppure non riusciva a raggiungerli. Le loro voci si unirono in un’eco che lo avvolse, trasformandosi in catene invisibili.
«Hai scelto di chiuderti.»
«Hai allontanato chi ti voleva accanto.»
«Sei rimasto solo, perché lo hai deciso tu.»
Lance vacillò, il respiro corto. «Io… non potevo rischiare di perdere qualcun altro.» le parole gli uscirono come un grido strozzato. «Non ce l’avrei fatta, non dopo…»
L’illusione si deformò, l’acqua limpida si tinse di ombre scure. Le barriere di corallo si spensero, e dalle profondità emerse un flusso torbido che si arrampicò verso l’alto, avvolgendo tutto in un vortice impetuoso. L’oasi si trasformò in un mare in tempesta, violento e minaccioso.
In mezzo al caos intravide una creatura marina, intrappolata nelle correnti: una manta gigantesca, luminosa, le sue ali che si contorcevano nello sforzo di liberarsi. Ogni suo movimento faceva tremare l’acqua, ma le catene di tenebra la trattenevano. «Liberami… liberati!»
La voce di Blue riecheggiò potente nella sua mente: «Il cuore che si chiude, si inaridisce. Vuoi davvero essere solo un guscio vuoto, Lance?»
Il giovane serrò gli occhi, travolto dai ricordi che riaffioravano come colpi inferti al petto. Vide Allura ancora una volta, bellissima e luminosa, ma con quella malinconia che portava in sé la promessa mai mantenuta. «Hai lasciato che il dolore ti definisse.» disse lei, la sua voce che si mescolava al canto delle correnti. «Hai deciso che non meritavi più di amare.»
«Io…» Lance sentì la gola serrarsi. Ogni respiro era un coltello. «Ho cercato di andare avanti, ma non ci sono riuscito. Non volevo dimenticarti…»
«Non dimenticare non significa chiudere il cuore.» sussurrò lei, prima di svanire come spuma trascinata via dal mare.
Poi fu il turno di Hunk. Lo vide con il suo solito grembiule da cucina, il sorriso largo e affettuoso. Ma quel sorriso presto si incrinò, trasformandosi in un rimprovero silenzioso. «Dove eri quando avevo bisogno del mio migliore amico?» chiese, la voce carica di dolore. «Ti sei allontanato, Lance. Mi hai lasciato da solo.»
«Ho avuto paura…» gemette lui, stringendo i pugni. «Non volevo pesare su nessuno. Vedevo tutti andare avanti e… mi sembrava di non avere più posto accanto a voi.»
«E così sei rimasto indietro.» sussurrò Hunk, dissolvendosi tra le correnti.
Poi comparve Keith. Lo sguardo duro, impenetrabile, ma la voce incrinata da una delusione che pesava come macigni. «Hai sempre detto di voler proteggere tutti…» mormorò, con un filo di voce. «Ma quando serviva davvero, hai protetto solo te stesso.»
Il colpo fu devastante. Lance barcollò, sentendosi risucchiato dal vortice, quasi incapace di respirare. «Io… non sapevo come restare. Non sapevo come essere ancora parte di qualcosa.»
E infine, tra le onde, comparve lei. Pidge. Non quella di tutti i giorni, sarcastica e brillante, ma una diversa: fragile, vulnerabile, con gli occhi lucidi che tradivano un’emozione che raramente lasciava emergere. «Sai qual è stata la mia paura più grande?» sussurrò. «Che non saresti più tornato.»
Quelle parole lo trafissero. Non le aveva mai sentite pronunciare, eppure sapeva che erano vere. Aveva letto quel timore nei silenzi, nei sorrisi trattenuti, negli sguardi rapidi che non dicevano mai tutto. «Katie…» mormorò, quasi spezzandosi. «Non volevo farti soffrire.»
La corrente si scatenò, trasformando quelle voci in un coro assordante di rimpianti e accuse. Tutto cercava di tenerlo giù, prigioniero dei suoi stessi errori.
Eppure, al centro di quel caos, la manta era ancora lì. Immensa, luminosa, incatenata dal buio. Era lui. Era il riflesso della sua anima: nata per muoversi libera, ma bloccata dalle proprie paure.
Lance smise di respingere. Non cercò più di fuggire. Per la prima volta, lasciò entrare dentro di sé tutto: dolore, paura, amore perduto, rimpianti. Non li negò. Non li odiò. Li abbracciò.
«Ho sofferto. Ho avuto paura. Ho finto di non sentire.» le parole gli uscirono tra i singhiozzi, mentre nuotava verso la manta. «Ma non posso continuare così. Non posso continuare a punirmi.»
Le catene tremarono.
«Se amare significa rischiare di soffrire ancora…» urlò, le lacrime che si mescolavano all’acqua. «Allora preferisco soffrire piuttosto che non sentire più nulla.»
Ogni bracciata era una pugnalata. I fantasmi del passato lo strattonavano, le voci lo deridevano, ma lui avanzava lo stesso. Con uno sforzo disperato afferrò le catene, e con uno strappo liberò la manta.
Un’esplosione di luce invase l’oceano. Le ombre si dissolsero, i ricordi svanirono, e in quell’istante Lance sentì qualcosa dentro di sé spezzarsi: non il dolore, che rimaneva, ma la corazza che aveva costruito intorno al proprio cuore.
Quando riemerse, ansimante, Blue era lì. Gli occhi del Leone brillavano come due oceani profondi e misericordiosi. «Hai trovato il coraggio di perdonarti, Lance. Hai aperto lo spazio per ciò che verrà. È questo che ti rende il mio Paladino.»
Lui sorrise, con le lacrime che gli rigavano il volto senza più vergogna. «Allora… mi accetti di nuovo?»
Blue abbassò il muso, sfiorandolo con delicatezza. Non servivano parole: la connessione che si era spezzata tempo addietro si riaccese, viva, ardente, come un battito tornato alla vita.
Quando riaprì gli occhi, era di nuovo sulla voragine ghiacciata. Sembrava non fosse passato nemmeno un istante, eppure dentro di lui tutto era cambiato. Il mondo era immobile, sospeso in un respiro trattenuto, finché un boato profondo non fece vibrare la distesa sotto i loro piedi.
Il ghiaccio tremò e si spezzò con un rumore secco che riecheggiò come un tuono. Una frattura immensa si aprì, serpeggiando verso il basso fino all’oceano nero che ribolliva sotto di loro. Katie perse l’equilibrio: il suo corpo scivolò in avanti, le braccia aggrappate al vuoto, proprio mentre la superficie si sbriciolava sotto di lei.
«Pidge!» urlò Lance, la voce spezzata dal panico.
Non esitò. Non ci fu un istante di riflessione, nessuna paura. Si lanciò di peso, afferrandole il polso con forza un attimo prima che scomparisse nell’abisso. Le loro dita si strinsero con disperazione, ghiacciate e doloranti, mentre il crepitio delle lastre intorno minacciava di trascinarli giù entrambi. Lance sentì i muscoli tendersi fino a bruciare. Il gelo gli tagliava i polmoni, l’acqua spruzzava sulle guance come aghi sottili, eppure non mollò. Con un ringhio strozzato tirò Katie verso di sé, centimetro dopo centimetro, fino a che i due corpi non rotolarono insieme lontano dal bordo, atterrando pesantemente sulla superficie dura e instabile.
Rimasero lì, stesi, ansimanti, i cuori che martellavano all’unisono. Il respiro caldo di lei si mescolava al suo nell’aria gelida, formando nuvolette che si dissolvevano subito nel vento. I loro volti erano così vicini che Lance poté contare le lentiggini che le dipingevano il naso, e capì che non era stato soltanto il panico a farlo correre: era qualcosa di più grande, di più profondo.
Pidge lo guardava con gli occhi spalancati, lucidi, ancora colmi di paura. Per un istante il mondo intero svanì, cancellato dalla bufera, dalla voragine, perfino dal ruggito dell’oceano sotto di loro. Non esisteva altro che quell’attimo sospeso. «Sei… un idiota.» riuscì a dire lei, la voce incrinata, più un soffio che un rimprovero.
Lance rise piano, un riso nervoso ma sincero, e con una dolcezza che non pensava di avere ancora dentro di sé le scostò una ciocca di capelli dal volto, le dita tremanti per l’adrenalina. «Grazie. Ma non ti lascerò mai cadere.»
Katie abbassò lo sguardo, ma non abbastanza in fretta da nascondere il rossore che le incendiava le guance.
Fu allora che un altro ruggito riempì l’aria. Non era più il verso furioso che li aveva respinti, ma qualcosa di diverso: meno rabbioso, più… riconoscente. Le acque, prima agitate, si calmarono lentamente, e la luce di Blue si fece più calda, più vicina, come un cuore che batte finalmente all’unisono con il suo Paladino.
Lance si rialzò, ancora con il fiato corto, e strinse i pugni colmi di emozione. «Hai visto, Blue? Non sono cambiato. Sono ancora quello che si butterebbe in un abisso senza pensarci, se significasse salvare chi conta.»
Dal fondo dell’oceano, la sagoma del Leone Blu si sollevò, maestosa, fino a emergere dalla superficie. L’acqua scivolava via dalla sua corazza come cascate, scintillando alla luce fioca. Gli occhi del Leone incontrarono quelli di Lance, e in quello scambio muto c’era un riconoscimento antico, un legame spezzato che si ricomponeva.
Il Leone si chinò verso di loro, e quando la bocca si aprì, l’aria stessa parve sospingersi per guidarli all’interno. Non ci fu esitazione: i due si ritrovarono trascinati in quel passaggio, e l’acqua che li circondava sembrò dissolversi, respinta dalla volontà stessa di Blue.
In pochi istanti, furono nella cabina di comando. Le pareti vive pulsavano di energia, irradiando calore come un cuore ritrovato. Ogni fibra del corpo di Lance riconosceva quel luogo, ogni respiro era memoria e casa. Si lasciò cadere sul sedile, la mano che tremava sulla leva di comando. Gli occhi gli si inumidirono, e un sorriso incredulo gli scivolò sulle labbra. «Sono a casa…» mormorò, con la voce spezzata dall’emozione.
Katie si sistemò accanto a lui, nascondendo a metà il viso dietro i capelli per mascherare il sorriso che le si era formato sulle labbra. Ma la sua voce tradì la dolcezza che non poteva più trattenere. «Bentornato, Paladino del Leone Blu.»
Il ruggito possente di Blue riempì la cabina, vibrando nelle ossa come una sinfonia. Per un istante parve che persino l’universo intero avesse trattenuto il fiato per quel ritorno. Poi le stelle si spalancarono davanti a loro, un orizzonte infinito pronto a essere attraversato ancora.
Mentre il Leone si sollevava dall’oceano ghiacciato, Lance si voltò verso di lei, gli occhi colmi di gratitudine. «Sai, mi mancava terribilmente questa sensazione.»
«Volare?» chiese Katie, fingendo di non capire, anche se il battito accelerato del suo cuore la tradiva.
«Volare. E sapere che tu sei ancora qui con me.»
Questa volta, Pidge non si limitò ad arrossire. I suoi occhi si addolcirono, lasciando cadere, anche solo per un istante, tutte le barriere che aveva eretto intorno a sé. «Allora non farmi pentire di essere qui.»
Blue accelerò, tagliando l’aria con la sua maestosità, lasciandosi alle spalle il pianeta di ghiaccio.
Il Leone Blu era tornato.
Chapter 5: Capitolo 4 - Hunk Garrett, il Paladino del Leone Giallo
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La navetta atterrò dolcemente sulla superficie iridescente della Balmera. Appena la rampa si abbassò e Hunk mise piede sul terreno, un brivido lo attraversò da capo a piedi. Non era solo il cambio di gravità o la temperatura diversa dall’interno della navicella: era la vibrazione sotto le suole, quel battito sommesso che gli risuonava fino alle ossa. Un ritmo antico, profondo, come il cuore di un gigante che da sempre custodiva il suo popolo. Era la voce della Balmera.
Qualcosa era cambiato: quel battito non aveva più la regolarità rassicurante che Hunk ricordava. Era più lento, affaticato, e ogni volta che pulsava sembrava accompagnato da un sospiro stanco. La roccia viveva ancora, ma con fatica.
Shay lo raggiunse ai piedi della navicella. Il suo sorriso, solitamente così luminoso, era increspato dall’ombra della preoccupazione. Gli prese la mano, stringendola con calore, come se quel contatto potesse proteggerla da ciò che stava per dire. «La senti, vero?»
Hunk annuì lentamente, le sopracciglia aggrottate. «Cosa… cosa è successo? Sono stato via solo un giorno.» la sua voce tradiva l’incredulità. Era impossibile che in così poco tempo il respiro del pianeta fosse diventato così fragile.
Attorno a loro, un piccolo gruppo di abitanti della Balmera si era radunato per salutarlo. Normalmente, ogni ritorno di Hunk era accolto con sorrisi, strette di mano e abbracci fragorosi. Questa volta, invece, i loro occhi bassi e i volti scavati mostravano solo ansia e timore. Bambini che di solito correvano attorno a lui, ora si stringevano silenziosi alle madri. Un uomo anziano lo salutò con un cenno della testa, ma nelle sue pupille c’era solo la domanda che nessuno osava pronunciare: “puoi salvarci ancora una volta?”
Dal profondo del terreno arrivò un gemito cupo, simile a un lamento. Poi una scossa improvvisa fece vibrare la superficie sotto i loro piedi. Alcuni cristalli più vicini esplosero in mille schegge luminose, ricadendo a terra come lacrime solide.
«Vieni, presto.» disse Shay, stringendogli la mano e guidandolo verso i tunnel principali. Le sue dita, solitamente morbide e sicure, tremavano leggermente.
Camminarono in silenzio per alcuni minuti, illuminati solo dal bagliore naturale delle pietre che punteggiavano i corridoi. Ma anche quei cristalli sembravano diversi: molti erano spezzati, crepati, e da alcune fratture filtrava una luce incerta, intermittente, come il respiro di una fiamma prossima a spegnersi.
«Sai anche tu che da settimane questa Balmera era instabile.» la voce di Shay era bassa, quasi un sussurro, come se temesse di ferire il pianeta solo parlandone. «Ma stamattina ci siamo accorti che qualcosa la sta corrodendo dall’interno… come una malattia. Ho paura che non le rimanga molto tempo.»
Hunk si fermò davanti a una parete incrinata, sfiorando con le dita le fratture che correvano lungo il cristallo. Ogni vibrazione che ne scaturiva gli trapassava il braccio fino al cuore, e più ascoltava, più si convinceva che non erano solo lesioni naturali. No, c’era qualcosa di diverso. Di estraneo.
Serrò la mascella, il petto oppresso da un dolore familiare. Avrebbe voluto rassicurarla, prendere Shay tra le braccia, dirle che tutto sarebbe andato bene. Lo aveva fatto tante volte, negli anni. Ma quella vibrazione lenta, quel battito spezzato sotto i suoi piedi, raccontava un’altra verità. La Balmera stava soffrendo, e stava chiedendo aiuto.
«In realtà credo che sia così…» mormorò infine, poggiando il palmo sulla parete. Una scarica di energia gli attraversò il braccio, fino a scivolargli dentro il cuore. Non era un contatto qualsiasi: era come se il pianeta lo stesse riconoscendo, come se volesse mostrargli la sua agonia. «Nello spazio qualcosa ci ha trovati. Un’entità misteriosa e malvagia sta cercando i Leoni. Probabilmente sa che Yellow è qui… e la Balmera ci sta mettendo in guardia a costo della sua stessa vita.»
Shay lo fissò in silenzio per un lungo momento, poi strinse più forte la sua mano, con decisione. Nei suoi occhi brillava la paura, sì, ma anche la forza di chi ha scelto da tempo da che parte stare. «E io so che possiamo aiutarla. Insieme.»
Quelle parole, pronunciate con tale certezza, si depositarono nel petto di Hunk come un’ancora e come un fardello allo stesso tempo. Sentì il peso delle aspettative ricadere sulle sue spalle. Ma non era un peso nuovo. Lo conosceva bene, forse fin troppo. Ogni volta che la Balmera aveva tremato, lui era stato lì. Ma stavolta… stavolta c’era qualcosa di diverso.
Un bagliore improvviso, profondo e caldo, esplose nel fondo della galleria. Non fu una luce qualsiasi: sembrava provenire dalle viscere stesse del pianeta, un fuoco antico che respirava all’unisono con la Balmera. I cristalli lungo le pareti tremarono, e un ruggito basso, possente e primordiale scosse l’aria. Non era solo un suono: era una vibrazione che entrava nel petto, che costringeva i polmoni a fermarsi per un battito.
Hunk si immobilizzò, gli occhi spalancati, il respiro spezzato in gola. Quel ruggito lo conosceva bene, lo avrebbe riconosciuto ovunque. Non era solo il verso di una bestia, ma il richiamo di un compagno, di un fratello di battaglia. Un legame che non si era mai spezzato del tutto.
«Il Leone…» sussurrò, e la voce gli si incrinò come se il nodo alla gola fosse troppo pesante da sciogliere.
Shay lo osservò attentamente, il volto teso, quasi trattenendo il fiato. Nei suoi occhi si mescolavano paura e speranza, due emozioni opposte che convivevano nello stesso sguardo. «Vuole parlarti.»
Il ruggito tornò, più profondo, più vasto. Questa volta fu come un’onda che percorse la galleria dall’inizio alla fine, facendo vibrare ogni frammento di cristallo. Le pareti risposero, illuminandosi a tratti, e i cristalli spezzati presero a pulsare di una luce dorata. Era come se il cuore stesso della Balmera avesse trovato il ritmo del Leone, due battiti che si intrecciavano, due voci che si cercavano.
Hunk inspirò a fondo, cercando di ancorarsi a quel respiro condiviso. «Dobbiamo andare da lui!» disse con determinazione, ma la voce tremava di emozione. «Devo convincerlo a tornare con me, a combattere ancora… non solo per me, ma per salvare la Balmera.»
Shay annuì senza esitazione. Gli prese la mano e la strinse con forza, come se con quel contatto volesse trasmettergli parte della propria energia. «E non sarai solo. Qualunque prova ti chieda, io sarò al tuo fianco.»
Quelle parole scaldarono Hunk più di qualsiasi luce. Erano un faro che lo teneva saldo, anche mentre tutto intorno sembrava frantumarsi.
Con quel conforto nel cuore, imboccarono insieme il passaggio che conduceva al luogo dove sapevano di trovare Yellow.
Hunk conosceva quella strada come conosceva il palmo della sua mano: quante volte l’aveva percorsa? Eppure, quella volta era diverso. Ogni passo era accompagnato da una tensione nuova, un’attesa che lo faceva sentire piccolo, come se stesse camminando non in un tunnel di pietra, ma dentro un rito sacro.
Dalle fenditure delle rocce filtravano fasci di luce gialla. Non erano accecanti, ma intensi, caldi. Lo avvolgevano come braccia invisibili, e con esse giunsero immagini che non vedeva da anni: il Leone che ruggiva nello spazio, i compagni al suo fianco, il momento in cui tutti loro si erano stretti in un unico cuore chiamato Voltron.
«È una prova…» mormorò, la fronte bagnata di sudore. «Il Leone vuole sapere se sono ancora degno di lui. Se il mio cuore è abbastanza saldo da resistere.»
«Lo è!» rispose Shay, con una sicurezza che non ammetteva repliche. La sua voce non tremò, neppure per un istante. «So che lo è.»
Hunk le rivolse un sorriso lieve, ma dentro di sé il dubbio scavava come una lama. Non era solo la paura di fallire. Era la consapevolezza che, questa volta, non c’erano più seconde possibilità.
La luce dorata del Leone lo avvolse del tutto, cancellando ogni altra cosa. Prima che potesse aggiungere altro, il terreno sotto i suoi piedi si sgretolò. Shay allungò la mano verso di lui, ma in un battito di ciglia il suo volto, il suo respiro, la sua presenza sparirono.
Hunk cadde. Non fu un volo nel vuoto, ma un vortice di luce dorata che lo trascinava verso il basso. Non bruciava, ma pesava. Ogni battito era come una roccia che gli schiacciava il petto. Il tempo non esisteva: c’era solo la discesa infinita e il peso di se stesso.
Quando finalmente toccò terra, il mondo attorno a lui era completamente mutato. Non c’erano più cristalli luminosi, né il respiro familiare della Balmera, né il calore delle mani di Shay.
Davanti a lui si stendeva un paesaggio spoglio e devastato: un’immensa distesa di pietra spezzata, frammentata come un campo di battaglia dimenticato. Sopra, un cielo giallo pulsava lentamente, ogni battito un colpo doloroso, un lamento che scendeva dall’alto fino al cuore. Non era un sole, non era un cielo: era un cuore ferito, che sanguinava luce.
Un suono lo fece voltare. In lontananza, tra le rocce spezzate, vide sagome familiari. Erano balmerani, la loro gente. Intrappolati, incatenati tra massi giganteschi, chiamavano il suo nome con voci flebili.
Ogni voce era una lama che gli trafiggeva il petto, ogni richiamo un pugno che gli strappava il respiro.
E allora, la voce del Leone esplose dentro di lui. Non attraverso le orecchie, ma nel cuore, nelle ossa, in ogni fibra del suo corpo. Profonda, solenne, inesorabile. «Ogni passo che farai per salvarli, ti consumerà. Ogni scelta, ti priverà di forza. Mostrami se sei pronto a donare anche quando non ti rimane più nulla.»
Hunk mosse il primo passo verso le sagome lontane, e subito un dolore lancinante gli trafisse le gambe, come se ogni muscolo fosse stato incatenato da un peso invisibile. Le ginocchia cedettero per un istante, ma lui si costrinse a non cadere. Il terreno sotto di lui si incrinò come vetro sotto troppa pressione, e un lamento profondo, simile al respiro di un gigante ferito, si alzò dalla pietra.
La voce del Leone riempì la sua mente, rimbombando in ogni fibra del suo corpo: «Quanto sei disposto a dare agli altri?»
Hunk deglutì, serrando i denti fin quasi a farsi male. Davanti a sé, tra le rocce spezzate, riconobbe volti che conosceva bene: bambini che gli avevano regalato fiori cristallini, famiglie che lo avevano accolto a braccia aperte come uno di loro. Non sapeva se fossero reali o illusioni create dalla prova del Leone. Ma non importava: per lui, quelle vite erano vere, e bastava quello.
Fece un altro passo. Il peso sul suo corpo raddoppiò, e il fiato gli uscì a strappi. Ogni respiro era un fuoco che bruciava nei polmoni, eppure continuò. Raggiunse la prima creatura intrappolata: un giovane balmerano, il cui corpo era schiacciato da una lastra di pietra viva. Con uno sforzo quasi disumano, Hunk affondò le mani sotto il masso e lo sollevò, urlando per lo sforzo. Ogni muscolo protestava, e il suo corpo tremava come se stesse per crollare.
Quando finalmente liberò la creatura, questa si dissolse in una luce dorata, che lo avvolse per un istante con calore. Ma non gli restituì forza. Al contrario, lo lasciò ancora più esausto, svuotato, come se un pezzo di lui fosse stato strappato via.
Hunk barcollò, le gambe molli, il sudore che gli scendeva a rivoli sulla fronte. Un pensiero gelido, maligno, gli serpeggiò nella mente: “Se continui così, morirai qui.”
Ma lo ricacciò indietro, stringendo i pugni con rabbia. «Meglio io che loro.»
Riprese a camminare. Ogni passo era un martirio, un pezzo di sé che si sgretolava: le braccia che si facevano pesanti come pietre, il respiro che diventava un coltello nei polmoni, il cuore che batteva così forte da sembrare pronto a spezzarsi. Eppure, ogni volta che liberava qualcuno, i loro occhi colmi di gratitudine, veri o illusori che fossero, lo spingevano avanti.
Un’altra sagoma apparve davanti a lui: una madre e il suo piccolo, schiacciati sotto lastre aguzze che si incastravano come trappole. Hunk cadde in ginocchio accanto a loro, le braccia che tremavano così forte da sembrare sul punto di cedere. Ogni centimetro che sollevava era un urlo strappato alla sua carne, ma non si fermò. La madre si dissolse per prima, poi il figlio, e il bagliore dorato li accompagnò via come un canto.
«Ancora.» sussurrò Hunk, piegato ma non spezzato.
E ancora andò avanti. Liberò un anziano dalle catene di cristallo che gli imprigionavano le gambe, spaccandole a mani nude fino a sanguinare. Poi sollevò un gruppo di bambini da un groviglio di rocce cadute, e quando li vide svanire in luce dorata, ebbe l’impressione di sentire le loro risate risuonare per un attimo dentro di lui.
Ma ogni salvataggio lo consumava. Le mani erano scorticate, il respiro ridotto a rantoli spezzati, il corpo un’unica ferita pulsante. Ad ogni passo vacillava, eppure continuava a spingersi avanti, perché dietro ogni ombra poteva esserci ancora qualcuno da salvare.
Infine, giunse all’ultima visione. Davanti a lui, un’intera famiglia balmerana era intrappolata sotto un’enorme colonna di pietra, tanto grande che neppure un mecha avrebbe potuto spostarla facilmente.
Le mani di Hunk tremavano così tanto che non riusciva quasi a sollevare un dito. Le sue gambe non rispondevano più, e il petto si sollevava a fatica, come se ogni respiro fosse l’ultimo.
«Non ce la farai.» udì un sussurro all’orecchio. Non era il Leone, non era Shay. Era la sua stessa voce.
Hunk chiuse gli occhi, inspirò con un rantolo e ringhiò con ciò che gli restava di voce: «SÌ, CHE CE LA FARÒ!»
Piantò i piedi nella terra, affondando le dita sotto il bordo della colonna. Ogni muscolo gridò, le ossa scricchiolarono come se stessero per spezzarsi. Lacrime di dolore gli rigarono il volto, ma lui continuò, centimetro dopo centimetro, con un ruggito che sembrava più un urlo di disperazione che di forza.
E poi, all’improvviso, la colonna si sollevò. Non sapeva come, non capì se fosse stata la sua volontà, la sua fede, o il Leone stesso a sostenerlo. Ma il peso si sollevò, e la famiglia balmerana si liberò. Le loro figure si dissolsero in pura luce, che lo attraversò come un abbraccio.
Hunk cadde in ginocchio, esausto, le mani sanguinanti, il respiro un rantolo spezzato. Non gli era rimasto nulla. Nulla se non il vuoto del sacrificio.
Un silenzio irreale cadde sul mondo. Poi, come un tuono che portava conforto invece di paura, la voce del Leone Giallo riempì l’aria. Non era più implacabile, non era più giudizio. Era calore. Era un abbraccio possente. «La vera forza non è resistere, ma dare. Anche quando non resta nulla. Tu lo hai fatto. Sei degno di essere ancora mio Paladino.»
Davanti a lui, dalle rocce dorate, la sagoma colossale di Yellow emerse, imponente e radiosa. I suoi occhi si accesero, due soli dorati che rischiararono l’oscurità.
Hunk, pur stremato, trovò la forza di sorridere. Le labbra gli tremavano, ma le parole uscirono chiare, sincere. «Bentornato, amico.»
Il Leone abbassò il muso, e un’ondata di energia calda avvolse Hunk, sollevandolo dolcemente e riportandolo alla realtà.
Hunk riaprì gli occhi di colpo, ansimando, come se fosse riemerso da un abisso senza fine. L’aria delle gallerie di cristallo gli riempì i polmoni in un brivido violento, quasi bruciante. Era di nuovo lì, inginocchiato al centro della sala, il sudore che gli colava lungo le tempie, le mani graffiate e tremanti come se avessero sorretto il peso di un’intera montagna. Ogni muscolo del suo corpo vibrava di dolore, e la gola era arsa, secca come dopo ore passate a gridare.
«Hunk!» la voce di Shay lo raggiunse prima ancora che lui riuscisse a mettere a fuoco. Un attimo dopo, lei era già al suo fianco, inginocchiata accanto a lui, le mani che gli afferravano il volto con una delicatezza disperata. Gli occhi le brillavano di paura e sollievo insieme. «Ti prego, dimmi che stai bene…»
Lui tentò di sorridere, ma il volto gli si contrasse in una smorfia stanca. Le labbra tremarono, incapaci di sostenere la forza del sentimento che provava. «Bene… è una parola grossa.» riuscì a ridere, un suono spezzato e rauco. «Ma… credo di aver passato l’esame.»
Un ruggito possente esplose in quel momento, facendo vibrare l’intera volta della caverna. I cristalli risposero al richiamo con bagliori intensi, pulsando come vene luminose che trasmettevano il battito stesso del pianeta. Le pareti tremarono, e la roccia davanti a loro si incrinò, aprendosi lentamente in un fascio di luce dorata.
Dalle viscere della Balmera, il Leone Giallo emerse con la potenza di una montagna viva che prende vita. Le zampe affondarono nel terreno con grazia e potenza, mentre gli occhi si accesero di una luce calda e avvolgente. Ogni passo era un’eco che vibrava nelle ossa di Hunk, ogni battito del cuore del Leone risuonava in sincronia con quello stanco ma tenace del pianeta.
Hunk si aggrappò al braccio di Shay per sollevarsi in piedi. Le gambe gli cedevano a ogni passo, ma non riuscì a staccare lo sguardo dal colosso dorato davanti a sé. La gola gli si chiuse in un nodo che gli tolse il fiato. «Eccolo…» mormorò, con gli occhi lucidi.
Shay lo cinse al fianco, quasi a volerlo sorreggere con la sua stessa forza. Sentiva ogni tremito del suo corpo, ma non smise di stringerlo. «Non ti ha mai dimenticato, Hunk.» sussurrò con dolcezza. «Ti stava aspettando.»
Il Leone si abbassò, piegando il muso fino a sfiorare il terreno davanti a loro. Non c’era più sfida nei suoi occhi scintillanti, nessun dubbio o barriera. Solo orgoglio. Solo riconoscenza. Quando la sua bocca si aprì, rivelando l’accesso alla cabina, l’aria si riempì di energia pura, vibrante, come un richiamo antico che li invitava a tornare a casa.
Hunk esitò un istante. Il cuore gli martellava nel petto, non per la paura, ma per il peso immenso di quel momento. Poi si voltò verso Shay. Le prese la mano con delicatezza, intrecciando le dita alle sue, e le regalò un sorriso stanco ma sincero, pieno di gratitudine. «Andiamo a casa.»
Lei annuì senza una parola, stringendogli la mano come se non volesse lasciarla mai più. Insieme, varcarono l’ingresso del Leone.
Appena dentro, Hunk sentì un brivido percorrergli la schiena. Le pareti pulsavano di luce dorata, vive come vene che portavano energia in ogni direzione. Ogni cristallo, ogni fibra metallica vibrava al ritmo del Leone, e quel suono profondo e rassicurante cancellò per un istante la fatica, il dolore, la paura. Era come tornare in un luogo familiare che non aveva mai smesso di aspettarlo.
Hunk si lasciò cadere sul posto di comando. Le mani, ancora tremanti, si posarono sui comandi, ma erano ferme nella loro intenzione. «Bentornato, vecchio mio.» mormorò, con la voce rotta dall’emozione.
Il Leone rispose con un ruggito possente che riempì lo spazio e risuonò ben oltre la cabina. Un ruggito che fece vibrare la Balmera stessa, e per un istante sembrò che l’intero pianeta respirasse di sollievo.
Shay gli posò una mano sulla spalla, stringendo piano. «Lo senti?» disse sottovoce, gli occhi colmi di luce. «È felice. Ti ha ritrovato.»
Hunk la guardò, e un sorriso gli si allargò sul volto, mentre una lacrima gli scivolava sulla guancia. «Anche io.» sussurrò. «Anche io vi ho ritrovati.»
E quando Yellow spalancò le ali d’energia e spiccò il volo, attraversando i cieli della Balmera e illuminandoli con il suo splendore, Hunk capì che non era mai stato così vicino a ciò che contava davvero: proteggere chi amava. A qualsiasi costo.
Chapter 6: Capitolo 5 - Keith Kogane, il Paladino del Leone Rosso
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Il pianeta Pyrrha si stendeva sotto di loro come una ferita aperta nello spazio. Crateri incandescenti vomitavano fiumi di magma, e colonne di fumo nero si innalzavano fino a soffocare il cielo cremisi. Ogni cosa su quella superficie ardeva, tremava o collassava, in un ciclo eterno di distruzione e rinascita. Il calore sembrava pulsare come un cuore, irradiandosi fin oltre l’atmosfera, pronto a divorare chiunque osasse avvicinarsi.
Keith e Shiro avevano seguito per giorni le anomalie energetiche segnalate da Pidge: una scia di calore e impulsi gravitazionali inspiegabili, come se il cuore di una stella fosse esploso e fosse rimasto intrappolato nella crosta di quel pianeta. Ogni tentativo di analisi si era rivelato inutile: le sonde si spegnevano prima ancora di avvicinarsi, come se un potere invisibile e ostile respingesse chiunque osasse oltrepassare i confini di quel mondo. La sola idea che qualcosa potesse sfidare la tecnologia di Katie era già un segno inequivocabile: lì sotto c’era Red.
«Sei sicuro che sia qui?» domandò Shiro, la voce calma ma lo sguardo teso, mentre osservava l’orizzonte dalla cabina della Kharil. Sotto di loro, le colate incandescenti si intrecciavano come vene di fuoco, illuminando a intermittenza il paesaggio vulcanico.
Keith annuì, senza distogliere gli occhi dal pianeta. La mascella serrata tradiva la tensione, ma la sua voce era ferma. «Lo sento. Non so spiegartelo, ma… è come se mi stesse chiamando.»
Appena la navetta penetrò nell’atmosfera, i sistemi cominciarono a lampeggiare in rosso. Sirene acute squarciarono l’abitacolo. Le temperature esterne superarono i limiti di sicurezza e lo scafo vibrò come se fosse sul punto di spezzarsi. La plancia tremava sotto le mani di Shiro, mentre nuove spie si accendevano una dopo l’altra. Geyser incandescenti esplodevano dai vulcani, e colate di lava si riversavano giù dalle montagne, trasformando il paesaggio in un inferno vivo.
«Non so quanto ancora potremo resistere!» gridò Shiro, le mani che correvano sui comandi nel tentativo disperato di stabilizzare i sistemi. Una scossa più violenta fece oscillare la navetta, e per un istante sembrò che l’abitacolo si stesse comprimendo sotto la pressione.
Keith, invece, restava immobile. Con gli occhi fissi oltre il parabrezza, ignorava i segnali d’allarme e il calore che faceva vibrare i metalli. Ogni fibra del suo corpo era tesa, ogni respiro carico dell’energia che lo stava invadendo. Dentro la sua mente sentiva il ruggito di Red, cupo e profondo, era come se quel richiamo lo bruciasse dall’interno e lo scuotesse fino alle ossa.
«Portaci più giù.» disse, la voce roca ma carica di una determinazione assoluta.
Shiro strinse la mascella, lottando contro le turbolenze. «Sei impazzito? Se scendiamo ancora, finiremo arrostiti!»
Keith non vacillò, e nei suoi occhi lampeggiava una fiamma che Shiro non vedeva da anni. «Fidati di me.»
Fu allora che percepì il richiamo del Leone con una chiarezza sconvolgente. Non era un suono, né un’immagine: era un battito, un cuore che batteva in perfetta sincronia con il suo. Ogni respiro di Keith si univa a quell’eco, e più si avvicinavano, più sentiva che non c’era distanza, non c’era paura che potesse dividerli. L’aria attorno alla navetta sembrava incendiarsi, i vulcani esplodevano come tamburi in lontananza, e ogni fibra del suo corpo vibrava all’unisono con quella presenza antica e indomabile.
Keith si aggrappò al bracciolo del sedile, gli occhi brillanti. «Ci siamo.»
Shiro lo fissò di lato. Non aveva bisogno di chiedere altro: aveva già visto quella luce negli occhi di Keith una volta, anni prima. Era lo stesso sguardo che il ragazzo aveva avuto quando Black lo aveva scelto come leader di Voltron. Una luce che non lasciava spazio a esitazioni.
E proprio in quell’istante, una scarica di energia squarciò l’atmosfera come un fulmine vivo. La Kharil sobbalzò violentemente, i sistemi si spensero uno dopo l’altro, e la navetta venne risucchiata in picchiata verso la crosta del pianeta, inghiottita dall’inferno di fiamme e roccia.
La navicella si posò con un ultimo colpo sordo sul pianoro rovente, strappando al terreno una nube di cenere e scintille. Il metallo dello scafo crepitava, deformato dal calore implacabile, e le ali della Kharil tremavano come se stessero per sciogliersi da un momento all’altro. Ogni giunto vibrava sotto la furia del pianeta, eppure l’atterraggio era riuscito: precario, ma sufficiente.
Keith aprì lo sportello con uno scatto deciso. Un’ondata d’aria densa e fumante invase la cabina, bruciandogli i polmoni al primo respiro. Inspirò a fondo, come se quell’aria tossica fosse l’unico ossigeno disponibile, e scese giù. Shiro lo seguì poco dopo, un passo saldo dietro di lui, il volto contratto ma risoluto.
Il terreno era instabile, coperto di rocce incandescenti e sabbia vulcanica che scricchiolava e sfrigolava sotto i loro stivali. Ogni passo produceva vibrazioni che correvano nel suolo, come se il pianeta stesso rispondesse al loro peso. Dai crateri vicini giungevano boati sordi e profondi, e a ogni scoppio il terreno sobbalzava come attraversato da un battito gigantesco, il battito stesso di Pyrrha.
Keith sentiva il richiamo del Leone Rosso farsi sempre più intenso, un ruggito che non udiva con le orecchie ma con le ossa, con il cuore. Ogni fibra del suo corpo vibrava all’unisono con quell’eco antico, come se Red stesse tracciando la strada per lui e soltanto per lui.
«Attento a dove metti i piedi.» lo avvertì Shiro, scrutando ogni fessura con attenzione. La sua voce era calma, ma l’ombra della tensione non sfuggì a Keith. «Una crepa nascosta potrebbe inghiottirci in un attimo.»
Keith annuì senza voltarsi, i muscoli tesi, gli occhi fissi sull’orizzonte. Il cuore gli batteva in sincronia con il ruggito che lo guidava, e ignorava il bruciore dei polmoni, il sudore che gli colava lungo la fronte e le gambe che si facevano pesanti come piombo. La strada verso Red non era lunga in distanza, ma sembrava infinita: un labirinto di lava ribollente, rocce instabili e colonne di fumo che deformavano la visuale, riducendo il mondo a pochi metri di realtà alla volta.
Passo dopo passo, il calore aumentava, facendo sudare entrambi sotto le tute. Ogni colpo di magma che esplodeva dai vulcani vicini faceva tremare il terreno, e il crepitio del fuoco e delle rocce che crollavano si mescolava al ruggito di Red. Keith avanzava senza esitazione, guidato dall’istinto, ignorando il dolore che gli stringeva il petto e le gambe ormai pesanti.
Shiro lo seguiva, un passo dietro, pronto a intervenire se la strada diventava troppo insidiosa, ma senza mai fermare Keith. Sapeva che questo era il momento in cui il giovane Paladino doveva seguire la propria volontà, il proprio legame con il Leone.
Dalle fessure del terreno, lingue di magma ribollente illuminavano di rosso il cammino, facendo apparire sagome inquietanti di rocce simili a creature. Keith le riconosceva come illusioni o proiezioni del pianeta, ma il richiamo di Red era più forte, come un filo invisibile che li legava.
Infine, dopo un ultimo crinale scosso da un boato profondo, apparve davanti a loro.
Oltre un cratere ribollente, fra colonne di fumo e luce cremisi, una sagoma massiccia prese forma. Immensa, solenne, possente. La corazza metallica del Leone Rosso sembrava incandescente, come se fosse stata forgiata direttamente dalla lava stessa del pianeta. Le giunture emanavano bagliori pulsanti, simili a vene di fuoco vivo, e ogni movimento generava un bagliore che incendiava le rocce circostanti. I suoi occhi ardevano come due soli rossi, penetranti, colmi di fiamma e diffidenza.
Keith si fermò di colpo. Il cuore gli batteva furioso, eppure non era paura quella che lo serrava: era la vertigine di trovarsi davanti a qualcosa che aveva perso e che ora reclamava di nuovo. Non era più solo il terreno ostile a metterlo alla prova. La vera sfida, quella che avrebbe definito chi era diventato, stava per iniziare.
Shiro si avvicinò abbastanza da fargli sentire la sua presenza solida, ma non tanto da frapporsi tra lui e il Leone. «Sei pronto?» domandò una sola volta, senza alzare la voce. Era una domanda retorica, eppure necessaria.
Keith non si voltò, non distolse gli occhi dal bagliore fiero e ardente del Leone Rosso. Si limitò ad annuire, un gesto breve ma carico di tutto ciò che provava: paura, desiderio, dolore e una determinazione che bruciava quanto la lava sotto i suoi piedi.
Al primo passo il mondo si spezzò.
La roccia si aprì sotto i suoi piedi ed un turbinio cremisi lo trascinò giù. Cadde in una spirale di luce e fuoco, il vento incandescente gli strappava il fiato, fino a che l’impatto lo scaraventò in un silenzio irreale.
Quando rialzò lo sguardo, non era più sul pianeta. Si trovava su una collina di sabbia nera, e sotto di lui si stendeva un campo di battaglia senza fine. Due schieramenti si sterminavano: una milizia in armature scure contro un popolo dalle vesti chiare, disperato, armato solo di ferri improvvisati. Urla, clangori e sangue si confondevano in una cacofonia che sembrava fargli vibrare le ossa.
Keith portò la mano alla spada, istintivamente, ma il ruggito di Red gli attraversò lo scheletro, pesante e doloroso: «Non sei qui per combattere. Sei qui per scegliere.»
«Scegliere? Cosa dovrei scegliere?» gridò al vuoto, la voce che si spezzava nel boato del conflitto.
La terra tremò quando, tra i corpi ammassati e il fumo, scorse una figura che si puliva la cenere dal viso. Keith si paralizzò: era Acxa. La luce del fuoco le illuminava gli zigomi, la sua figura era così viva da fargli dimenticare per un istante che nulla di quello poteva essere reale.
A poche decine di metri da lei, un centinaio di persone giacevano intrappolate sotto macerie e artiglieria, sul crinale opposto: bambini, anziani, famiglie che non conosceva, tutti sospesi in un istante di agonia congelata.
Il cuore di Keith crollò quando capì.
Davanti a lui apparve un congegno, una leva metallica che pulsava di luce cremisi. La voce di Red, sorda e implacabile, spiegò: «Una sola scelta. Se azioni la leva, quegli innocenti si salveranno ma lei morirà. Se non dovessi farlo, saranno loro a morire. Non ci sono compromessi.»
Keith annaspò, la gola secca. La spada scivolò dalla mano, conficcandosi nella terra come un atto di resa. «No… non è reale. Non può esserlo.» provò a scusarsi con se stesso.
Le urla intorno a lui però lo erano. Il calore del fuoco sulla pelle, la propria mano che toccava la leva: quelli erano reali. Ogni respiro sapeva di cenere. Ogni battito del cuore rimbombava come tamburi di guerra.
E nella sua mente, il ruggito di Red diede l’ordine che non avrebbe voluto ascoltare: «Scegli. Impara a portare il peso del leader che vuoi essere.»
Keith corse. Anche correre sembrava un tradimento, come se allontanarsi da lì fosse un atto già scritto. Raggiunse Acxa in un lampo: i suoi occhi si sollevarono verso di lui, speranza e paura confuse in un solo sguardo. «Keith?» domandò stupita, e la sola sillaba dilaniò il cuore del ragazzo.
La sua mano si tese verso di lei, ma l’illusione la allontanò in un vortice di fumo. Keith urlò, ma la sua voce non trovò eco.
Non c’era più tempo per parlare. Sul crinale lontano le sagome sotto le macerie tremolarono, un movimento che annunciava la loro fine, se non fosse intervenuto qualcosa… sapeva di dover prendere una decisione o avrebbe fallito la prova.
Pensò a Shiro, alla squadra, a Voltron. A tutte le vite salvate, e a quelle che non era riuscito a proteggere. Ogni nome, ogni volto perso era una ferita che non si sarebbe mai chiusa.
E adesso, la bilancia gli chiedeva di aggiungere un peso.
E allora, dal fumo, emerse Shiro. Non un nemico, non un alleato: la sua coscienza, che gli posò una mano sulla spalla. «Keith. Non è giusto. Non lo sarà mai. Ma comandare… significa decidere quando nessuno dovrebbe. Non ti rende malvagio. Ti rende l’unico che può.»
Le parole lo ferirono più del campo di battaglia. Keith abbassò il capo, gli occhi lucidi. Vedeva Acxa, e insieme a lei le centinaia di volti anonimi che non avrebbe mai conosciuto.
«Non posso…» mormorò. «Non posso farlo.»
Ma la prova non attendeva il suo ricorso. I suoni delle armi aumentarono e le sagome intrappolate cominciarono a urlare. Ogni secondo di esitazione diventava un assassinio silenzioso.
Keith sentì il mondo stringersi fino ad un punto, come un nodo che si poteva sciogliere con la lama: inutile scegliere di non scegliere.
Inspirò una volta, due. Gli occhi gli bruciavano. Le mani tremavano come se avessero assorbito tutto il calore del pianeta. Poi, con un gesto sgraziato, afferrò la leva.
Per un istante sembrò che il tempo stesso trattenesse il respiro.
Il rumore della battaglia cessò, le urla si fecero eco lontana. Persino il battito del suo cuore si arrestò, sospeso in quel vuoto.
E allora tirò.
La luce cremisi esplose in una tempesta che divorò il campo di battaglia. Le sagome degli innocenti si illuminarono, i macigni si sollevarono come polvere, e le loro voci gridarono di sollievo.
Dall’altra parte, Acxa si dissolse in cenere, i suoi occhi fissi su di lui fino all’ultimo, senza odio, senza accusa. Solo un silenzioso perdono che pesava più di qualsiasi condanna.
Keith urlò, ma non uscì alcun suono. La sua voce fu inghiottita dal bagliore che avvolse tutto. Il sangue che gli sporcava le mani, non era reale, ma il dolore sì: aveva scelto di sacrificare la persona che amava per salvare cento sconosciuti.
Il battito del cuore gli martellava nelle orecchie, irregolare, quasi fuori tempo, come se anche il suo corpo rifiutasse di accettare ciò che aveva appena fatto. Ogni respiro era un coltello, e il terreno sotto di lui, annerito e fumante, sembrava pulsare insieme alla sua colpa.
Il silenzio calò come una coltre. Il clangore delle armi svanì, le urla dei feriti si spensero. Persino il vento, che fino a poco prima portava con sé cenere e fuoco, si quietò, come se il mondo intero trattenesse il respiro davanti al suo dolore.
Keith rimase immobile, sospeso in quella quiete irreale. E fu allora che sentì un sussurro, caldo e familiare. Non era la voce di Acxa, non realmente, ma la sua essenza si insinuava nei ricordi di ogni momento condiviso: le risate soffocate durante una missione andata male, gli sguardi scambiati nei corridoi dell’Atlas, le mani intrecciate in fuga, le parole non dette che pesavano più di mille promesse.
Il cuore di Keith si contorse, e finalmente comprese: la prova non era solo sulla sua capacità di decidere come leader… era anche un confronto con ciò che provava davvero per lei. La paura di perderla, il desiderio di proteggerla, l’amore mai pronunciato: tutto veniva messo a nudo davanti a lui.
Le ginocchia gli cedettero e cadde a terra, le mani affondate nella polvere nera. La sentiva ancora, Acxa, o ciò che ne restava, accanto a lui come una presenza che lo abbracciava con dolcezza. Una presenza che non lo condannava, non lo accusava.
Il silenzio calò di nuovo, e in mezzo alla cenere l’illusione di Shiro si inginocchiò accanto a lui. Il suo sguardo era lo stesso di sempre: fermo, compassionevole, incredibilmente umano. «Ti odi per questo.» disse piano, posandogli una mano sulla spalla. «Ed è giusto così.»
Keith non rispose. Non riusciva a parlare.
«Ma il dolore non ti rende un mostro, Keith.» continuò Shiro, la voce bassa ma ferma. «Ti rende umano. E un leader che non sente il peso delle sue scelte, non è un leader. È un tiranno.»
Le parole caddero come pietre nell’acqua, trovando eco nel cuore di Keith. Chiuse gli occhi, e le immagini si fusero dentro di lui: il viso di Acxa che si dissolveva nella luce, le voci dei cento innocenti che tornavano a respirare, i ricordi della squadra, i sacrifici, le perdite, le rinascite. Tutto si intrecciava in un unico nodo, impossibile da districare.
Eppure, in mezzo a quel caos, sentì qualcosa di nuovo. Una quiete.
Capì che il sacrificio, pur doloroso, non cancellava l’amore che provava; lo rendeva parte della sua forza. Inspirò profondamente, e per la prima volta non cercò scuse. Non si giustificò. Non cercò di fuggire dal dolore. Accettò il peso, e accettò se stesso.
E in quell’istante, l’aria intorno a lui cambiò.
Un vento caldo cominciò a sollevarsi, portando con sé la cenere, la polvere, le voci del passato.
Poi il ruggito del Leone Rosso si fece sentire, potente e vibrante, attraversando la desolazione del campo. «Hai scelto, Keith. E ne hai portato il peso.» il terreno sotto di lui si accese di luce rossa. «Hai affrontato la paura, l’amore, la perdita. Hai imparato che il coraggio non è agire senza dolore… ma agire nonostante il dolore. Questo è ciò che significa essere il mio Paladino.» Red fece una lunga pausa, carica di riverenza. «E ora, conosci anche ciò che il tuo cuore custodisce.»
Keith aprì gli occhi di colpo.
Per un istante non capì dove fosse: il clangore delle armi, le urla, la luce cremisi, tutto era scomparso. La desolazione del campo di battaglia era svanita come nebbia al sole. Si trovava di nuovo sulla superficie vulcanica di Pyrrha: le fumarole, il terreno nero e incandescente, le colate di lava che scorrevano lente e pesanti come sangue liquido.
Non era passato nemmeno un secondo, eppure tutto dentro di lui tremava ancora per la prova.
Il respiro gli si spezzava nel petto, ogni battito del cuore un’eco del dolore che aveva vissuto. Il suolo vibrava sotto le mani, pulsando come se il pianeta stesso ne condividesse il tormento.
Accanto a lui, Shiro lo osservava in silenzio. Il suo volto era rigato di sudore e cenere, ma negli occhi c’era solo sollievo.
«Keith… sei…» la voce gli si incrinò, poi un sorriso leggero le restituì calore. «Sei vivo. Stai bene?»
Keith si tirò su lentamente, le gambe tremanti, il corpo ancora percorso da scosse di adrenalina e memoria. Inspirò a fondo, cercando di stabilizzare il respiro, ma la mente era ancora sospesa nell’eco della scelta.
Per un istante, temette di sentire la voce morente di Acxa ma c’era solo il rombo profondo della lava e il respiro del vento caldo che passava tra le rocce.
Un tremito più profondo fece vibrare la crosta sotto di loro. Il terreno si aprì in spaccature incandescenti, la lava ribollì ed un bagliore accecante, esplose dal cuore del vulcano.
Keith e Shiro si voltarono quasi all’unisono.
Un ruggito antico, immenso, scosse l’aria e Red emerse lentamente dalle profondità, sollevandosi tra la lava come una divinità che si ridestava.
La sua corazza rossa era incandescente, venata di energia viva, come se avesse assorbito la furia del pianeta stesso. Ogni giuntura pulsava, e la sua criniera di fuoco ondeggiava come un manto regale, illuminando il cielo color cremisi.
Attorno a lui, il calore divenne luce, e la cenere si alzò in vortici che danzavano come spiriti.
Keith lo osservò, ancora ansimante. Il Leone non ruggì questa volta: si chinò verso di lui con lentezza solenne, il muso a pochi metri dal paladino. I loro occhi si incontrarono, e in quell’istante Keith non vide metallo o ingranaggi, ma una coscienza antica, immensa, che lo riconosceva finalmente come suo uguale.
La mente di Keith si aprì come un varco, invasa da un’ondata di energia rovente. Red gli mostrò scene di mondi devastati scorrevano davanti agli occhi di Keith: pianeti privati di vita, flotte distrutte, quintessenza corrotta che si contorceva nell’oscurità dello spazio.
Al centro di tutto vide un galra dal mento affilato e dagli occhi bruciati dall’orgoglio, giovane e affamato di potere. Il suo nome era Morveth.
In una visione, Red mostrò il proprio rifiuto: il galra, scelto da Red in un tempo remoto, era stato respinto perché la sua rabbia non si piegava all’onore. Invece di accettare l’amaro no, Morveth si era gettato nella quintessenza corrotta, cercando di domarla, finendo invece per farsi divorare da essa.
Il suo corpo si era dissolto, ma la sua volontà, intrisa di rancore e potere, aveva assunto una forma nuova: una coscienza cosmica deformata, un divoratore di vita. Una presenza capace di corrompere la quintessenza stessa, di usarla come nutrimento.
Le immagini scivolarono davanti a Keith come sogni infranti. Morveth si muoveva nello spazio come un buco nero vivente, e ovunque passasse, la vita si spegneva.
Red ruggì, e il suono risuonò nelle ossa di Keith, nel cuore di Shiro, e persino nel magma del pianeta. «È lui…» tuonò la voce nella mente di Keith. «Lui ha risvegliato lo squilibrio. La quintessenza corrotta scorre di nuovo nelle vene dell’universo. E lui sta tornando a cercarci. A reclamare ciò che crede suo.»
Keith serrò i pugni, il respiro ancora affannoso, sentendo ogni muscolo bruciare. Ogni fibra del suo corpo bruciava ancora per la prova, ma ora il dolore aveva uno scopo. «Allora questa volta lo sconfiggeremo definitivamente.» mormorò, tra sè e sè.
Shiro gli si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla. Il suo volto si era fatto serio, ma nel tono c’era una determinazione che non lasciava spazio al dubbio. «Non possiamo combatterlo da soli, Keith. Ma adesso sappiamo chi è il nemico. Mancano solo il Leone Verde e il Leone Nero.»
Keith annuì, sentendo il peso della responsabilità gravare sulle spalle come mai prima. Il vulcano sotto di loro sembrava pulsare in sincronia con il cuore del Leone Rosso. Keith alzò lo sguardo verso Red, respirando profondamente: «Allora andiamo.»
Il Leone ruggì ancora, e stavolta il suono non era solo comando o giudizio: era promessa, guida, e un legame indissolubile tra paladino e Leone. Keith sentì la determinazione crescere dentro di sé, pronta a fronteggiare Morveth e la quintessenza corrotta, qualunque cosa sarebbe servita.
Keith posò la mano sul muso ardente del Leone, la superficie calda e viva che vibrava sotto i palmi.
Red aprì la bocca e rivelando la cabina, illuminata da bagliori cremisi. Il ragazzo esitò per un istante, rivolse a Shiro uno sguardo pieno di quella vulnerabilità che pochi avevano mai visto, un misto di paura e determinazione. Shiro annuì, e il suo sorriso era quasi paterno.
Salirono a bordo. La cabina si chiuse intorno a loro con un sussurro metallico e un calore familiare avvolse Keith, quando mi sedette ai comandi.
Red si sollevò. I propulsori si spinsero in avanti come un incendio nel cielo.
Quando il Leone Rosso scomparve tra le nubi incandescenti, la Kharil, rimasta alle loro spalle, parve piegarsi sotto la neve di cenere che scendeva lenta.
Il vulcano sospirò, esausto.
E Pyrrha, il pianeta di fuoco, tornò al suo silenzio, mentre nel cielo un bagliore rosso apriva la via verso la guerra che stava arrivando.
Chapter 7: Capitolo 6 - Katie Holt, il Paladino del Leone Verde
Chapter Text
I laboratori sulla stazione orbitale di Varnex tremarono quando il Leone Blu attraccò. Le luci di sicurezza lampeggiarono per qualche istante, poi tutto tornò stabile. L’eco del metallo e il fruscio dei sistemi di compensazione riempirono l’aria rarefatta.
Lance scese per primo ed entrò nel corridoio; Pidge lo seguì, i capelli raccolti alla meglio in uno chignon scompigliato, gli occhi già puntati sul terminale portatile per analizzare il campo gravitazionale della stazione.
«Se i miei calcoli sono giusti...» mormorò lei, sfiorando lo schermo. «Green dovrebbe trovarsi su un pianeta nascosto da una fascia orbitale di detriti, otto gradi a nord del laboratorio.»
Lance rise, spostando il peso da un piede all’altro. «E quando mai sono sbagliati?»
Lei non rispose. Per la prima volta, non era davvero sicura dei suoi calcoli. Il Leone Verde non le inviava segnali da giorni: nessun impulso energetico, nessuna risonanza captata dagli strumenti. Solo silenzio.
E Katie aveva il terrore che Morveth – così lo aveva chiamato Keith nella sua ultima comunicazione radio – l’avesse trovata.
Chiuse il palmare, trattenendo un sospiro. «Forse non è più interessata a farsi trovare da me.»
Lance si limitò a chinare la testa e a sorridere. «E se invece stesse solo aspettando che tu la smetta di ragionare come se tutto fosse un algoritmo e la ascolti davvero?»
Lei sbuffò, passandosi una mano tra i capelli, cercando di sciogliere i nodi. «Ascoltarla. Certo. E magari poi ci prendiamo anche un tè coi biscotti.»
Lance si avvicinò all’oblò della finestra panoramica. Fuori, lo spazio sembrava immobile: un mare nero disseminato di puntini bianchi, schegge di satelliti e resti di vecchie stazioni di ricerca. Ogni tanto, tra i detriti, lampeggiava un bagliore di quintessenza residua, come un battito cardiaco distante.
«Pidge, io non ci capisco molto di connessioni telepatiche o quintessenza…» disse serio. «Ma se i Leoni hanno scelto ognuno di noi, ci sarà un motivo. Green non ti ha mai voltato le spalle. Forse sei tu che hai smesso di credere in lei.»
Lei lo guardò per un secondo, sorpresa dal tono.
Abbassò lo sguardo sul palmare, osservando la mappa olografica della fascia orbitale. La traiettoria mostrava solo interferenze e punti ciechi, eppure, nel cuore del tracciato, c’era un’anomalia: una zona completamente silenziosa, priva di radiazioni, come se la realtà stessa fosse rimasta sospesa in quel luogo.
E Green amava i paradossi, i luoghi dove la logica si spezzava. Quel silenzio… sembrava proprio un invito a nozze, fatto su misura per lei.
«Va bene…» disse infine, fissandolo. «Non ho intenzione di aspettare ancora. Se Green è davvero lì, lo scoprirò di persona.»
Lance aprì la bocca per dire qualcosa, ma si fermò. Vide nei suoi occhi la determinazione che conosceva fin troppo bene, quella scintilla che nessuno avrebbe potuto fermare. Si limitò a un cenno. «So che puoi farcela da sola, ma… vuoi che venga con te?»
In quelle parole c’era una fiducia sincera che le fece sussultare un po’ lo stomaco, ancora scosso da quella situazione ambigua che si era creata tra loro durante il viaggio su NX-47.
Katie esitò un istante, osservandolo. Il suo istinto le diceva di accettare, ma quella volta non lo fece. «No. Non so che tipo di prova mi metterà davanti Green… e non voglio che tu ti metta in pericolo per causa mia.»
Lance annuì lentamente, rispettando la sua decisione anche se non era d’accordo. La guardò avviarsi lungo il corridoio principale, le luci si riflettevano sulla sua tuta verde come vetro liquido. Ogni passo che la separava da lui pesava più del precedente, eppure nessuno dei due trovò le parole per riempire quel silenzio.
Pidge attraversò il corridoio principale senza voltarsi.
Le porte automatiche si chiusero alle sue spalle con un sibilo sommesso, e per un istante tutto il laboratorio attorno a Lance parve sprofondare in un silenzio irreale. Solo il ronzio delle luci al neon e il battito accelerato nel suo petto riempivano l’aria.
Katie raggiunse l’hangar secondario, dove la sua piccola navicella d’esplorazione attendeva, sospesa tra le luci di attracco. La “Mantis”, come l’aveva soprannominata, era il suo progetto personale: compatta, agile e costruita su misura per le sue missioni di ricerca. Le paratie laterali scintillavano di riflessi verdi, a ricordarle il suo passato da Paladino.
Salì a bordo e attivò la sequenza di decollo.
«Coordinate impostate: fascia orbitale di Varnex, otto gradi nord. Destinazione non identificata. Procedere?» domandò la voce artificiale del computer.
«Affermativo.» rispose Katie, la voce ferma nonostante il nodo alla gola.
Dal vetro della cabina vide Lance ancora sulla piattaforma, minuscolo, le braccia incrociate e lo sguardo rivolto verso di lei. Si scambiarono un cenno silenzioso breve, ma pieno di significati che nessuno dei due aveva il coraggio di pronunciare.
La navicella si staccò lentamente dal suolo. Il bagliore blu dei propulsori avvolse la piattaforma e in un istante Pidge si ritrovò circondata dallo spazio profondo.
Ogni minuto che passava, la fascia di detriti si faceva più densa, le ombre più fitte. I sensori iniziarono a perdere il segnale.
«Rilevata zona di interferenza. Modificare la rotta?»
Lei ignorò l’avviso. «Negativo. Procedi.»
Le luci di bordo tremolarono, poi tutto si fece verde. Un lampo improvviso, come un battito di cuore cosmico, attraversò lo spazio e avvolse la Mantis. La navicella venne trascinata dentro la tempesta di detriti, ma invece di impattare, attraversò la materia come se fosse fumo.
Quando la luce svanì, Katie si trovò davanti a un pianeta che non compariva su nessuna mappa. Era coperto da foreste di cristalli e fiumi luminescenti che si snodavano come vene di luce nel buio. L’atmosfera brillava di sfumature verdi e turchesi, e nell’orizzonte, tra le nebbie ioniche, intravide la sagoma inconfondibile di Green: immobile, semisepolta tra radici e muschio luminescente. Il suo corpo era ricoperto da strati di cristalli, come se la natura stessa l’avesse protetto, nascondendolo alla vista. Gli occhi, spenti da almeno cinque anni, erano due laghi immobili di giada opaca.
Pidge trattenne il fiato e atterrò ai margini di una radura. I rilevatori della Mantis avevano già confermato che l’atmosfera fosse simile a quella terrestre — respirabile, stabile, ospitale — quindi si tolse il casco.
Quando il portellone della navicella si chiuse dietro di lei, Katie lasciò uscire un lungo sospiro. Avanzò lentamente. Ogni battito del suo cuore sembrava risuonare nell’aria. Davanti a lei, il Leone Verde giaceva in un silenzio maestoso.
«Green…» sussurrò, la voce più fragile di quanto volesse ammettere. «Sono io, ragazza. Se è una prova che vuoi, eccomi qui…»
Pidge si avvicinò ancora, appoggiando la mano sul muso metallico. La superficie era fredda, ma viva. Per un istante credette addirittura di sentire il battito di un cuore sotto le dita.
«So che ti sei nascosta per un motivo…» continuò, cercando di tenere la voce ferma. «Ma non posso combattere senza di te. Nessuno di noi può…»
Il vento si alzò, portando con sé un fruscio basso, quasi una risposta. Un ronzio attraversò il terreno e i cristalli che coprivano Green iniziarono a vibrare, poi a sollevarsi, sospesi da una forza invisibile. L’aria intorno alla leonessa divenne luce liquida, verde come la linfa, e il cielo stesso parve piegarsi verso di loro.
La risposta non arrivò con le parole, ma con una presenza nella sua mente, calma, vasta, eppure vicinissima che le parlava. La voce del Leone Verde vibrò come un’onda profonda che attraversava ogni pensiero. «Hai sempre creduto che la logica ti avrebbe protetta, che tua la mente potesse bastarti. Ma ora devi scegliere con ciò che temi di più: il tuo cuore.»
La luce si fece talmente intensa, che Pidge fu costretta a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, non era più nella radura.
Il tempo sembrava essersi piegato su sé stesso, la vegetazione si muoveva controvento, i raggi di luce si frantumavano in schegge di vetro sospese nell’aria, e il terreno pulsava di energia verde. Si trovava in un luogo impossibile, sospesa in un’ampia distesa dove cielo e terra erano lo stesso elemento.
Ogni passo produceva delle piccole onde, come se stesse camminando sull’acqua. E davanti a lei, tra i riflessi tremolanti, c’era qualcuno.
Una figura minuta, i capelli corti e spettinati, gli occhiali enormi leggermente storti sul naso. Tutto, nel modo in cui stava in piedi di fronte a lei, le era familiare: la tensione, l’irrequietezza, la volontà di non mostrare paura.
Katie si irrigidì. La ragazza davanti a lei, era lei stessa – o meglio, una versione più giovane, con uno sguardo carico di una rabbia che la vera Pidge ricordava fin troppo bene.
«Che… cosa?» fece un passo indietro, cercando di mettere a fuoco l’immagine. «Chi sei?»
«Non fingere di non capire…» rispose l’altra, incrociando le braccia. «Tu sai chi sono. Io sono te… o meglio, una te che ha preso una strada diversa.»
«Cosa vuoi dire?»
La giovane Pidge inspirò a fondo. «Vengo da un momento diverso della tua vita. Quando su Arus, all’inizio della nostra avventura, tu hai scelto di rimanere con Voltron invece di andare a cercare Matt e papà. Tu hai deciso di unirti alla causa di Allura, mentre io di scappare, lasciare tutto il resto e cercarli da sola. Credevo che seguire solo il cuore fosse l’unico modo per salvarli.»
Le parole colpirono Katie come un pugno. Sapeva che sarebbe entrata in un’illusione, glielo aveva detto Lance dopo aver superato la sua prova, e Hunk e Keith glielo avevano confermato, ma non immaginava tanto.
La tensione che aveva provato in quei giorni le tornò in mente: la paura di perdere la sua famiglia, la rabbia di non sapere dove fossero, l’urgenza di dover proteggere anche gli Arusiani da Zarkon… e il desiderio di non dover fare mai più affidamento su nessuno. Questa era stata lei, una volta, prima che la sua razionalità prendesse il sopravvento e la spingesse a non abbandonare Voltron, Allura, Coran, i Paladini… Lance!
«Cosa vuoi da me?» le chiese.
La giovane Pidge indicò l’aria intorno a loro, dove le particelle di luce e energia verde vibravano e si piegavano in geometrie impossibili. «Green ha creato questo frammento temporale in cui lo spazio e il tempo si sono piegati per permetterci di incontrarci. Non stiamo cambiando il passato… siamo qui, in questa finestra sospesa, solo per questa prova.»
«Quindi sei solo una simulazione.» disse infine, quasi per convincersi. «Una proiezione di Green.»
L’altra rise, secca. «Ti nascondi ancora dietro le tue definizioni, eh? Non sei cambiata per niente.»
«Io non mi nas…»
«CERTO CHE LO FAI!» la interruppe l’illusione, avvicinandosi di un passo. «Hai passato tutta la tua vita a farlo! A nasconderti dietro i numeri, le formule, la logica… a cercare di capire tutto e di etichettarlo, a reprimere ogni tua emozione fino a non sentire più nulla!»
Katie la fissò, incapace di replicare subito. La giovane continuò, incalzante. «Ogni volta che ti sei trovata davanti a una scelta difficile, hai fatto la cosa giusta… quella giusta per tutti tranne che per te! Ti sei convinta che sacrificare ciò che volevi fosse sinonimo di forza, di maturità. Ma in realtà era solo paura. Paura di fallire, paura di perdere il controllo, paura di… aprirti.»
Le parole si fecero più taglienti, e per un istante Pidge provò la strana sensazione di essere davvero trafitta da se stessa. Strinse la mascella, le dita che tremavano impercettibilmente ai lati del corpo. «E TU INVECE?» ribatté, la voce bassa ma tagliente come una lama. «SEI SCAPPATA! Hai lasciato tutti, hai lasciato la missione… HAI LASCIATO LORO! Ti sei lanciata nel vuoto inseguendo un sogno, senza un piano, senza pensare a chi contava su di te!»
La giovane Pidge le si mise quasi faccia a faccia, gli occhi lucidi ma duri. «ALMENO IO HO SCELTO CON IL CUORE!» gridò, la voce incrinata. «Tu hai lasciato che fosse la tua stupida razionalità a scegliere per te! Hai detto addio a Matt, a papà… e a lui!»
Katie spalancò gli occhi, sorpresa. «Lui?»
L’altra sorrise, un sorriso che era insieme triste e feroce. «Lance. Non fingere di non sapere. Hai passato anni a negarlo, a nasconderlo dietro il sarcasmo, a chiamarlo “idiota” per non ammettere che ti mancava ogni volta che non era nella tua orbita.»
Katie aprì la bocca per rispondere, ma nessuna parola uscì. L’aria sembrava essersi fatta più pesante, intrisa di quella luce verde che ora pulsava come un battito cardiaco, sincronizzata con il loro respiro.
«Tu pensi di aver vinto perché hai saputo restare lucida, perché hai guidato missioni, ricostruito basi, salvato mondi.» continuò l’altra, la voce più bassa, quasi un sussurro. «Ma dentro, lo sai anche tu: ogni volta che lui ti guardava, una parte di te cedeva. E tu la seppellivi, la chiamavi debolezza, la nascondevi dietro le equazioni. Ma non puoi calcolare tutto, Katie. Non puoi programmare il cuore.»
L’energia attorno a loro iniziò a vibrare, come se il mondo stesso reagisse al conflitto. Le onde di luce si fecero più violente, distorcendo la realtà. E fu allora che, tra le fratture dello spazio, comparve una sagoma familiare. Fluttuava a pochi metri da terra, immerso in una luce pallida.
Sembrava addormentato, o sospeso. Ogni volta che le due Pidge si gridavano contro, la sua forma diventava instabile, come se la tensione tra loro lo spezzasse.
La giovane Pidge lo vide per prima. «LANCE!» urlò, la voce incrinata da un misto di sorpresa e terrore. Corse verso di lui, ma una barriera di energia la respinse con violenza, scagliandola indietro. Un lampo verde e bianco esplose tra loro, lasciandola a terra, il respiro mozzato.
Katie si lanciò istintivamente verso di lei, inginocchiandosi. «Ehi! Stai bene?»
L’altra tossì, il viso contratto. «Cosa… cosa diavolo è successo?»
Katie lo fissò, lo stomaco stretto in un nodo. «È un costrutto di quintessenza… ma è legato a noi. Alle nostre frequenze emotive.»
«Cosa?» chiese l’altra, il tono carico di panico e rabbia. «Vuoi dire che se non smettiamo di litigare, lo distruggeremo?»
La Katie adulta annuì lentamente, e per un lungo momento, rimasero entrambe in silenzio. L’aria intorno a loro vibrava come una corda tesa, e ogni loro respiro faceva pulsare il campo energetico che avvolgeva Lance.
Le onde di luce si attenuarono leggermente, ma non del tutto. Il corpo del ragazzo continuava a svanire, pixel dopo pixel, come un’immagine digitale che perde risoluzione. Un braccio, poi una spalla, poi il contorno del volto: dissolti in una danza crudele di luce e vuoto.
Katie si avvicinò, inginocchiandosi di fronte a lui. La sua mano tremò mentre cercava di toccarlo, ma le dita attraversarono solo aria e scintille verdi. «Non è davvero lui…» mormorò, quasi per sé stessa. «È solo un’illusione. Il vero Lance è su Varnex, e probabilmente sta giocando ai videogiochi.» tentò un sorriso ironico, ma la voce le si incrinò a metà frase.
L’altra si avvicinò piano, stringendo i pugni. «Non importa!» disse con voce tremante. «Io… non voglio perderlo. Anche se non è reale.» si voltò verso Katie, gli occhi lucidi, ma lo sguardo ancora fermo, razionale, come se volesse analizzare anche il proprio dolore. «È sempre stato così, vero? Anche quando era reale, anche quando era con noi… non ci siamo mai concesse di amarlo davvero.» fece un mezzo sorriso amaro. «Lo tenevamo a distanza. Lo prendevamo in giro, lo rimettevamo in riga quando si comportava da idiota, cercavamo di capire come funzionava la sua testa ma non abbiamo mai avuto il coraggio di guardarlo per ciò che era. Non il pilota impulsivo, non il ragazzo che faceva battute… ma la persona che resisteva sempre, anche quando tutti gli altri cadevano a pezzi.»
Quelle parole colpirono Katie come un pugno. La razionalità che l’aveva sempre guidata si incrinò, un frammento dopo l’altro. Non voleva ammetterlo, ma anche lei provava la stessa paura: perdere Lance, perderli tutti, perdere sé stessa.
«E se Green non volesse che scegliamo chi ha ragione?» disse, alzando lo sguardo sull’altra. «E se volesse che smettessimo di dividerci?»
La giovane Pidge esitò. «Che vuoi dire?»
«Che forse non c’è una Katie giusta e una sbagliata. Solo due metà che non hanno mai imparato a lavorare insieme.»
Si guardarono a lungo. Poi, lentamente, la più giovane tese la mano. «Allora… facciamolo insieme.»
Katie esitò un istante, poi la afferrò.
Una luce verde esplose intorno a loro, avvolgendole in un bagliore caldo e intenso che fuse i loro contorni, le loro voci, i loro ricordi. Per un attimo, Katie vide la sé stessa bambina, e sé stessa adulta, e tutto ciò che c’era nel mezzo: la rabbia, la paura, la curiosità, l’amore mai pronunciato. E nel cuore di quella luce, Lance aprì gli occhi e sorrise.
La voce di Green le ronzò con energia profonda e vibrante nella mente. «Hai trovato il tuo equilibrio! Non hai rinnegato la tua razionalità, ma hai scelto di seguire anche un’altra strada. È questo che ti rende degna di me.»
Quando tutto finì, Pidge era sola nella radura. Green brillava davanti a lei, gli occhi finalmente accesi, due soli di giada pura. Katie si portò una mano al petto, il respiro ancora affannoso. Per la prima volta da anni, non era stata la mente a salvarla. Era stato il cuore. La prova non era solo la sua abilità o il coraggio fisico, ma il coraggio di ammettere, accettare e seguire ciò che sentiva davvero.
Il Leone si chinò, come per salutarla.
Katie sorrise debolmente. «Ehi ragazza. Stavolta mi hai insegnato molto.»
Il terreno vibrò mentre una voce familiare dietro di lei, ruppe il silenzio. «Ehi, nerd. Potresti anche smettere di farmi prendere un infarto, ogni volta che decidi di fare la tosta da sola.»
Katie si voltò di scatto.
Lance era lì. In carne e ossa. La visiera del casco blu sollevata, i capelli arruffati, il respiro corto. Alle sue spalle, il Leone Blu si posava con un ruggito profondo, la luce dei motori che sfumava nel verde di Green.
«Come… come hai fatto ad arrivare qui?» chiese lei, incredula.
«Ho tracciato il navigatore della Mantis. Non potevo lasciarti andare da sola.» rispose, con un mezzo sorriso stanco ma sincero. Poi si avvicinò di un passo. «Quando il segnale è sparito, pensavo…» si fermò, la voce che gli si spezzava appena. «Pensavo di averti persa.»
Pidge rimase immobile. Il cervello le diceva di rispondere con una battuta sarcastica, come sempre, ma la mente era decisamente troppo stanca per pensarla.
«Non dovevi venire.» riuscì solo a dire, ma la voce le tremò.
«Lo so, sei forte e ce l’avresti fatta tranquillamente da sola.» ammise Lance. «Ma se ti fosse successo qualcosa e io fossi rimasto fermo a guardare… non me lo sarei mai perdonato.»
Il cuore di Katie si strinse. Per anni aveva creduto che tenere tutto dentro l’avrebbe protetta, che ignorare ciò che sentiva fosse l’unico modo per restare lucida. Ma dopo aver affrontato sé stessa, non poteva più mentire.
«Lance…» iniziò, cercando le parole, ma lui la interruppe piano.
«Pidge, se devi rimproverarmi per essere venuto, fallo dopo. Adesso voglio solo sapere se stai bene.»
Katie rise piano. «Sto bene. Credo.»
Fece un passo verso di lui, poi un altro. Ogni battito del cuore sembrava più forte del precedente.
«Lance, io… ho passato anni a pensare che se mi fossi lasciata distrarre da… certe cose, avrei smesso di essere me stessa. Che i sentimenti mi avrebbero solo confusa. Ma…»
Si fermò davanti a lui, così vicina che riusciva a vedere la stanchezza e la paura ancora nei suoi occhi. «Ma tu sei diventato la cosa più chiara che ho. E non lo sapevo finché non ho rischiato di perderti.»
Lance la guardò, immobile. Qualcosa nei suoi occhi cambiò, un’ombra di esitazione, quasi un dolore trattenuto. «E James?» chiese piano, la voce incrinata appena. «Pensavo che… voi due…»
Katie lo fissò, sorpresa. Per un istante non capì se stava cercando una conferma o una scusa per allontanarsi. Poi scosse lentamente la testa. «James è stato… un capitolo che non è mai davvero cominciato. Mi voleva bene, e io gli volevo bene, ma non era amore. Era solo più… facile. Non rischiavo niente con lui.»
Abbassò lo sguardo, inspirando piano. «Tu, invece, sei sempre stato un rischio. Troppo grande, troppo vero. E forse per questo ho passato anni a negarlo.»
Lance fece un passo avanti. Nei suoi occhi non c’era più esitazione, solo un calore sincero, disarmante. «Allora smetti di negarlo.»
La sua voce era bassa, ma ferma, piena di quella verità che non aveva più bisogno di essere nascosta. Fece una breve pausa, poi aggiunse, quasi sussurrando: «Sai, nella mia prova… ho dovuto lasciar andare. Allura. Per davvero. E in quel momento ho capito chi era rimasta accanto a me per anni, anche quando non me lo meritavo.»
Katie restò immobile, il respiro sospeso. Quelle parole le colpirono, inarrestabili.
Lance continuò, un accenno di sorriso amaro sulle labbra. «Tu, Pidge. Sei sempre stata lì. Quando tutto crollava, quando io facevo finta di stare bene… tu c’eri.»
Le mani di lui si mossero da sole: una sulla sua spalla, l’altra a sfiorarle il viso. Katie si lasciò toccare, senza scappare, senza cercare una risposta razionale.
«Finalmente…» sussurrò Lance. «Finalmente per una volta ti sei concessa di essere irrazionale.»
Lei rise piano, con le lacrime che le bruciavano agli occhi. «Sì… e mi spaventa da morire.»
«Lo so.»
Poi la tirò a sé, e lei lo abbracciò, con la forza di chi ha combattuto per troppo tempo contro sé stessa.

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